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sabato 19 giugno 2021

Il pensiero degli Stoici: Zenone, Cleante, Crisippo, Panenzio, Posidonio, Seneca, Musonio, Epitteto, Marco Aurelio.

 

Zenone di Cizio

Zenone di Cizio (Cizio, 336-335 a.C. – Atene, 264-263 a.C.) fu un pensatore greco antico di origine fenicia che, con le sue orazioni pubbliche, diede il via alla corrente filosofica dello Stoicismo.


Essendo figlio di un mercante di Cizio, una località situata sull’isola di Cipro che, all’epoca dei fatti, costituiva un punto nevralgico per i commerci tra il mediterraneo orientale e quello occidentale, il giovane Zenone tentò di seguire le orme del padre.


Ma il suo destino era già stato scritto: egli sarebbe diventato un grande filosofo. Fu così che, in seguito ad un naufragio, il fato lo condusse ad Atene.


In questa città Zenone, che in passato si era già formato sui testi socratici, divenne scolaro del pensatore cinico Cratete di Tebe.


Negli anni a venire, egli subì anche l’influenza del pensiero megarico, per opera di Stilpone di Megara e di Diodoro Crono, e della filosofia di stampo platonico, per opera degli accademici Senocrate e Polemone.


Attorno al 300 a.C., raggiunta la maturità di pensiero, decise di fondare una scuola filosofica, in cui esporre la propria visione del mondo.


Essendo sprovvisto di una dimora, Zenone teneva lezione in un portico situato nella zona settentrionale dell'agorà di Atene che era stato dipinto dall’artista Polignoto di Taso: la Stoà Pecile (in greco antico: στοὰ ποικίλη, Stoà poikíle).


Per questo motivo, al movimento filosofico di Zenone furono attribuiti i nomi “Stoà” e “Portico”, mentre per riferirsi ai suoi seguaci si diceva “quelli della Stoà” o “quelli del Portico”: fu così che nacque lo stoicismo e con esso gli stoici.


Nonostante non vi sia modo di individuare con precisione le concezioni effettivamente prodotte da Zenone, isolandole dal complesso dottrinale comune alla stoicismo, l’elaborazione delle tesi fondamentali di questa corrente di pensiero viene fatta risalire al fondatore della Stoà.


La vastità e la grandezza del pensiero di Zenone può essere intuita dai titoli delle sue numerose opere, di cui disgraziatamente sono giunti fino ai nostri giorni soltanto dei frammenti e delle testimonianze:


Lo stato; Della vita conforme a natura; Dell'istinto o della natura umana; Delle passioni; Del dovere; Della legge; Dell'educazione greca; Della vista; Dell'universo; Dei segni; Dottrine di Pitagora; Universali; Dei modi stilistici; Questioni omeriche; Della lettura dei poeti; Arte retorica; Soluzioni; Confutazioni; Memorie di Cratete; Dissertazioni; Sulla Teogonia di Esiodo; Logica; Dell'essere; Della natura; Aneddoti morali.


Ciò che si può sostenere con ragionevolezza, è che Zenone abbia tripartito la filosofia in tre campi: l’etica, la fisica e la logica, e che per primo abbia inteso quest’ultima come una disciplina a se stante, ritenendola degna di studio di per sé.


La sua concezione era incentrata sul concetto di logos, tanto è vero che la logica zenoniana può essere intesa come una scienza del logos.


E siccome il termine logos designa sia la ragione che il discorso, il compito della logica, secondo Zenone, consiste nello studiare sia i ragionamenti che le proposizioni con le quali essi possono essere espressi.


Di pertinenza della logica è anche la gnoseologia, cioè lo studio dell’origine della conoscenza. In tal caso, però, non siamo in grado di dire se la celebre dottrina della rappresentazione catalettica, riassumibile nell’equazione verità = sensazione + assenso, che fu proposta dagli stoici come criterio di verità, sia stata definita o soltanto intuita da Zenone.


Ciò che è noto, è che per il fondatore della Stoà lo scopo principale non era quello di acquisire conoscenza rispetto alla realtà esterna, ma piuttosto di volgere lo sguardo all’interiorità, al fine di ottenere una più profonda autocoscienza, perché soltanto in questo modo l’individuo avrebbe potuto operare in conformità alla propria vera natura.


Per quanto riguarda la fisica, si può sinteticamente dire che Zenone concepì l’universo come un grande organismo vivente dotato di ragione, in cui ogni singola cellula è perfettamente e finalisticamente guidata dal logos.


Per dimostrare che il mondo è dotato di ragione, egli ricorreva anche a dei sillogismi simili al seguente: «Ciò che fa uso della ragione è superiore a ciò che ne è privo; ma siccome non c'è nulla di superiore al mondo, il mondo ha l'uso della ragione».


Dato che la natura è sorretta da una provvidenza immanente, che ha l’attributo dell’assoluta razionalità, il compito dell’essere umano si riduce al riconoscere l’esistenza della ragione universale per adeguarsi alla sua volontà.


Felice è colui che adegua il suo flusso di vita all’ordine delle cose determinato dal logos, abbracciando il proprio destino.


«Il sommo bene», dice Zenone, «è vivere in coerenza con la natura». E siccome la natura altro non è se non la manifestazione della ragione universale, vivere in accordo con la natura significa vivere secondo ragione.


Ogni ostacolo che si oppone alla realizzazione di questo dovere va eliminato: da qui discende la dura condanna stoica nei confronti delle passioni.


Zenone definì le passioni come «un correre sbigottito dell'anima» e sostenne anche che esse fossero l’unico vero male da cui l’essere umano si sarebbe dovuto liberare.


Il piacere, invece, non veniva considerato né come un bene né come un male: egli lo reputava indifferente.


Il rigorismo etico fu senza alcun dubbio un tratto che appartenne alla figura storica del fondatore della Stoà, tanto è vero che egli arrivò a sostenere che il lasciarsi vincere dalle preghiere e distogliere dalla giusta severità non fosse un’attitudine degna di un uomo forte.


A suo avviso, la virtù fondamentale dell’essere umano è da individuarsi nell'intelligenza. Essa è una sola e coincide con la razionalità del logos, anche se può essere declinata in vari modi.


Così nel campo degli ostacoli e dei pericoli, l’intelligenza diviene fortezza; in quello delle risoluzioni ed esecuzioni, si manifesta come prudenza; nella distribuzione delle cose, è detta giustizia.


Anche in Zenone s’intravede quel peculiare rapporto col suicidio che fu proprio dei seguaci della Stoà, i quali, contrariamente al senso comune, ritenevano che l’atto del togliersi la vita fosse una scelta legittima e razionale per terminare la propria esistenza.


«Un male non può essere glorioso», dice il fondatore dello stoicismo in uno dei suoi sillogismi, «ma siccome esiste una morte gloriosa, la morte non può essere considerata come un male».


Ad onor del vero, neanche il modo in cui l’esistenza di Zenone ebbe fine è noto con certezza; alcuni sostengono che morì consunto dalla vecchiaia, altri invece che scelse stoicamente di togliersi la vita, pronunciando le seguenti parole: «Vengo da me; perché mi chiami, o morte?».


Cleante di Asso

Cleante di Asso (Asso, 330 a.C. circa – 232 a.C. circa) fu un filosofo greco antico che si appassionò a tal punto alla dottrina stoica da aggiudicarsi il ruolo di secondo scolarca della Stoà.


Venuto alla luce sulle sponde occidentali della Turchia, nella cittadina di Asso, il giovane Cleante spiccava per la sua forza fisica, che mise a frutto praticando l’arte del pugilato.


Qualche anno più tardi si recò ad Atene, ripose le fasce di cuoio da combattimento e scelse di dedicarsi completamente alla filosofia.


Inizialmente prese parte alle lezioni di Cratete il cinico ma poi rimase ammaliato dal pensiero di Zenone di Cizio e fece di tutto per diventare il suo allievo più devoto.


Essendo povero, ma volendo dedicare ad ogni costo le sue giornate allo studio della filosofia, Cleante fu costretto a sacrificare il suo riposo per mantenersi svolgendo un lavoro notturno durissimo.


Un giorno accadde che venne convocato nell’Areopago dai tutori della legge per render conto della sua condizione, perché agli occhi dei cittadini di Atene il nuovo arrivato trascorreva tutto il tempo frequentando le lezioni impartite da Zenone nella Stoà Pecile, pur essendo (apparentemente) privo di mezzi di sussistenza.


Ma non appena i giudici scoprirono che, per condurre una vita da filosofo, Cleante prestava servizio ogni notte come portatore d’acqua per conto d’un giardiniere del posto, essi rimasero talmente colpiti da ricompensarlo con una grande donazione di denaro.


Essendo dotato di una pazienza proverbiale, ed avendo dato ampia prova delle sue elevate doti morali, ben presto Cleante divenne stimato e rispettato da tutti i membri della Stoà.


Alla morte di Zenone, egli venne nominato scolarca e continuò a svolgere il ruolo di direttore della scuola del suo maestro per tutto il resto della propria esistenza.


Pur avendo composto una cinquantina di opere (prevalentemente di carattere morale), di cui purtroppo ci restano soltanto i titoli ed alcuni frammenti, ed un pregevole poema strutturato in esametri intitolato Inno a Zeus, che contiene una sintesi estrema dei capisaldi dello stoicismo, il pensiero di Cleante non si differenziò di molto da quello di Zenone.


Al netto di alcune sfumature, egli seppe conservare l’eredità filosofica del suo maestro e la difese abilmente dagli attacchi mossi dagli esponenti delle altre scuole di pensiero.


Tra i seguaci dell’antico stoicismo, Cleante è colui che più di tutti cercò di conciliare la dottrina della Stoà con la religione dell’epoca.


Celebre è il suo accostamento della figura di Zeus al concetto di logos, di cui si ha una chiara testimonianza nell’inno che egli stesso compose in lode a questa divinità.


D’altro canto, fu sempre Cleante che, ispirandosi alle dottrine di Eraclito, identificò per primo il logos con il fuoco artigiano primigenio, inteso come forza produttrice ed ordinatrice di tutte le cose del mondo.


La svolta più consistente rispetto alle dottrine di Zenone fu impressa però da Cleante nel campo della gnoseologia: egli, infatti, accentuò il carattere realistico del concetto di rappresentazione, intendendola come impressione, o stampa, degli oggetti del mondo nell’anima umana.


Il questo modo il campo d’interesse della gnoseologia stoica veniva ampliato affiancando all’originario obiettivo dell’autocoscienza interiore, quello della conoscenza dei livelli ontologici esterni all’individuo.


Siccome la ragione da cui dipende la razionalità dell’essere umano è la stessa che è posta a fondamento dell’universo, la pretesa di estendere il processo conoscitivo anche alle cose della realtà risultava fondata.


I concetti di vero e falso vennero intesi in relazione all’aderenza tra il pensiero e ciò che esiste nella realtà, ed il criterio di verità fu riposto nell’assenso che l’individuo può concedere nei confronti della rappresentazione di un dato fenomeno.


Pertanto, pur traendo origine dalla sensazione, l’ottenimento della conoscenza delle cose del mondo richiedeva l’espressione di un giudizio razionale operato tramite l’intelletto, affinché l’individuo fosse sicuro che l’evidenza risultasse effettivamente tale: fu così che la rappresentazione stoica divenne catalettica.


Cleante espresse la propria opinione anche sull’anima umana: essa è corporea, perché se così non fosse non riuscirebbe a vivificare il corpo fisico degli individui interagendo con esso compenetrandolo in ogni sua più intima parte, ma ha una natura fluida, non atomistica, condivisa anche con la materia che compone l’universo (ciò spiega la compenetrabilità dell’anima nel corpo).


Inoltre, l’anima sopravvive alla morte del corpo fisico, fin quando, alla fine del grande anno avverrà una conflagrazione universale e si rifonderà con l’anima del mondo: il logos.


In ambito etico Cleante sostenne che il fine dell’uomo consiste nel condurre una vita in conformità alla natura, intese la virtù al pari di una forza ed esortò gli esseri umani ad abbracciare il proprio destino, assecondando la volontà della ragione universale.


La sua esistenza terrena ebbe fine all’età di 99 anni, quando, a causa di un’ulcera, fu costretto ad un lungo digiuno.


Nonostante fosse guarito da quella malattia, Cleante scelse comunque di togliersi la vita continuando ad astenersi dal cibo, perché ormai, a suo avviso, avendo già compiuto gran parte del cammino che lo separava dalla morte, non avrebbe trovato alcuna difficoltà nel giungere alla sua ultima meta.


Crisippo di Soli

Crisippo di Soli (Soli, 281 a.C./277 a.C. – Atene, 208 a.C./204 a.C.) fu uno dei massimi esponenti dell’Antica Stoà.


Cresciuto nei pressi di Tarso, ad un certo punto della sua vita decise di trasferirsi ad Atene per dedicarsi alla filosofia.


Frequentando la Stoà, rimase talmente colpito dall’assoluta fedeltà che Cleante di Asso esercitava nei confronti del suo maestro Zenone di Cizio, al punto da volerne imitare le gesta.


Fu così che Crisippo divenne uno scolaro devoto a Cleante. Ben presto, però, la sua esuberanza lo portò a superare di misura il proprio maestro, sia in operosità che per l’originalità delle conquiste intellettuali ottenute.


Sul suo conto si dice che fosse un amante della disputa e che nelle discussioni argomentasse sia in favore che contro rispetto alle possibili posizioni, mandando su tutte le furie alcuni dei suoi interlocutori.


Crisippo fu anche uno degli scrittori più prolifici dell’antichità; mettendo su carta non meno di 500 linee al giorno, si dice che nel corso della sua vita riuscì a comporre 705 opere, di cui disgraziatamente non ci restano che alcuni frammenti.


Si sa però che, nonostante la sua vivacissima ed ammirevole capacità dialettica, la prosa di Crisippo risultava pedante e poco curata, tanto è vero che la sua prolissità, definita da donnicciola, fece sì che i suoi detrattori gli attribuissero il nomignolo canzonatorio di “Crisippa”.


D’altro canto, la sua poderosa opera di ampliamento e sistematizzazione della dottrina stoica, lo consacrò come il secondo fondatore (o padre) dello stoicismo e gli fece assumere la direzione della Stoà, succedendo a Cleante nel ruolo di scolarca.


Si consideri che la grandiosa elaborazione dello stoicismo data da Crisippo rese la Stoà una delle più importanti scuole di pensiero del mondo greco-romano e storicamente finì per imporsi come la dottrina stoica di riferimento esposta nella sua formulazione più matura.


Nel campo della logica, egli ampliò la teoria sillogistica di Aristotele studiando il sillogismo ipotetico e formalizzò per primo la logica proposizionale.


Concentrandosi sull’analisi delle proposizioni, cioè di enunciati elementari che possono essere veri o falsi opportunamente collegati con dei connettivi, come ad esempio “e”, “o”, “non” e “se...allora”, Crisippo riuscì ad individuare alcuni schemi di ragionamento fondamentali, detti anapodittici, ritenuti validi ma indimostrabili, in quanto autoevidenti.


Tra di essi citiamo, a titolo di esempio ed usando la nomenclatura successivamente introdotta dai logici medioevali, il modus ponens:


1) Se A, allora B (se piove, allora la strada è bagnata).

2) A (piove);

3) dunque B (dunque la strada è bagnata).


Il modus tollens:


1) Se A, allora B (se è giorno, allora c'è luce).

2) Non B (Ma non c'è luce);

3) dunque non A (dunque non è giorno).


Crisippo fornì anche le definizioni dei connettivi logici in termini vero-funzionali, cioè in base al comportamento rispetto alla verità ed alla falsità delle proposizioni da essi interessati.


Così, ad esempio, sostenne che il connettivo “e”, che lega le proposizioni A e B, risulta vero se sono veri sia A che B, mentre risulta falso in tutti gli altri casi, cioè non appena A, B, o entrambi, sono falsi.


In altre parole la congiunzione di A con B, attraverso il connettivo “e” (in simboli “A e B”) risulta versa se e solo se gli enunciati A e B sono simultaneamente veri. Ogni altra diversa assegnazione dei valori di verità di A e B rende la congiunzione di quest’ultimi falsa.


A

B

A e B

Vera

Vera

Vera

Vera

Falsa

Falsa

Falsa

Vera

Falsa

Falsa

Falsa

Falsa


Per quanto riguarda la gnoseologia, Crisippo riaffrontò il problema dell’ottenimento di una conoscenza certa e sicura rispetto alle cose del mondo.


Negando l’esistenza dell’Iperuranio, cioè del mondo delle idee concepito da Platone, ed affermando che le idee sono soltanto dei pensieri, egli ribadì la preminenza del mondo corporeo direttamente percepibile attraverso i sensi.


La realtà per Crisippo è popolata da un’infinita varietà di singoli corpi individuali ed è soltanto rispetto ad essi che si può avanzare la pretesa di una conoscenza certa e sicura.


Il criterio della verità viene riposto nella rappresentazione, o fantasia, catalettica, vale a dire nel duplice atto che per prima cosa percepisce le cose del mondo attraverso i sensi e successivamente, dopo averle riprodotte nella mente, le intende attraverso un atto volitivo, con il quale l’individuo sceglie razionalmente se dare, negare o sospendere, il proprio assenso sulla base dell’evidenza.


La fisica di Crisippo è interamente incentrata sul concetto di logos; con questo termine egli intendeva la ragione universale che compenetra e vivifica ogni cosa, ordinandola secondo la sua volontà razionale.


Il logos veniva anche inteso come un fuoco eterno ed era ritenuto responsabile, non solo dell’ordine, ma anche degli infiniti cicli di nascita e morte del cosmo.


Secondo Crisippo, infatti, tutti gli elementi sono prodotti dal fuoco attraverso un processo di differenziazione e sono da esso animati secondo un meccanismo di causa ed effetto.


E così come i corpi sono soggetti ad aggregazione e disgregazione, anche l’universo, pur essendo eterno, è destinato a nascere e a perire, dando luogo ad un processo periodico di rigenerazione.


Sicché, ad intervalli di tempo regolari, si verifica una grande conflagrazione ed ogni cosa ritorna nel fuoco originario. A questo punto si avvia un nuovo ciclo, in cui tutto ciò che è già esistito ed accaduto, rinasce e riaccade nello stesso identico modo, per l’eternità.


Anche per Crisippo il cosmo intero è come un animale razionale ed in quanto tale è dotato di anima. Il mondo, invece, ha la forma di una sfera ed è immerso nel vuoto.


L’azione immanente e necessaria del logos fa sì che su ogni cosa domini il fato. E siccome la ragione universale è anche perfetta razionalità, il fato è al tempo stesso anche provvidenza, giacché il logos fa in modo che le cose siano ordinate in senso finalistico, sempre e comunque nel migliore dei modi possibili.


Sul piano etico Crisippo pose come fine ultimo dell'attività umana la felicità, intendendola come vita pienamente razionale spesa in modo conforme alla natura dell’universo.


Di conseguenza, siccome la natura è essa stessa ragione, può dirsi felice soltanto chi opera secondo virtù, ovvero chi è in grado di condurre un’esistenza schiettamente razionale: è questa la condizione propria del sapiente.


Questo stato di coscienza è raggiungibile perché ogni essere umano partecipa del logos, in quanto ciascun individuo è dotato di un’anima che è una parte dell’anima del mondo.


Egli però, a differenza di Cleante, non professava l’immortalità dell’anima, definita come un soffio caldo ed infuocato, ma riteneva che soltanto le anime dei sapienti acquisissero il diritto di sopravvivere alla morte del corpo fisico, come se ciò fosse uno sorta di ricompensa, o di privilegio, riservato soltanto ai virtuosi.


In ogni caso, alla fine, anche l’anima dei saggi è destinata a dissolversi, ricongiungendosi con l’anima del mondo, nel corso della successiva conflagrazione cosmica.


Per Crisippo, durante lo svolgersi dell’esistenza mortale, le passioni del corpo intervengono a porre freno al raggiungimento della piena razionalità dell’anima umana, allontanando la condotta morale dalla completa virtù.


Fu per questo che egli arrivò a prescrivere la radicale estirpazione degli appetiti e degli affetti come prerequisito per l’ottenimento della retta ragione.


Di conseguenza, il “bene” per Crisippo è tutto ciò che contribuisce alla felicità, ovvero alla virtù, come la temperanza e la giustizia; il “male”, invece, è tutto ciò che vi si oppone, come la smodatezza e l’ingiustizia. Ciò che non rientra in queste due categorie è giudicato “indifferente”.


Ad esempio, per Crisippo la salute, la bellezza e la vita stessa, assieme ai loro contrari, malattia, bruttezza e morte, non possono essere considerate né come utili né come dannose per l’esercizio della virtù, la quale dipende esclusivamente da una disposizione interiore.


Viene così a delinearsi una netta contrapposizione: da un lato vi è il sapiente che, grazie alla scienza dovuta alla sua capacità di comprendere la ragione universale, conduce un’esistenza perfettamente razionale, seguendo esclusivamente le disposizioni virtuose dell’anima.


Per questo motivo egli fa sempre tutto bene, possiede tutti i beni ed è sempre felice, a prescindere da quale sia la sua sorte.


Dall’altro vi è l’insipiente, vale a dire lo stolto, che, a causa della sua ignoranza nei confronti del logos, opera sempre nell’errore; di conseguenza, egli è attratto dai mali e pratica azioni viziose, come se vivesse in un perenne stato di pazzia.


Per stemperare i tratti paradossali dovuti a questa rigida dicotomia, Crisippo affiancò alla retta ragione del saggio, i doveri praticati dalla gente comune.


Così, mentre sosteneva che i sapienti operassero secondo virtù, agendo scientemente in completo accordo con la ragione universale, concedeva agli stolti la possibilità di agire in modo conveniente secondo la loro natura e l’utilità sociale dettata dalle norme comunemente accettate, senza per questo che vi fosse una piena e consapevole intenzione virtuosa.


Inoltre ammise che tra le cose classificate come indifferenti alcune di esse potessero a loro volta essere giudicate come preferibili in quanto ritenute pregevoli di per sé.


Un’altra delle aporie a cui Crisippo cercò di porre rimedio, gli fu fatta notare da alcuni esponenti delle scuole di pensiero che competevano con lo stoicismo: com’è possibile che in un universo causale retto da un principio immanente che ordina ogni cosa in modo razionale e necessario, gli esseri umani possano scegliere con consapevolezza se agire o meno secondo virtù?


Evidentemente se tutto è strettamente determinato dal logos, anche le gesta dei singoli individui non possono che rispondere alla volontà della ragione universale, così come un grave non può far altro che muoversi in accordo alla legge di gravità.


Il problema si pone non appena ci si rende conto che, se così stanno le cose, ogni discorso in relazione alla morale perde di significato, perché in un simile universo l’individuo, essendo una sorta di marionetta mossa dalla ragione universale, non avrebbe alcuna possibilità di autodeterminare le proprie azioni scegliendo liberamente cosa fare o non fare.


Per cercare di superare queste difficoltà, Crisippo ribadì l’azione immanente e necessaria del logos in un universo caratterizzato da una meccanica causale, ma introdusse la distinzione tra le cause primarie fondamentali e le cause secondarie accessorie.


Rispetto alle cause primarie l’individuo non può far nulla, mentre in relazione alle cause secondarie l’essere umano ha il potere di determinare il corso degli eventi.


Così, nonostante il canovaccio della storia della vita di ciascuno sia scritto dal logos con un inchiostro indelebile, l’essere umano può effettivamente modificare localmente i dettagli secondari della propria esistenza, pur nell’impossibilità di sottrarsi al verificarsi degli accadimenti fondamentali determinati dalle cause primarie.


Inoltre Crisippo chiarì che la possibilità di assentire, dissentire e sospendere il giudizio, è sempre rimessa alla facoltà dell’individuo.


In questo modo egli introdusse una sorta di libero arbitrio limitato, grazie al quale l’essere umano, pur non potendo sottrarsi al proprio destino, è comunque libero di adeguarsi ad esso, operando in conformità alla ragione universale, o di tentare di ribellarsi, conducendo un’esistenza contro natura.


Anche per quanto riguarda gli aspetti sociali, Crisippo sviluppò delle tesi che seguono in modo del tutto automatico dall’assunto fondamentale della dottrina stoica dell’esistenza di una ragione universale.


Ciò comporta che la legge e la giustizia sono date per natura: esse sono uniche e riflettono alla perfezione la razionalità del logos.


Nonostante la società si sia organizzata andando a formare varie comunità regolate da una molteplicità di norme dissimili, il saggio stoico è consapevole che in realtà esiste una sola comunità umana, in cui ciascuno è tenuto a rispondere alla vera legge: quella dettata dalla ragione universale.


Panezio di Rodi

Panezio di Rodi (Rodi, 185 a.C. circa – 109 a.C. circa) fu quel filosofo greco antico che, rinnovando il pensiero stoico in senso eclettico, inaugurò la fase storica dello stoicismo nota come Media Stoà.


Venuto alla luce a Rodi, da una famiglia nobile, Panezio fu avviato alla filosofia nella città di Pergamo dal filologo e grammatico Cratete di Mallo.


Trasferitosi ad Atene, assimilò le dottrine stoiche frequentando le lezioni degli scolarchi Diogene di Seleucia e Antipatro di Tarso.


Successivamente, si recò numerose volte a Roma, contribuendo più di tutti alla diffusione dello stoicismo negli ambienti aristocratici romani.


Durante i suoi soggiorni, Panezio entrò in contatto con il Circolo degli Scipioni, un gruppo politico costituito da eminenti esponenti della nobiltà romana, il cui fine consisteva nella promozione di attività letterarie, filosofiche e culturali di carattere ellenistico.


Fu così che ebbe modo di frequentare lo storico Polibio, il politico e militare Publio Cornelio Scipione Emiliano ed il suo amico Gaio Lelio Sapiente.


È noto anche che Panezio visitò l’oriente al seguito di Scipione, arricchendo ulteriormente la propria cultura.


Ristabilitosi ad Atene, nel 129 a.C. assunse la direzione della Stoà, succedendo nel ruolo di scolarca ad Antipatro di Tarso.


La produzione scritta di Panezio non fu vasta ma esercitò comunque una grande influenza. Delle sue opere si ricordano un paio di trattati intitolati Sulla Provvidenza e Sul Dovere.


Quest’ultimo testo, in particolare, ispirò profondamente la cultura filosofica dell’avvocato, politico, scrittore e oratore romano Marco Tullio Cicerone.


Il principale merito di Panezio fu quello di riportare la Stoà agli antichi splendori, dando allo stoicismo un rinnovato slancio.


Dopo la morte di Crisippo, infatti, il fervore degli stoici si era affievolito e con esso l’atteggiamento dei membri della Stoà era mutato in senso conservatore.


Il compito di preservare la concezione filosofica elaborata da Zenone di Cizio e dai suoi primi discepoli, spense il vigore speculativo degli stoici, che ben presto finirono per assumere un atteggiamento dogmatico assai lontano dalla loro natura originaria.


Il successo ottenuto da Panezio fu dovuto alle sostanziali modificazioni che egli ebbe la pretesa ed il coraggio di apportare al sistema dottrinale dello stoicismo antico.


Disinteressato alla logica ed alla gnoseologia, egli rivisitò le dottrine riguardanti la fisica e l’etica. In questi campi contestò il rigido determinismo delle meccaniche dell’universo stoico e l’eccessivo rigorismo morale prescritto dai primi esponenti della Stoà.


Se non ci fosse il libero arbitrio l’etica cadrebbe nel vuoto e con essa gli insegnamenti morali perderebbero di significato, giacché se tutto fosse già decretato in modo necessario, allora anche il comportamento umano risulterebbe prestabilito e quindi l’individuo non avrebbe alcun potere di scegliere in modo deliberato le sue azioni.


Ma in un simile universo, che senso avrebbe parlare di virtù?


Pertanto, secondo Panezio, per riabilitare le dottrine morali, si devono allentare i vincoli deterministici dovuti all’azione di una ragione immanente che ordina ogni cosa in modo necessario agendo entro un universo causale, fino al punto da rendere le meccaniche del cosmo compatibili con l’esercizio dell’umana libertà di autodeterminarsi.


Per delle motivazioni analoghe, Panezio contestò l’astrologia e negò con convinzione la validità delle pratiche divinatorie.


A suo avviso, infatti, gli astri sono troppo distanti per poter influenzare le cose che accadono sulla Terra; inoltre, in un universo in cui gli eventi non sono rigidamente (pre)determinati, nessuno può legittimamente sostenere di riuscire a prevedere il futuro analizzando gli indizi raccolti nel presente.


Panezio rigettò anche la teoria della conflagrazione cosmica con la conseguente dottrina dell’eterno ritorno, riabilitando l’idea dell’eternità del mondo.


Del resto, se l’universo non è strettamente determinato da rigidi nessi causali e oltretutto l’essere umano è dotato di libero arbitrio, è assurdo pensare che ogni cosa nasca, perisca e rinasca, ciclicamente ed eternamente del tutto identica a se stessa.


Inoltre, il fatto che le cose del mondo siano soggette a corruzione, non ci autorizza a pensare che, ad un certo punto, anche il cosmo debba necessariamente subire un simile destino, collassando su se stesso per essere riassorbito nel fuoco originario.


Al contrario, il mondo, nel suo complesso, pur essendo popolato da cose soggette alla legge del divenire, sembra conservarsi nei millenni, senza che vi sia alcun segnale che lasci presagire l’avvento di una sua futura corruzione.


L’anima umana, invece, non è immortale: quando l’energia del soffio caldo che vivifica l’individuo si esaurisce, essa si dissolve.


Secondo Panezio l’anima non è fatta soltanto di fuoco ma anche d’aria; il primo di questi elementi è responsabile della parte razionale, che è presente nell’essere umano e lo contraddistingue dagli altri esseri viventi; il secondo, è legato alla parte irrazionale, che invece è condivisa anche con gli animali.


In ambito etico l’iniziatore della Media Stoà ammorbidì sia l’ideale del saggio stoico che il concetto di virtù, intesa come vita assolutamente condotta secondo ragione al riparo da ogni passione.


A tal fine, egli attenuò il netto distacco dualistico tra il saggio virtuoso, che agisce sempre in modo perfetto, e la follia dell’ignorante, che opera sempre nell’errore.


Non è vero che la virtù o la si possiede nella sua interezza, o non la si possiede affatto: l’essere umano può progredire verso di essa.


L’assoluto ideale del saggio stoico fu sostituito da Panezio con quello del progrediente, vale a dire di un individuo che s’incammina e progredisce orientandosi al bene.


Quando gli veniva chiesto quali fossero le caratteristiche del perfetto sapiente, egli rispondeva in modo elusivo dicendo: «Del saggio parleremo un'altra volta!».


Ai suoi occhi anche la ricerca di una completa apatia risultava eccessiva: il compito della ragione non è di estirpare le passioni, così come aveva sostenuto Crisippo, ma di disciplinare e controllare la parte emotiva, istintiva ed irrazionale dell’anima.


A suo avviso, la giustizia, la sapienza, la fortezza e la temperanza, non scaturiscono dall’eliminazione delle passioni, ma da uno sviluppo organico degli istinti umani.


Egli limitò anche l’atteggiamento di svalutazione dei piaceri e dei beni professata dai membri dell’antica Stoà, i quali sostenevano che il saggio stoico era talmente indifferente rispetto alle cose esterne da riuscire ad essere felice anche in mezzo ai tormenti, perché il vero bene è dato soltanto dalla virtù e quest’ultima dipende esclusivamente dalla disposizione interiore dell’individuo.


Ma il solo possesso della virtù, per Panezio, non è più sufficiente per la felicità; al suo raggiungimento concorrono anche buona salute, agiatezza economica e vigore fisico.


Fu così che più che occuparsi dei doveri retti dal saggio, egli si interessò dei doveri che ciascun essere umano avrebbe dovuto compiere; secondo Panezio essi sono stabiliti in base alla posizione sociale ed alle circostanze della vita e vanno operati nel rispetto delle regole della convivenza civile.


Tre sono i punti su cui si deve meditare in relazione al dovere:

1) riflettere se ciò che s’intende compiere sia onorevole o turpe;


2) ponderare se il dovere sia utile o meno, ovvero se esso possa procurare, o sottrarre, le comodità e le giocondità della vita, gli averi, il benessere, il credito e il potere, con i quali si può portare giovamento a noi stessi e agli altri;


3) stabilire se ciò che sembra onesto ed onorevole contrasti, o oppure no, con ciò che è utile.


La vera virtù per Panezio consiste nella socialità che viene completata da un atteggiamento di beneficenza nei confronti dei propri concittadini.


Grazie ad esse, a suo avviso, si sarebbe potuto raggiungere il benessere sociale, collaborando positivamente con i propri simili e mettendo a disposizione degli altri le proprie capacità ed i propri averi.


Fu così che alla fortezza perseguita dai membri dell’antica Stoà, Panezio sostituì la magnanimità, ovvero la ricerca della grandezza e della nobiltà d'animo, manifestabile anche attraverso una generosità disinteressata.


La rivisitazione delle dottrine stoiche operata dall’iniziatore della Media Stoà, fece si che il nuovo stoicismo si conciliasse con il sentimento e le esigenze dei politici e degli aristocratici della Roma imperiale, i quali non tardarono a sposarne le rinnovate dottrine.


Se non altro, l’atteggiamento di beneficenza avrebbe consentito d’ingraziarsi il popolo, così da procurarsi il seguito politico ed il consenso necessari per ricoprire le più alte cariche dello stato.


Non per nulla alcuni arrivarono a sostenere che Panezio avesse smussato gli angoli della dottrina stoica di proposito, per fare in modo che essa fosse apprezzata e praticata anche dalle classi sociali colte e raffinate, come quella dei nobili romani.


Ad onor del vero, egli si spinse fino al punto da celebrare e giustificare in senso provvidenziale la grandezza ed il dominio di Roma, divenendo di fatto una sorta di ideologo del circolo degli Scipioni.


Di certo, i suoi continui contatti con gli ambienti oligarchici e repubblicani di Roma, resero Panezio uno dei maggiori mediatori della cultura greca con la civiltà romana.


Posidonio di Apamea


Posidonio di Apamea, anche detto di Rodi (Apamea, 135 a.C. circa – Rodi, 50 a.C.), fu un filosofo, scienziato e storico greco antico, che raccolse l’eredità dottrinale di Panezio e divenne uno dei massimi esponenti della Media Stoà.


Egli fu un vero e proprio uomo universale, tanto è vero che per la vastità dei suoi studi, condotti in numerosi campi del sapere, fu considerato il più grande filosofo della sua epoca e venne soprannominato l’atleta.


Nato ad Apamea, una città situata nell’attuale Siria, il giovane Posidonio si recò ad Atene, dove divenne scolaro dello stoico Panezio (117 a.C. circa).


Una volta assimilata la dottrina eclettica elaborata da quest’ultimo, egli partì alla volta di una lunga e sterminata serie di viaggi nei paesi del Mediterraneo e del Nord Europa, aventi finalità scientifiche.


Fu così che Posidonio, a causa della vastità e dell’universalità dei suoi insaziabili interessi, finì per superare di misura il suo maestro in fama, influenza ed erudizione, tanto da reggere il confronto con il grande Aristotele.


Forte del suo immenso bagaglio culturale, nel 95 a.C. circa, si trasferì e prese la cittadinanza nel fiorente centro culturale e commerciale di Rodi, dove ricoprì importanti ruoli politici e fondò una scuola molto apprezzata.


Nell’86 a.C. circa, fu posto a capo di una delegazione di ambasciatori della città di Rodi inviata a Roma presso il politico e militare Gaio Mario.


Nel corso dei suoi soggiorni nella capitale della Repubblica romana, dove si recò più volte nel corso della sua vita, Posidonio riuscì a stringere dei rapporti saldi e duraturi con i membri dei circoli ellenizzanti del patriziato. Alcuni di essi si recarono perfino a Rodi, per udire di persona le sue lezioni.


Tra gli uditori più illustri di Posidonio si annoverano il politico e militare Gneo Pompeo Magno, che Posidonio celebrò in una monografia storica scritta di suo pugno, e l’avvocato, politico, scrittore e oratore romano Marco Tullio Cicerone.


In questo modo egli seppe dare degna continuità al ruolo di mediatore culturale tra i mondi dell’antica Grecia e della Roma imperiale, già avviato da Panezio.


Delle opere composte da Posidonio, che pare fossero numerosissime, non si è salvato neppure un volume. Di esse conosciamo ventitré titoli.


La loro importanza può essere intuita, più che dagli scarsi frammenti e dalle testimonianze di cui disponiamo, dall’enorme influsso esercitato sul pensiero posteriore.


Al loro interno Posidonio affrontò le tematiche più disparate, spaziando dalla logica all’etica, dalla geometria all’astronomia, dalla fisica alla scienza, dalla teologia alla divinazione, dalla geografia alla storia...


Si consideri che la sua opera di carattere storico più importante, intitolata Le Storie, era una continuazione, in 52 libri, dell'opera di Polibio, il cui scopo consisteva nel narrare gli accadimenti maggiormente significativi verificatisi nel periodo che va dal 146 circa a.C. all’85 a.C..


Nel descrivere le sanguinose rivolte dei servi Posidonio, pur parteggiando per la classe aristocratica, non ometteva di denunciare le gravi colpe dei padroni che sfruttavano in modo spietato e disumano i propri schiavi.


Con il medesimo atteggiamento egli, pur esaltando la grandezza di Roma, ne criticava gli eccessi e gli orrori, sottolineando la natura caricaturale e grottesca dell’imperialismo romano.


Alla base dell’interpretazione storica di tipo moralistico data da Posidonio vi è la tesi fondamentale secondo cui nell’universo esiste una forza che dalla irrazionalità spinge alla razionalità.


Bisogna però fare attenzione che al progresso materiale ottenuto inseguendo questo processo evolutivo non corrisponda un decadimento dei costumi, responsabile della corruzione della società.


Da qui la tesi secondo cui il declino di Roma fosse imputabile al degradamento del modo comune di pensare e di agire.


Questa visione della storia era supportata da Posidonio attraverso studi etnografici condotti di persona nel corso dei suoi viaggi, in cui egli si preoccupò di mettere per iscritto i modi di vita e le diverse culture dei vari popoli con cui ebbe modo di trascorrere un po’ del suo tempo.


In questo ambito spiccano, per accuratezza ed originalità, gli scritti riguardanti i Celti, al cui interno egli sostenne al contempo l’uguaglianza naturale e le diversità culturali di quella popolazione rispetto ai membri della civiltà ellenica.


Ciò che colpì Posidonio fu il netto contrasto tra il furore dei popoli barbarici e la razionalità delle popolazioni civilizzate.


Le sue esperienze dirette gli consentirono di confutare miti e luoghi comuni che erano stati elaborati nei confronti dei Celti, e lo spinsero a provare una profonda simpatia per l’energia selvaggia dei barbari.


Nonostante ciò, egli riconobbe la superiorità del calcolo razionale delle popolazioni civilizzate e per questo sostenne la legittimità della dominazione romana, ravvisando in essa l’espressione del logos.


Da un punto di vista politico, Posidonio sposò le posizioni del partito politico aristocratico degli optimates, essendo peraltro in rapporti di amicizia con i più importanti esponenti di questa fazione della nobiltà romana.


In campo scientifico contribuì effettuando misure, calcoli ed osservazioni di varia natura. Ad esempio, egli stimò la grandezza del Sole e della Luna e calcolò le distanze che separano questi due astri dalla Terra.


È noto anche che Posidonio ideò un metodo per calcolare la circonferenza terrestre, che portò a quantificare questa misura con una lunghezza prossima ai 28.000 km.


Il valore ottenuto con il suo metodo era inferiore (e meno accurato) rispetto a quello già calcolato qualche decennio addietro da Eratostene.


Ma nonostante ciò, la piccola misura di Posidonio s’impose nei secoli successivi, venendo accolta prima da Tolomeo e poi da Cristoforo colombo, che la utilizzò per stimare, in difetto, la lunghezza del suo avventuroso tragitto verso le Indie.


L’autorità di Posidonio, che in ambito astronomico sosteneva la validità del sistema geocentrico, contribuì anche a screditare il modello eliocentrico alternativo ad esso proposto da Aristarco.


Si dice anche che per tentare di dimostrare il moto diurno dei pianeti attorno alla Terra, Posidonio abbia costruito un planetario.


Avvalendosi di un sasso attaccato ad una cima nautica, egli misurò la profondità dei mari; studiò inoltre il fenomeno delle maree, mettendo in corrispondenza il loro verificarsi con le fasi lunari.


Forse a causa delle osservazioni effettuate nei suoi viaggi, Posidonio maturò la convinzione che l’ecumene, vale a dire la porzione di Terra conosciuta e abitata dall'uomo, fosse costituita da una zona continua, interamente circondata da un unico mare.


Infine, indagò le trasformazioni geologiche della superficie terrestre, occupandosi delle eruzioni vulcaniche e dei terremoti.


Nonostante il rimarchevole enciclopedismo di Posidonio, per quanto riguarda le concezioni filosofiche, egli non seppe discostarsi di molto da Zenone.


Nonostante il suo intento fosse quello di recuperare le verità espresse dai grandi pensatori ad esso precedenti, al fine di conciliarle in un’unica dottrina, di fatto, Posidonio si limitò a riprendere le tesi del suo maestro Panezio, riabilitando alcuni aspetti dello stoicismo antico che quest’ultimo aveva rigettato.


Ciò che ottenne fu una formulazione dello stoicismo ecletticheggiante, nata dal sincretismo dei motivi dominanti ideati dagli stoici delle origini con alcuni aspetti delle dottrine di Eraclito, Platone e dei presocratici.


In particolare, Posidonio riabilitò la dottrina della conflagrazione universale, difese l’astrologia e sostenne la validità dell’arte divinatoria.


Che gli esseri umani siano in grado di prevedere il futuro è testimoniato da numerose esperienze, come quella del celebre uomo di Rodi che, sul letto di morte, fece il nome di sei suoi coetanei, indovinando l’ordine temporale esatto in cui essi sarebbero morti.


Secondo Posidonio l’essere umano è un qualcosa d’intermedio tra il mondo materiale-sensibile e quello immateriale-sovrasensibile; l’uomo, infatti, è costituito da un corpo terreno e da un’anima ultraterrena.


Quest’ultima ha per sua natura sia facoltà razionali che irrazionali. Del resto, se così non fosse, non si riuscirebbe a spiegare l’origine del vizio.


Infatti, se si accettasse una teoria monistica che riduce ogni cosa al logos, si giungerebbe alla palese contraddizione secondo cui il vizio è causato dall’esercizio della ragione universale, giacché quest’ultima sarebbe posta ad intima guida del mondo e quindi anche dell’uomo.


Ma ciò sarebbe assurdo, perché il logos, in forza della sua assoluta razionalità, opera sempre in modo perfetto.


Le azioni viziose, invece, così come le passioni, sono dovute all’influsso dell’innata irrazionalità dell’anima umana, che il saggio stoico cercherà perlomeno di stemperare per indirizzarsi verso la virtù.


Secondo Posidonio l’anima umana sopravvive alla morte corporea e può incarnarsi nuovamente, fin quando, al sopraggiungere della conflagrazione universale, tutte le anime tornano a fondersi nel fuoco primigenio, in cui sono riposti i semi germinali da cui esse derivarono all’inizio del grande anno e da cui rinasceranno ancora con la nuova rigenerazione del mondo.


In tal senso egli combinò il concetto di rinascita stoica con la dottrina della reincarnazione platonica, spiegando così il valore cosmico dell’essere umano.


L’universo concepito da Posidonio è retto dal fuoco eracliteo che, in qualità sia di simbolo che di sostanza del divenire, è il motore responsabile della perenne trasformazione delle cose.


Egli inoltre sostenne che ogni singola parte dell’universo è retta da un reciproco rapporto d’influenza che lega tutte le cose del cosmo (dottrina della simpatia universale), ed è anche per questo motivo che l’essere umano è in grado di prevedere il futuro.


In ambito etico, oltre ad occuparsi di liberare l’uomo dalle passioni, Posidonio concentrò le sue riflessioni sulle tematiche dell’utile e dell’onesto in relazione alla condotta umana.


Nell’ultimo periodo della sua vita, egli fu colpito da una forma di artrite che lo costrinse a letto, tormentato da mille dolori.


Si narra che un giorno, Pompeo, di ritorno dalla Siria, volle fargli visita, pur sapendo che egli fosse gravemente malato.


Appena i due s’incontrarono, il militare romano salutò il filosofo omaggiandolo con parole di lode, dispiacendosi di non poter ascoltare ancora una volta una delle sue lezioni.


«Ma tu puoi ascoltarle, non permetterò di certo che il dolore renda vana la visita di un uomo tanto illustre!», rispose Posidonio.


Al che, quest’ultimo, pur restando disteso a letto, espose in modo serio e approfondito la tesi secondo cui non esiste alcun bene al di fuori della coerenza morale.


E quando i dolori si facevano più forti, egli si faceva forza esclamando ad alta voce: «Tanta fatica per nulla dolore! Per quanto gravoso tu sia, mai ammetterò che sei un male!».


Lucio Anneo Seneca


Biografia essenziale

Lucio Anneo Seneca (Cordova, 4 a.C. circa – Roma, 19 aprile 65 d.C.) fu un filosofo, drammaturgo e politico, annoverato, assieme ad Epitteto e Marco Aurelio, tra i più importanti ed illustri esponenti dello stoicismo tardo-romano.


Secondogenito di Seneca il Vecchio, un retore facente parte dell’ordine sociale-militare degli equites (traducibile letteralmente dal latino come “cavalieri”), Seneca il Giovane venne alla luce a Cordova, in Spagna, ma trascorse la sua infanzia a Roma.


In quel luogo fu avviato, su volontà del padre, allo studio della grammatica e della retorica; discipline che lo spirito di Seneca mal sopportava, al punto da arrivare a deplorare nei suoi scritti il tempo dedicato ad esse.


Queste esperienze però furono di fondamentale importanza per forgiare il suo stile letterario e fornirgli gli strumenti per dedicarsi in modo proficuo alla sua vera passione: la filosofia.


Più che agli sterili esercizi di declamazione, a cui i retori si dedicavano per perfezionare la loro formazione, alle forme esteriori del linguaggio scritto ed alle aride questioni richieste dai suoi insegnati di grammatica, l’intelligenza di Seneca era attratta dallo studio dei concetti e del sapere finalizzati alla comprensione della natura ed alla risoluzione dei problemi della vita.


Fu così che Seneca prese a frequentare, con assiduità e devozione, le lezioni dei filosofi della setta dei Sestii, ricevendo una triplice formazione di carattere stoica, pitagorica e cinica.


Trai suoi maestri egli stesso, nei suoi scritti, ricorderà con maggiore entusiasmo:


Papirio Fabiano, retore e filosofo stoico influenzato dalla corrente cinica, che amava disquisire sul tema delle passioni e della predicazione morale;


Sozione di Alessandria, un pensatore pitagorico che, oltre ad insegnargli le dottrine di Pitagora, iniziò Seneca al vegetarianesimo, un regime alimentare che quest’ultimo dovette abbandonare a causa delle pressioni paterne e della legge promulgata dall’imperatore Tiberio, che condannava chiunque avesse aderito alle pratiche dei culti stranieri, ivi inclusa l’astinenza dal consumo di carne;


Attalo, un pensatore stoico con atteggiamenti ascetici, nonché oratore eccellente e profondo studioso della natura.


Questi personaggi contribuirono a formare e ad ispirare il giovane Seneca, sia da un punto di vista teorico, tramandandogli le rispettive dottrine, che pratico, mettendo in atto con grande coerenza ciò che ciascuno di essi professava.


Un’altra figura che influenzò profondamente Seneca, fu quella del cinico Demetrio, col quale egli instaurò un rapporto di intima amicizia.


Oltre alla filosofia stoica, pitagorica e cinica, Seneca fu anche un grande conoscitore del pensiero di Epicuro e delle dottrine Platoniche ed Aristoteliche.


Va detto inoltre che egli, attorno al 20 d.C., soggiornò in Egitto per un certo periodo di tempo, ed anche questa esperienza contribuì ad espandere la sua conoscenza, sia in ambito politico che religioso, oltre che in quello geografico, consentendogli di confrontare il suo punto di vista con quello della cultura egiziana.


In verità, uno dei motivi che spinsero Seneca a recarsi in Egitto era dovuto alla necessità di curare le crisi d’asma e la bronchite cronica da cui egli era afflitto, confidando nel fatto che un clima più mite avesse in qualche modo agevolato la sua guarigione.


È cosa nota, infatti, che Seneca soffrì per tutta la sua esistenza di una salute malferma ed è forse anche per questo che egli ampliò il suo orizzonte di conoscenze anche all’ambito medico.


Ritornato a Roma nel 31 d.C. circa, iniziò la sua carriera pubblica, divenendo prima questore e poi membro del Senato.


Nel mentre, la sua fama di scrittore ed oratore si accresceva, al punto da suscitare la gelosia dell’imperatore Caligola.


Si sappia che, un giorno, quest’ultimo, ascoltando un’orazione pronunciata da Seneca nel 39 d.C., andò su tutte le furie e per poco non lo fece ammazzare!


A salvargli la vita, gli vennero in soccorso la sua salute cagionevole ed una favorita di corte, la quale osservò che Seneca, a causa della sua malattia, sarebbe morto comunque nel giro di poco tempo e pertanto non valeva neppure la pena di uccidere un uomo che era già giunto alla fine dei suoi giorni.


Se Caligola avesse saputo che a Seneca restavano ancora ben 26 anni da vivere, sicuramente le cose sarebbero andate in modo diverso e quest’ultimo non avrebbe mai raggiunto la maturità filosofica.


Abbandonata l’attività forense, e venuta meno la presenza del padre, Seneca decise di riprendere gli studi letterari e filosofici, ma nel 41 d.C. si cacciò nuovamente nei guai: questa volta fu l’imperatore Claudio, succeduto a Caligola dopo il suo assassinio, ad accusarlo di adulterio con la giovane nobildonna Giulia Livilla.


Ad onor del vero bisogna dire che in quel periodo Seneca aveva incominciato a frequentare le sorelle di Caligola, la cui influenza era ostile e contrapposta a quella di Valeria Messalina, moglie dell’imperatore.


Comunque sia andata, il coinvolgimento in questo intrigo di corte gli costò l’esilio in Corsica, ove rimase per otto anni.


Nonostante proclamasse, da buon stoico quale era, che le cose esteriori sono indifferenti per il saggio, ivi incluso l’esilio, Seneca soffrì profondamente per l’allontanamento forzoso dalla sua famiglia e dalla vita romana.


D’altro canto l’isolamento fece accrescere in lui la tendenza alla riflessione filosofica e morale.


Emerse così il celebre tratto caratteriale di Seneca, perennemente combattuto tra la ricerca della solitudine, richiesta dalla meditazione filosofica, e l’attaccamento alla società entro cui l’essere umano ha il dovere morale di operare.


Facendo di necessità virtù, Seneca sfruttò questo periodo della sua vita per comporre numerose opere, col duplice intento d’alleviare la propria sofferenza interiore e mantenere vivo il ricordo di sé a Roma, confidando che, prima o poi, a causa della sua grande reputazione, l’imperatore l’avrebbe richiamato a corte.


Il suo desiderio venne esaudito dopo che Messalina fu assassinata.


Venuta meno l’ostilità di quest’ultima, Seneca fu fatto tornare a Roma da Claudio, anche grazie all’influenza della nuova imperatrice Agrippina.


Ella divenne sua protettrice e gli affidò l’educazione del figlio Domizio, avuto col suo primo marito, che, essendo stato adottato dall’imperatore, era ormai divenuto il legittimo erede al trono.


Da lì in avanti, i rapporti col principe Domizio determinarono tutto il resto dell’esistenza di Seneca.


Agrippina era convinta che in questo modo il futuro imperatore avrebbe ricevuto la migliore educazione possibile.


Ella inoltre, sfruttando la notorietà e la saggezza di Seneca, intendeva attrarre la simpatia dell’opinione pubblica ed avrebbe anche potuto fare affidamento sui suoi consigli per tessere le sue trame politiche finalizzate alla conquista e al mantenimento del potere.


Ma Agrippina non avrebbe mai potuto immaginare che quel giovane di precoce ingegno e promettente virtù da grande si sarebbe trasformato in un imperatore spietato ed autoritario, noto ai più con il nome di Nerone.


Per far sì che il principe salisse sul trono, nella notte del 12 ottobre dell’anno 54, Agrippina non esitò ad avvelenare l’imperatore Claudio.


Fu così che, non ancora diciassettenne, il giovane Nerone assunse il potere e cominciò ad operare sotto la guida di Seneca e di Sesto Afranio Burro.


Quest’ultimo, oltre a ricoprire l’incarico di prefetto del pretorio, aveva affiancato Seneca nel compito di educare Domizio in qualità di precettore.


Divenuti consiglieri dell'imperatore, di fatto, Seneca e Burro si ritrovarono a guida dell’Impero e, nel primo quinquennio del principato, riuscirono a far attuare al giovane Nerone dei provvedimenti saggi, dando luogo al cosiddetto “periodo del buon governo”.


In questa fase della sua vita, oltre al potere, Seneca ottenne anche la ricchezza, ma ben presto le cose precipitarono.


Nerone, infatti, divenendo adulto, accolse soltanto gli aspetti assolutistici degli insegnamenti politici e morali di Seneca, rigettando tutte quelle parti che fino ad allora avevano tenuto a bada il forte temperamento autocratico del nuovo imperatore.


L’influenza ed il potere di Seneca scemarono, via via che la vera natura perversa di Nerone veniva alla luce, culminando nell’assassinio di Agrippina avvenuto nel 59 d.C..


Disgraziatamente, gran parte del peso morale del matricidio compiuto dall’imperatore ricadde su Seneca, il quale, oltre all’avversione di Nerone, era riuscito a guadagnarsi l’odio di Poppea, seconda moglie dell’imperatore.


Fu così che l’opinione pubblica finì per attribuire a Seneca una parte della paternità del progetto dell’assassinio di Agrippina.


Come se non bastasse, nell’anno 62 d.C. il suo collega Burro venne a mancare e così Seneca, non riuscendo più a controllare in alcun modo il nuovo sovrano ed iniziando a temere per la propria incolumità, decise di ritirarsi a vita privata, rendendo tutti i suoi averi a Nerone, il quale ormai non tollerava più né il suo insegnamento né la sua guida.


Trascorse così gli ultimi tre anni della sua esistenza, immerso completamente nello studio e nella meditazione, al riparo dalle vicende legate alla cosa pubblica.


Quando si trovava al fianco di Nerone, Seneca aveva cercato di forgiare il sovrano perfetto, tentando di trasferire sul piano politico i suoi ideali filosofici.


Negli anni del ritiro, invece, egli meditò a lungo su questa esperienza fallimentare, con l’intento di trarne una morale che riuscisse a conciliare l’ozio con l’azione e consentisse di raggiungere uno stato di quiete dell’anima, attraverso il dominio delle passioni e l’esercizio di una dignitosa austerità.


In questa fase della sua vita, inoltre, Seneca riprese a scrivere e compose le sue opere filosofiche più importanti.


Nel frattempo, Nerone rafforzava la sua politica dispotica ed i nemici di Seneca imbastirono una poderosa campagna di denigrazione al fine di screditare definitivamente il filosofo stoico allontanatosi dagli ambienti del potere.


Fu così che l’imperatore cominciò a nutrire un odio così profondo nei confronti del suo ex precettore, da volerlo eliminarlo fisicamente, facendogli apprestare un veleno, senza però riuscire nel suo intento.


Il pretesto per giustificare l’uccisione di Seneca si presentò nell’aprile dell’anno 65 d.C., quando la congiura ordita da Pisone contro l’imperatore fallì, perché la trama del complotto fu scoperta ancor prima d’esser messa in atto.


Con l’occasione, Nerone eliminò uno ad uno i suoi oppositori politici e fece recapitare a Seneca l’ordine di uccidersi, facendogli intendere che se egli non l’avesse fatto da sé, sarebbe morto comunque, giacché l’imperatore l’avrebbe accusato di far parte della congiura pisoniana.


Fu così che Seneca decise di togliersi la vita con serenità, agendo in coerenza con gli ideali dello stoicismo, secondo cui il saggio, pur di conservare la propria virtù, può ricorrere persino al suicidio.


Gli ultimi istanti di vita di Seneca sono descritti dallo storico Publio Cornelio Tacito con toni che ricordano molto da vicino la morte di Socrate.


Dopo essersi rivolto per l’ultima volta a sua moglie e ai suoi discepoli, Seneca compì l’atto estremo tagliandosi le vene dei polsi.


Poiché il sangue defluiva in modo lento, decise di recidersi anche le vene delle gambe e delle ginocchia.


Bevve inoltre una bevanda a base di cicuta e si fece immergere in una vasca d’acqua calda per fluidificare il sangue e facilitarne il deflusso, ordinando di offrire quel liquido a Giove liberatore.


Al termine di questo supplizio, Seneca spirò a causa dei vapori che gli impedivano di respirare.


Successivamente venne cremato senza che si effettuasse alcuna cerimonia, così come egli stesso aveva indicato nel suo testamento.


Quanto di reale vi sia in questa vicenda, e quanto invece sia dovuto alla fantasia di Tacito, non è noto con certezza.


In ogni caso, la storia della sua morte divenne esemplare nella tradizione culturale occidentale e contribuì a consacrare la figura di Seneca accomunandola a quella degli altri grandi filosofi della classicità greco-romana.



Il pensiero

Nonostante abbia composto numerose opere di grande pregio e sia comunemente ricordato, assieme ad Epitteto e Marco Aurelio, come uno dei massimi rappresentanti dell’ultima Stoà, da un punto di vista strettamente filosofico Seneca fu scarsamente originale.


Il tono morale e l’ideale umano che egli delineò, rappresentano i tratti peculiari di questo filosofo.


La formulazione dello stoicismo data da Seneca è quella di un colto pensatore eclettico mosso da un’evidente aspirazione religiosa.


Egli rivendicò la propria libertà di pensiero opponendola alla pretesa ortodossia richiesta dall’appartenenza alla Stoà.


E nel far ciò, sottolineò l’importanza di esplorare ogni altra concezione filosofica, nella convinzione che in ciascuna di esse si sarebbe potuto scovare qualcosa di buono da apprendere.


L’eclettismo di Seneca è contrario ad ogni forma di dogmatismo; ma il pensiero degli altri non va accolto passivamente.


A suo avviso, i filosofi del passato sono delle guide, non dei padroni; il loro pensiero deve essere considerato come una sorta di prezioso nutrimento, da selezionare accuratamente, far proprio e rielaborare.


Se nell’opera di un filosofo traspare la concezione di un altro pensatore, è importante che questa somiglianza non sia come quella d’un ritratto ma come quella d’un figlio.


Secondo Seneca la lettura dei libri è importante, ma bisogna evitare di sprecare il proprio tempo leggendo ogni cosa, in modo indiscriminato, senza soffermarsi a riflettere su ciò che si è letto.


Per descrivere l’atteggiamento corretto da tenere, egli ricorre alla metafora dell’ape, che esplora tutti i fiori ma seleziona soltanto quelli adatti alla produzione del miele più prelibato.


Ed aggiunge che così come chi ha tanti ospiti, in realtà, non ha nessun amico, e chi ingerisce un gran numero di cibi non si sta nutrendo, ma si sta intossicando, chi spende tutto il tempo passando dalla lettura di un libro all’altro, non si sta arricchendo, ma sta danneggiando se stesso.


In merito alla sua concezione, tutto si può dire tranne che Seneca abbia elaborato il proprio pensiero in modo sistematico.


Le contraddizioni del suo modo di vivere e di pensare sono tali da indurci ad ipotizzare che nel sul corpo albergassero due anime antitetiche che cercavano di spingerlo in direzioni contrapposte.


Come abbiamo già sottolineato, la vita di Seneca oscillò tra il sincero desiderio di isolarsi dalla civiltà, abbandonando tutti i beni materiali per dedicarsi al pensiero, e la volontà di partecipare attivamente alla vita politica, non disdegnando le ricchezze materiali.


Allo stesso modo, prima criticò chi riteneva che per filosofare fosse indispensabile allontanarsi dalla politica, ma poi tornò sui suoi passi, sostenendo che quell’attività fosse incompatibile con l’esercizio della filosofia.


L’intima natura dualistica e contraddittoria di Seneca si riscontra anche nell’atteggiamento pessimistico che egli aveva nei riguardi degli accadimenti della vita e che cozzava prepotentemente con la professione della tesi stoica secondo cui il saggio si pone al disopra sia dell’ottimismo che del pessimismo.


In campo politico egli manifestava al tempo steso una duplice, e difficilmente conciliabile, tendenza verso l’umanitarismo e l’aristocraticismo.


Non meno combattuta era la sua visione religiosa che, da un lato, risultava anti-mistica ma, dall’altro, avanzava delle vere e proprie istanze ascetiche.


Incerto era anche il pensiero sul destino ultraterreno dell’uomo, dato che la posizione di Seneca oscillò tra la negazione e l’affermazione della sopravvivenza dell’essere umano dopo la morte.


Non per ultimo si segnalano delle oscillazioni circa la definizione di Dio, ora perfettamente inteso così come dalla trazione stoica quale logos, ragione immanente ordinatrice, provvidenza... e così via, ora descritto con toni spirituali e tratti personali, che talvolta spingono la visione di Seneca al di là del panteismo e dell’ontologia degli stoici.


Nel suo complesso, la dottrina di Seneca ancorava le sue radici nello stoicismo, ma integrava entro di sé anche motivi epicurei, cinici, socratici, platonici ed aristotelici.


Ad esempio, nel sostenere la necessità di una vita tranquilla ed appartata al riparo dal volgo, al fine di ottenere un’elevazione spirituale, egli fu ispirato da Epicuro;


preferendo lo stile della diatriba a quello del dialogo, e sviluppando la tematica della libertà dalle passioni, Seneca risentì dell’influsso cinico;


ammettendo che la libertà sia perseguibile attraverso la conoscenza, egli ricalcò il sentiero tracciato da Socrate;


per quanto riguarda la concezione dell’anima, egli si ispirò alla concezione di Platone;


nel tratteggiare la divinità in termini spirituali, egli fu un medio-platonico;


ed infine, riconoscendo l’importanza della scienza, egli accolse la visione di Aristotele.


Com’è facile intuire, i punti di divergenza con le posizioni filosofiche dell’antica Stoà furono numerosi e non mancarono alcuni elementi di novità ad arricchire ulteriormente la sua concezione.


Disinteressato alle questioni logiche e teoretiche, Seneca si occupò principalmente di etica, teologia e fisica, insistendo sugli aspetti pratici della filosofia.


Egli riprese la tesi epicurea secondo cui l’essere umano si sarebbe dovuto occupare della fisica per liberarsi dai timori, giacché la causa di essi è dovuta all’ignoranza nei confronti dei fenomeni naturali.


Anche la fisica venne affrontata in senso morale e religioso, essendo giudicata, in un certo senso, addirittura superiore all’etica, perché mentre quest’ultima disciplina si occupa di cose umane, la fisica ha a che fare con la divinità che si manifesta operando nel mondo.


Sul fatto che nell’universo esista un principio divino egli non nutre alcun dubbio: «L'universo non può essere senza Dio».


L’ordine del cosmo, infatti, non può essere attribuito all’azione di una materia inerte che si agita in modo casuale.


Un’aggregazione di elementi avvenuta senza un piano e senza un disegno non avrebbe prodotto l’equilibrio che può essere osservato in natura, né sarebbe stata capace di realizzare una disposizione così saggia delle cose.


La divinità è ed opera in ogni cosa, pertanto: «Non dobbiamo alzare le mani al cielo, né pregare il guardiano del tempio che ci permetta di avvicinarci agli orecchi della statua del dio, quasi che così potessimo più facilmente essere ascoltati: la divinità ti sta vicino, è con te, è dentro di te».


Egli afferma l’interiorità di Dio all’uomo; sicché per raggiungere la divinità, e conformarsi alle sue leggi, bisogna guardare in se stessi.


Secondo Seneca l’essere umano è dotato di un’anima; essa è sì sostanza pneumatica, alito sottile e soffio vitale, così come volevano gli stoici, ma non è affatto corporea.


L’anima si unisce al corpo, vivificandolo, ma per essa quest’ultimo è un peso, un vincolo, una catena: il corpo è prigione e tomba dell’anima.


Il vero essere umano non è corpo, è anima; quest’ultima tende a liberarsi dal peso del vincolo materiale per raggiungere la sua massima purezza. La morte fisica è per l’anima il giorno della nascita.


È chiara l’influenza orfico-pigatorica sottesa a queste tesi, con cui Seneca cerca di portarsi oltre lo stretto materialismo stoico; un tentativo che egli, però, non disponendo di sufficienti categorie ontologiche, lascia in sospeso, omettendo di sviluppare appieno queste intuizioni.


Altrettanto evidente è l’influsso della dottrina platonica a riguardo del concetto dell’anima; essa, sostiene Seneca, è composta da due parti: una razionale e una irrazionale.


A sua volta la parte irrazionale è suddivisa in due sottoparti, di cui una è irascibile, ambiziosa, guidata dalle passioni, e l’altra è umile, languida e dedita al piacere.


Questa suddivisione ricorda molto da vicino la tripartizione dell’anima data da Platone, che la voleva composta da una parte razionale, una irascibile ed una appetitiva.


L’essere umano per Seneca non è dotato soltanto di un’anima, ma anche di una coscienza; essa è una forza morale e spirituale fondamentale, scaturita dall’originaria ed ineliminabile consapevolezza umana rispetto ai concetti del bene e del male.


La coscienza è il più implacabile tra i giudici; i malvagi possono riuscire a sfuggire alle condanne sociali previste dalla legge, ma non riusciranno mai a nascondere alla loro coscienza ciò che hanno commesso con le proprie azioni.


Di conseguenza, chiunque compirà qualcosa di malvagio dovrà inesorabilmente fare i conti con la sua coscienza, la quale sarà sempre pronta a rimordere, per il tutto il resto della vita.


Chi vuole migliorare se stesso, deve impegnarsi in un continuo esame di coscienza.


La virtù non è preclusa a nessuno, il suo raggiungimento è agevolato dalla conoscenza, ma per conseguirla bisogna innanzitutto esercitare la volontà.


Tuttavia Seneca era convinto che la distanza tra come l’essere umano avrebbe dovuto essere, da un punto di vista ideale, e come invece avrebbe potuto essere, da un punto di vista reale, non fosse interamente colmabile.


Per questo motivo egli si allontanò dalle posizioni dello stoicismo antico, che proclamava l’assoluta perfezione del saggio che fa tutto in modo retto agendo secondo ragione, e la completa irrazionalità dello stolto, che invece opera sempre male come se fosse in preda alla follia.


Quello del saggio stoico è più un ideale a cui ispirarsi che non un modello concreto attuabile nella realtà; incontrare un vero saggio è una cosa talmente rara, che si può paragonare la sua nascita a quella della fenice, che viene al mondo una volta ogni cinquecento anni.


Il comportamento dell’essere umano oscilla per sua natura tra il bene ed il male; pertanto le sue imperfezioni e le sue cadute in ambito morale, vanno considerate con una maggiore indulgenza.


La pretesa perfezione del saggio è infondata: se qualcuno non peccasse mai, costui non sarebbe umano; perfino il saggio, a causa della sua umanità, talvolta può peccare.


Un’affermazione, quest’ultima, che si pone in netta antitesi con la posizione originaria dell’antica Stoà.


In campo morale, la più bella e profonda massima concepita da Seneca è quella basata sulla fratellanza universale, in cui il rapporto d’amore è posto a fondamento dei rapporti umani:


«La natura ci ha messi al mondo come fratelli: generati dagli stessi elementi, siamo destinati agli stessi fini. Essa pose in noi un sentimento di amore reciproco e ci ha fatti socievoli; ha dato alla vita una legge di equità e giustizia, stabilendo che è cosa più misera offendere che essere offesi. Se vogliamo eseguire i suoi ordini, le nostre mani devono essere sempre pronte al soccorso».


La società umana è come una volta di pietre che cadrebbe immediatamente, se i conci che la costituiscono non si sorreggessero a vicenda.


Così gli esseri umani, intesi come membra di un unico corpo, sono tenuti per natura ad esercitare un rapporto di sostegno reciproco.


Ecco come Seneca suggerisce che debba svolgersi il rapporto tra il padrone e lo schiavo:


«Comportati con gli inferiori come vorresti che si comportassero con te coloro che ti sono superiori»; una massima assai vicina allo spirito evangelico del cristianesimo.


Non stupisce che la figura di Seneca sia stata accostata al cristianesimo e che qualcuno, probabilmente tra il IV e VI secolo d.C., forse con l’intento propagandistico di portare questo illustre e stimato filosofo tra le fila dei cattolici, abbia addirittura redatto un carteggio apocrifo, spacciandolo come una prova dei suoi presunti rapporti con Paolo di Tarso, uno dei più importanti missionari del Vangelo che operò tra i pagani greci e romani.


Pare che il primo ad accorgersi che la corrispondenza tra Seneca e Paolo fosse un falso storico, sia stato Lorenzo Valla, un filologo che, tra le altre cose, dimostrò anche la falsità della cosiddetta Donazione di Costantino, un documento che permise alla Chiesa di Roma di rivendicare l’esercizio del potere temporale.


Ad onor del vero, bisogna dire che a rafforzare la tesi, senza alcun valore storico, che Seneca abbia subito l’influsso del primo cristianesimo, anche per opera di Paolo di Tarso, vi è una innegabile vicinanza tra alcuni aspetti di queste due dottrine.


Si pensi, ad esempio, all’ideale di fratellanza, alla clemenza ed alla predicazione dell’amore tra gli uomini, concepite e prescritte da Seneca in campo etico-morale, rispetto alle quali è del tutto naturale che i lettori cristiani dell’epoca abbiano sentito una grande affinità.


Basti sapere che la stima che quest’ultimi nutrivano nei suoi confronti era talmente grande, che alcuni di essi presero a chiamarlo “il venerabile”, mentre San Girolamo lo citò ampiamente nelle sue opere, annoverandolo addirittura tra i santi.


Per ironia della sorte, fu proprio grazie a questa vicenda leggendaria che le opere di Seneca sfuggirono alla censura dei cattolici medioevali, contribuendo efficacemente alla conservazione dei suoi scritti.


Eppure tra la morale di Seneca e quella cristiana vi è una distanza incolmabile; egli, infatti, mirava alla conquista della serenità dell’anima da conseguire nel corso della vita e non alla (illusoria) speranza di una salvazione post mortem.


Peculiari e degne di menzione sono anche le massime di Seneca sulla presenza del male nel mondo, sul tempo di vita, sul suicidio, sulla schiavitù, sull’educazione e sulla medicina, di cui riferiremo sinteticamente nel prosieguo della trattazione.


La riflessione attorno alla presenza del male nel mondo si pone in essere allorché ci si rende conto che il suo verificarsi sembrerebbe incompatibile con l’azione di una divinità immanente e provvedente, intesa dagli stoici come perfetta razionalità.


Se così stanno le cose, si domanda Seneca, com’è possibile che il male si abbatta sui buoni? Per quale motivo la ragione universale riserva nel destino dei giusti che questi si trovino a patire grandi ingiustizie e terribili sofferenze?


Perché il male, per Seneca, è un mezzo con cui la divinità mette alla prova la virtù degli esseri umani:


«Perché, allora, tante malattie, tanti lutti, tanti guai capitano proprio ai migliori? Per la stessa ragione per cui in guerra le imprese più rischiose sono assegnate ai più forti».


La divinità è una sorta di maestro spirituale che educa e mette alla prova i suoi scolari, ponendo sulle loro vie degli ostacoli e pretendendo di più proprio da coloro che possono dare di più: «Senza un avversario la virtù marcisce».


Secondo Seneca il tempo di vita concesso agli esseri umani sarebbe sufficiente per compiere le imprese più grandi, se solo essi avessero l’accortezza di impiegarlo correttamente: «la vita è lunga, se sai farne uso».


La verità non è che abbiamo poco tempo, è che ne sprechiamo molto: «certi momenti ci vengono strappati via, altri ci vengono sottratti furtivamente e altri ci sfuggono senza che ce ne accorgiamo perdendosi nel vento. Tuttavia, la perdita di tempo più vergognosa è quella che avviene per nostra negligenza».


Invece di conseguire saggiamente la virtù, vero e ultimo obiettivo dell’esistenza umana, sprechiamo intere giornate dissipando le nostre energie psico-fisiche dedicandoci a delle attività futili.


Dice Seneca: «Noi viviamo come se dovessimo vivere per sempre; non riflettiamo mai che siamo esseri fragili».


Per questo egli, guardando alla fragilità umana, esorta gli individui a vivere appieno il presente ed a guardare più alla qualità che non alla durata dell’esistenza: «Come una commedia, così è la vita: non quanto è lunga, ma quanto bene è recitata, è ciò che importa».


Del resto, anche la più grande delle ricchezze può essere dilapidata rapidamente, se gestita da un incapace, mentre invece una piccola somma di denaro, se bene impiegata, può dare origine ad una grande fortuna.


Ecco dunque qual è l’errore fondamentale: «Vediamo la morte davanti a noi e invece gran parte di essa è già alle nostre spalle: appartiene alla morte la vita passata».


Si muore un po’ alla volta, ogni giorno, ed è proprio grazie a questa consapevolezza che l’individuo può (cominciare a) mettere a frutto ogni minuto della propria esistenza.


Ma la vita per Seneca non è un valore in sé, da perseguire e conservare ad ogni costo, tanto è vero che egli stesso scelse di darsi la morte, assecondando così il suo destino.


La vita, al pari della ricchezza, è considerata dal saggio come uno di quei beni verso cui bisogna provare indifferenza, essendo sempre pronti ad abbandonarli, qualora la sorte li richieda indietro o si decida razionalmente che sia opportuno rinunciare ad essi.


Per il saggio è “vivo” colui che è utile ai molti e che può disporre di se stesso; se queste condizioni non sono date, l’extrema ratio del suicidio diviene lecita.


Dice Seneca che vivere non è necessariamente un bene; il bene è vivere bene. Per questo motivo: «il saggio vivrà quanto deve, non quanto può; esaminerà dove gli converrà vivere, con quali persone, in quali condizioni, con quali occupazioni. Egli si preoccupa sempre del tipo di vita che conduce, non della sua durata: se gli si presentano molte avversità che turbano la sua tranquillità, esce dal carcere».


E ancora: «Quel che importa non è morire più presto o più tardi, ma morire bene o male; morire bene significa fuggire il pericolo di vivere male».


Ma l’opinione di Seneca nei confronti del più estremo dei rimedi, non dev’essere intesa come un invito ad abbandonare in anticipo la vita: tutt’altro.


Perché se da un lato è vero che a suo avviso «la vita è tutta una schiavitù», giacché «siamo tutti legati alla sorte» anche se «alcuni con una lenta catena d'oro, ed altri con una catena stretta ed avvilente», dall’altro egli afferma il bisogno di «adeguarsi alla propria condizione, lamentarsene il meno possibile, cogliere tutti i vantaggi che essa presenta», perché «non c'è situazione tanto amara che l'equilibrio interiore non riesca a cavarne qualche motivo di conforto».


L’essere umano nei confronti del destino è come un cane legato ad un carro; l’unica cosa sensata da fare è accettare la propria sorte, evitando di opporsi ad essa, perché anche se si decidesse di lottare contro il destino, si verrebbe trascinati comunque, aggiungendo delle inutili sofferenze alla propria esistenza: «Il fato conduce colui che vuole lasciarsi guidare; trascina colui che non vuole».


Se da un lato è assurdo lottare contro la sorte, dall’altro non bisogna commettere l’errore di attribuire valore alle cose che dipendono da essa.


Quello di Seneca, quindi, è un appello all’interiorità, con cui ciascun individuo può, in primo luogo, tollerare il peso della vita, e, in secondo luogo, analizzare e regolare la propria condotta, orientandola in direzione del conseguimento della virtù.


Per quanto riguarda il dominio dell’uomo sull’uomo, invece, si può ben dire che, tra gli stoici, Seneca fu quello che più di tutti avversò le modalità di sfruttamento disumane riservate dai padroni ai servi.


Pur non arrivando a sostenere la liberazione giuridica degli schiavi, giacché a suo avviso la vera schiavitù è soltanto quella spirituale e non quella fisica che riguarda il corpo, egli sostenne con forza un principio di uguaglianza fra tutti gli esseri umani.


Gli schiavi sono individui che vivono nella stessa casa del loro padrone, sono degli amici umili, nonché compagni di schiavitù rispetto alla sorte, la quale è la vera padrona incontrastata delle vicende umane.


Essi, in forza della loro umanità, hanno pieno diritto ad essere trattati in modo dignitoso e possono raggiungere la virtù tanto quanto i loro padroni.


Dice Seneca: «Considera che costui, che tu chiami tuo schiavo, è nato dallo stesso seme, gode dello stesso cielo, respira, vive, muore come te! Tu puoi vederlo libero, come lui può vederti schiavo».


Non bisogna giudicare un individuo in base alle sue condizioni sociali, ma guardando alle sue azioni, perché ciascuno è veramente responsabile soltanto rispetto a ciò che compie; il mestiere, invece, viene assegnato dal caso.


Ciò è ancor più vero se si pensa che la sorte può in qualsiasi istante trasformare uno schiavo in un padrone ed un padrone in uno schiavo, così come è accaduto, ad esempio, al grande Platone, che è stato ridotto in schiavitù, pur essendo ricco e stimato.


Anticamente tutti gli uomini erano uguali e ciascuno di noi, se guarda ai suoi antenati, può trovare tanto servi quanto nobili.


La vera nobiltà a cui bisogna mirare non è quella materiale, ma quella interiore che può essere costruita nella dimensione spirituale.


Di conseguenza la vera schiavitù, la più vergognosa di tutte, non è quella dovuta alle condizioni sociali, ma quella morale esercitata in modo volontario, tipica di chi è assoggettato al vizio.


Non è difficile scovare tra i cosiddetti uomini liberi soggetti che sono schiavi della lussuria, dell'avidità, dell'ambizione, della speranza e della paura.


Vi sono poi consoli che sono servi di vecchie signore; uomini ricchi che sono schiavi di ancelle; giovani nobili sottomessi a pantomimi... e così via.


Possono quindi esistere schiavi che, essendo liberi nell’animo, operano secondo virtù e padroni che, pur essendo fisicamente liberi, sono più schiavi di coloro che giudicano come tali.


Ecco spiegato perché, secondo Seneca, non è tanto importante pretendere la liberazione degli schiavi dalla loro condizione sociale, la quale a suo avviso è dettata dalla sorte, quanto sostenere che i servi siano trattati in modo dignitoso, consentendo che essi possano parlare liberamente, perfino quando si tratta di criticare il loro padrone, e che possano sedere al tavolo per mangiare assieme ad essi.


In ambito politico, Seneca sostenne la legittimità d’un governo monarchico.


Così come il cosmo intero è retto da una ragione universale, anche l’impero è tenuto in piedi da un principe.


Tra tutte le possibili costituzioni, la monarchia è l’unica che rispecchia l’ordine naturale.


L’ideale del sovrano che Seneca aveva in mente era ben lungi dalla figura d’un tiranno malvagio.


Per guidare con saggezza l’impero, operando secondo ragione, egli dev’essere in grado di esercitare un perfetto autodominio.


In particolare, il sovrano ideale dev’essere in possesso della virtù della clemenza, una disposizione d’animo che risulta tanto più ammirevole quanto maggiore è il potere in mano a chi la esercita.


Ed infine, egli deve riuscire a controllare l’ira, che è la malattia del tiranno, trattenendola dentro di sé per impedire che prorompa all’esterno.


Degne di menzione sono anche le riflessioni di Seneca nel campo dell’educazione.


Egli riteneva che il processo educativo non dovesse terminare con la giovinezza ma che invece sarebbe dovuto durare per tutto il corso della vita.


Lo scopo consiste nel costruire una personalità che accolga il senso della giustizia, dell'eguaglianza e della fraternità universale, opponendosi ad ogni forma di violenza, crudeltà e corruzione.


Il mezzo per ottenere questo scopo è la filosofia. Lo studio deve concentrarsi sulla morale, ponendo in secondo piano sia gli aspetti teoretici che quelli retorico-letterali.


La lettura dei classici è raccomandata, a patto che quest’attività non sia finalizzata all’ottenimento dell’eloquenza, ma all’accrescimento della consapevolezza rispetto a se stessi, all’umanità e al mondo.


Dura è la critica di Seneca mossa nei confronti del metodo di insegnamento adottato nelle scuole dell’epoca, a cui egli contestava l’inutilità, rispetto all’ottenimento della virtù morale, della pratica di ripetere a memoria le frasi più eleganti e sonore, e di contare le ricorrenze delle forme verbali utilizzate dagli autori nelle loro opere.


Questo punto di vista fu trasferito da Seneca anche nel suo modo di scrivere, caratterizzato da una prosa elaborata e complessa che però si serviva di un linguaggio semplice e colloquiale, riducendo l’utilizzo delle parole ricercate all’essenziale.


Meno nota, ma assai interessante, è la teoria medica sposata da Seneca.


Egli, infatti, intrattenne stretti rapporti con gli esponenti della cosiddetta scuola pneumatica; essi sostenevano una dottrina nata dall'incontro tra le teorie mediche di Ippocrate e la filosofia degli stoici.


Secondo questa scuola, salute e malattia dipendono dallo stato e dalle reciproche interazioni del corpo con il fuoco vivificatore, vale a dire lo pneuma, un termine tradotto da Seneca come spirito (spiritus).


Il benessere si ha quando le qualità elementari dei costituenti dell’essere umano si mantengono in uno stato di equilibrio.


Lo spirito, ad esempio, che scorre ovunque nel corpo, per far sì che quest’ultimo funzioni correttamente, deve operare ad una certa temperatura, mantenendo una tensione opportuna.


Dice Seneca: «il nostro corpo non trema di per sé, a meno che una qualche causa non faccia tremare l'aria (spiritus) che vi circola».


Il flusso dello spirito è contratto dalla paura; reso languido dalla vecchiaia; indebolito dalla rigidità delle vene; paralizzato dal freddo; reso irregolare dalla febbre.


Infatti: «fintanto che l'aria scorre senza ostacoli e normalmente, il corpo non presenta tremore. Ma qualora si presenti qualcosa che impedisce la sua funzione, allora, incapace di mantenere ciò che con la sua energia teneva teso, scuote, indebolendosi, tutto quello che aveva potuto sostenere quando era integra».


Una delle conseguenze più interessanti della teoria medica degli pneumatici è che essa rende conto sia delle malattie psico-somatiche che di quelle somato-psichiche.


Si tenga presente che in greco antico la parola sòma significa corpo, mentre il significato del termine psyché può essere reso con il vocabolo moderno di anima.


Ciò significa che per Seneca i mali dell’anima si riversano sul corpo e, viceversa, quelli del corpo si trasferiscono all’anima.


Così, ad esempio, se lo spirito langue le membra si trascinano a fatica, mentre uno stato d’ira può essere provocato dalla fatica fisica o dall’insonnia.


Va da sé, quindi, che il rimedio universale per ripristinare lo stato di salute di un essere umano consista nel riconciliare il corpo con lo spirito, rispettando il fondamentale equilibrio richiesto dalla coesistenza delle loro qualità essenziali.



Le opere

La vastissima produzione letteraria di Seneca è composta da:


1) una decina di dialoghi raccolti in dodici volumi, in cui l’autore affronta tematiche ti ordine morale e religioso, così intitolati:

Ad Lucilium de providentia;

Ad Serenum de constantia sapientis;

Ad Novatum De ira in tre libri;

Ad Marciam de consolatione;

Ad Gallionem de vita beata;

Ad Serenum de otio;

Ad Serenum de tranquillitate animi;

Ad Paulinum de brevitate vitae;

Ad Polybium de consolatione;

Ad Helviam matrem de consolatione.


2) tre trattati, ovvero il De beneficiis, il De clementia e le Naturales quaestiones, di cui i primi due sono di carattere etico-politico mentre il terzo si occupa di fenomeni naturali. In particolare, il contenuto di quest’ultimo può essere intuito dai titoli dei sette volumi di cui esso è a sua volta composto:

libro 1: I fuochi - Gli specchi;

libro 2: Lampi e folgori;

libro 3: Le acque terrestri;

libro 4: il Nilo - Neve, pioggia, grandine;

libro 5: I venti;

libro 6: I terremoti;

libro 7: Le comete.


3) Centoventiquattro lettere, contenute in una raccolta formata da venti libri e intitolata Lettere a Lucillo (Epistulae morales ad Lucilium), composte dall’autore con l’intento di realizzare una sorta di strumento per la crescita morale dell’interlocutore, che sarebbe dovuta avvenire mediante uno scambio epistolare.


4) una decina di tragedie aventi per soggetto la mitologia greca in cui l’autore infonde il suo ideale etico: Hercules furens; Troades; Phoenissae; Medea; Phaedra; Oedipus; Agamemnon; Thyestes; Hercules Oetaeus; Octavia (ritenuta spuria).


5) L'Apokolokyntosis, ovvero una parodia della divinizzazione di Claudio decretata dal senato romano alla sua morte. Si tratta dell’unica opera di carattere satirico attribuita a Seneca. Il titolo è un neologismo ottenuto dall’unione dei termini greci apoteosi (Αποθέωση) e zucca (Κολόκυνθα), volendo forse significare glorificazione di una zucca, o di uno zuccone.


6) Oltre ad una decina di epigrammi, probabilmente spuri, vengono attribuiti a Seneca anche alcuni scritti apocrifi, come nel celebre caso, già illustrato in precedenza, della falsa corrispondenza con Paolo di Tarso.


È noto inoltre, in base alle testimonianze, che egli abbia composto degli ulteriori scritti, che però sono andati perduti.


Di essi sono arrivati fino ai nostri giorni soltanto i titoli e qualche citazione, che, tranne nel caso dell’opera intitolata De matrimonio, ampiamente citata da San Girolamo, non ci consentono di ricostruirne in modo accurato i contenuti.


Gaio Musonio Rufo



Gaio Musonio Rufo (Volsinii, 30 d.C. circa – 100 d.C. circa), conosciuto anche come Musonio l'Etrusco o il Socrate romano, fu uno dei maggiori esponenti del tardo stoicismo.


Al netto d’un paio di aneddoti, di cui riferiremo più avanti, le notizie in merito alla sua vita sono poche, incerte e di scarso interesse.


Quel poco che si sa in merito a ciò, è dovuto principalmente alla testimonianza di Tacito, che lo cita in alcuni passi dei suoi scritti.


È noto che Musonio venne alla luce a Volsinii, un’antica città etrusca successivamente distrutta dai romani, sui cui ruderi venne rifondata l’attuale Bolsena.


Da adulto divenne cittadino di Roma ed acquisì grande fama in virtù della rettitudine, dell’austerità e dello zelo con cui predicava e praticava la propria dottrina filosofica di stampo stoico.


Assieme al rigore, a completare il carattere di Musonio concorrevano anche una grande bontà d’animo ed una certa dose di genuina ingenuità.


Si dice che tra il 55 d.C. ed il 60 d.C. egli fu a capo di un circolo filosofico-letterario e si dedicò anche alla politica, sposando posizioni moderate.


In particolare, fu vicino a Tito Maccio Plauto, un commediografo romano considerato uno dei più prolifici e importanti autori dell'antichità latina, al punto da seguirlo in viaggio fino in Asia, dove quest’ultimo aveva deciso di recarsi dopo esser stato condannato prima all’esilio e poi alla morte dall’imperatore Nerone nel corso dell’azione repressiva collegata alla congiura di Pisone.


Dopo la scomparsa del suo amico Plauto, Musonio fece ritorno a Roma, ma nel 65 d.C. fu a sua volta condannato all’esilio a Giaro, un’isoletta temuta ed inospitale situata nel mar Egeo; la sua colpa, secondo l’accusa, consisteva nell’essere un allievo di Seneca.


Fortunatamente questa disavventura durò poco; è noto, infatti, dalla testimonianza del suo incontro con le truppe flaviane di Antonio Primo, che Musonio nel 69 d.C. si trovasse nuovamente a Roma, forse richiamato dall’imperatore Galba, con cui sembra fosse in rapporti di amicizia.


In quell’occasione, ovvero quando la guerra civile scoppiata dopo la morte dell’imperatore Nerone stava volgendo al termine, Musonio tentò un’improbabile opera di pacificazione, di cui si ha notizia grazie alle seguenti parole scritte da Tacito:


«S’era mescolato agli ambasciatori Musonio Rufo, di ordine equestre, zelante filosofo e seguace dei precetti dello stoicismo, ed in mezzo ai manipoli prendeva ad ammonire gli uomini armati con le sue disquisizioni sui beni della pace e sui mali casi della guerra. Ciò fu per molti motivo di scherno; per la maggioranza, di fastidio. E non mancava chi l’avrebbe spinto via o l’avrebbe calpestato, se, dietro consiglio dei più equilibrati e fra le minacce di altri, non avesse deposto la sua inopportuna esposizione di saggezza».


Fu così che a causa della sua fama di uomo retto, Musonio ebbe salva la vita e, qualche anno più tardi, fu escluso dalla cacciata dei filosofi romani decretata nel 71 d.C. dall’imperatore Vespasiano. Successivamente, però, fu nuovamente condannato all’esilio, per ragioni a noi sconosciute.


Si sa, infatti, che l’imperatore Tito lo richiamò nuovamente a Roma. Ma da qui in avanti non si hanno più notizie sulla vita di Musonio, fatta eccezione per l’informazione contenuta in un’epistola redatta agli inizi del II secolo da Plinio il Giovane, da cui si apprende che egli non era più tra i vivi.


Tra i discepoli più illustri di Musonio è d’obbligo citare Epitteto, che, raccogliendo l’eredità spirituale del suo maestro, sarebbe anch’egli diventato uno dei massimi esponenti dello stoicismo romano.


Seguendo l’esempio del buon Socrate, Musonio decise di non scrivere nulla, affidandosi unicamente alla predicazione orale.


Se noi conosciamo le dottrine di questo pensatore dobbiamo ringraziare un suo allievo di nome Lucio che, dopo aver frequentato le conferenze del proprio maestro, decise di trascriverle redigendo una raccolta di diatribe, di cui vi è traccia nell'Antologia di Giovanni Stobeo.


Ricordiamo, per inciso, che la diatriba è una peculiare forma di discussione filosofica molto apprezzata dai cinici e dagli stoici, in cui il relatore, rivolgendosi ad un pubblico di uditori, discute di tematiche etiche adottando uno stile ironico, polemico e demistificatorio.


Pur trovandosi a Roma, Musonio impartiva i suoi insegnamenti direttamente in greco, un linguaggio che ogni cittadino romano ben istruito aveva cura di apprendere in quanto considerato più adatto rispetto al latino per l’esercizio della filosofia.


Si dice che egli parlasse in modo figurato, utilizzando metafore e similitudini, paragonandosi ad un medico ed utilizzando immagini tratte dal regno animale.


Secondo Musonio il compito del filosofo, in qualità di educatore, consiste nel guarire gli esseri umani. In particolare, la filosofia è un mezzo per conseguire lo scopo pratico della virtù; quest’ultima, in estrema sintesi, consiste nell’arte del vivere bene e onestamente.


A tal fine, Musonio accentuò ancor più di Seneca il carattere pratico e moralizzatore della filosofia, rivendicando il primato della pratica rispetto agli aspetti teoretici.


Così come l’artista, che non diventa virtuoso nel dipingere quadri limitandosi a conoscere le questioni teoriche dell’arte, ma esercitando con costanza la pittura, anche per quanto riguarda l’ottenimento della virtù, più che allo studio della teoria, bisogna guardare al suo esercizio.


Del resto: «Come potrebbe essere molto più importante sapere la teoria in ogni questione, piuttosto che abituarsi ad agire secondo la guida della teoria?» dice Musonio: «Infatti l’abitudine conduce alla capacità di agire, mentre la conoscenza della teoria porta alla capacità di discorrere!».


E ancora: «È senz’altro vero che la teoria collabora con la pratica, insegnando come si debba agire e cronologicamente essa precede l’abitudine, poiché non è possibile acquistare un’abitudine positiva se non secondo la teoria; ma per importanza la pratica viene prima della teoria, dal momento che essa è capace, più della teoria, di guidare l’uomo all’azione».


Con ciò Musonio non intendeva dire che si sarebbero dovuti ignorare gli aspetti teorici, ma che bisognerebbe dare ad essi la giusta dose d’importanza, cercando di ridurli al minimo essenziale ed evitando di perdersi in sterili discussioni, così da concentrarsi maggiormente sugli aspetti pratici.


La stessa filosofia, se è vera, deve basarsi su pochi assunti, autoevidenti e facilmente acquisibili. Ed anche il suo insegnamento dev’essere votato alla chiarezza ed alla semplicità.


Così Musonio, da un lato, ammonisce quei filosofi che danno sfoggio della retorica come un vuoto orpello, dimostrando d’esser privi del dono della sintesi, e dall’altro redarguisce gli uditori che pretendono delle dimostrazioni pedanti, perfino quando le cose sono di per sé evidenti:


«Non è degno di lode il filosofo che ha bisogno di molte dimostrazioni per insegnare ai suoi discepoli, ma quello che, con poche, riesce comunque a far arrivare i suoi uditori là dove vuole».


E ancora: «Chiunque abbia sempre bisogno di una dimostrazione, anche nel caso in cui la questione sia chiara, oppure voglia che gli si dimostri con molti passaggi quello che gli si potrebbe dimostrare con pochi, è in tutto e per tutto stolto e ottuso».


Nonostante si dice che Musonio fosse severissimo con i suoi allievi che commettevano errori nel campo della logica, non si può evitare di ravvisare la grande distanza che vi è tra i suoi interessi, eminentemente rivolti agli aspetti etico-morali, con particolare riferimento all’esercizio della virtù, e quelli dei pensatori della prima Stoà, che dedicavano ampio spazio alla trattazione della fisica e della logica.


A suo avviso, siccome l’essere umano è costituito sia da un corpo che da un’anima, le tipologie di esercizi che conducono alla virtù si suddividono in due tipologie: quelli che riguardano il corpo e quelli che interessano l’anima:


«Dato che l'uomo non si trova a consistere di sola anima e di solo corpo, ma di una certa qual sintesi di questi due elementi, è necessario che chi fa esercizio si prenda cura di entrambi, e maggiormente di quello migliore, come è giusto, e cioè dell'anima; anche dell'altro, però, deve prendersi cura, ammesso che nessuna parte costitutiva dell'uomo debba risultare manchevole. In effetti, anche il corpo del filosofo dev’essere ben preparato a svolgere i lavori del corpo, poiché spesso le virtù si servono del corpo, quale strumento necessario alle attività della vita».


In particolare, il corpo dev’essere allenato a reggere il peso delle fatiche e delle difficoltà della vita.


Lo scopo è di addestrarlo a sopportare la sete, la fame, la privazione del piacere e ad essere sufficientemente forte per svolgere un duro lavoro fisico.


Chiaramente questo genere di attività coinvolge anche la parte animica, giacché senza la sua azione vivificatrice il corpo non potrebbe neppure muoversi.


Ma l’esercizio proprio dell’anima consiste nel discernere i beni dai mali, affinché si possano conseguire i primi ed evitare, e/o sopportare, i secondi.


Si noti come queste tipologie di attività siano intimamente connesse, giacché la pratica dell’una fortifica l’altra, sostenendosi reciprocamente.


Infatti, dall’esercizio spirituale consegue un incremento della capacità di affrontare la vita, mentre la fortificazione del corpo pone le basi per un accrescimento delle conquiste spirituali.


Musonio inizia così a delineare una dicotomia tra ciò che è bene e ciò che è male, sostenendo che il bene consiste nella virtù mentre il male in ciò che distoglie dal suo conseguimento.


Riprendendo una celebre tesi socratica, egli sostenne che l’essere umano tende spontaneamente al bene ma a causa dell’ignoranza finisce per mettere in atto il male confondendolo col bene.


Il compito del filosofo consiste nel porre rimedio a questa ignoranza, riconducendo gli individui sulla via della virtù.


Il problema è che alcune cose che sembrano mali, in verità, sono beni e, viceversa, ciò che appare come un bene, in realtà, è un male.


Si pensi, ad esempio, alle diete che prevedono il consumo di alimenti di origine animale. L’essere umano medio crede che per alimentarsi correttamente la carne sia necessaria.


Se ciò accade è a causa dell’ignoranza: infatti, non solo è possibile, ma è addirittura auspicabile, mantenersi in forze ed in salute senza mangiare né carne, né altri “alimenti” di origine animale.


Dice Musonio che l’alimentazione carnivora è una pratica adatta agli animali selvatici; ma tra i viventi l’essere umano è quello che più di tutti è imparentato con gli dei.


Per questo motivo egli dovrebbe cercare di imitarli in ambito alimentare.


Le divinità traggono energia dalle brezze che si levano dalla terra e dall’acqua; dal canto suo, l’essere umano dovrebbe assumere il nutrimento più leggero e puro.


In questo modo anche l’anima ne trarrebbe giovamento, divenendo migliore e più saggia.


In particolare, la carne risulta pesante, a causa della sua densità, ed impura, portando con sé l’energia malefica legata all’uccisione dell’animale da cui essa deriva.


La sua densità costituisce un impedimento al pensiero ed alla meditazione, mentre le sue esalazioni annebbiano l’anima.


A riprova di ciò, sostiene Musonio, si può osservare la relazione inversa che vi è tra l’intelligenza ed il consumo di carne, così che i più lenti di ragione sono proprio coloro che ne consumano in grandi quantità.


La scelta vegetariana è quindi nettissima e rappresenta una parte fondamentale della vita filosofica: essa favorisce la salute del corpo e dell’anima, la purezza della contemplazione, l’elevazione spirituale e l’assimilazione alla divinità.


Pertanto, l’adozione di un regime alimentare corretto può essere considerato a tutti gli effetti come un esercizio per il corpo e per l’anima, finalizzato al miglioramento di sé.


Tra le cose che appaiono beni, ma che in realtà non lo sono, Musonio annovera anche il piacere, la ricchezza e la vita; nell’elenco di ciò che appare come un male, senza esserlo, egli pone la fatica, la povertà, l’esilio, la vecchiaia e la morte.


«Mi è possibile affermare», argomenta Musonio, «che, chi non vuole faticare, si autocondanna subito a non essere degno di alcun bene, poiché i beni noi li acquistiamo tutti con fatica».


Si pensi ora ad un uomo che viene cacciato dalla sua città natia: in che modo l’esilio può scalfire la sua virtù? Egli non fa ancora parte della Terra?


Dice Musonio: «La patria comune di tutti gli uomini non è forse il mondo, come riteneva Socrate? Cosicché, non si deve pensare di essere esiliati veramente dalla patria, se ci si allontana dal luogo in cui si è nati e cresciuti, ma soltanto di ritrovarsi privi di una certa città, specialmente se ci si reputa una persona ragionevole. Chi, infatti, è tale non onora né disprezza una terra come fosse causa di felicità o di infelicità, ma pone tutto quanto in se stesso e si considera un cittadino della città di Zeus, che consiste, insieme, di uomini e di dei».


L’essere umano è un cittadino del mondo fisico ma fa anche parte alla città metafisica di Zeus; ciò che conta si trova nella sua interiorità.


La città di Zeus, patria comune spirituale dell’umanità, è una sorta di modello ideale, in cui l’aspetto divino simboleggia il miglior modo di vivere, ovvero la piena realizzazione della virtù.


Per questo motivo, nessun individuo può essere veramente esiliato e non c’è modo di riuscire a sottrarre ad un essere umano quelle cose che sono davvero importanti.


Così come l’esilio, anche la povertà, la vecchiaia e la malattia, non devono distogliere l’essere umano dal conseguimento della virtù; qualora simili condizioni si verificassero, nel corso dell’esistenza, le si dovrebbe accettare e sopportare.


Altre qualità che non dovrebbero mancare in ogni individuo sono l'equità, il coraggio, la giustizia e l'onestà.


Ancor più in generale, si può dire che per Musonio ogni cosa che concorre all'autosufficienza psicofisica e alla liberazione dalle passioni, andando così a forgiare un soggetto che bada e basta a se stesso, forte del suo inattaccabile codice morale, fosse ben accetta.


Egli riteneva anche che tra uomo e donna non vi sia differenza, in relazione al raggiungimento della virtù, giacché: «tutti quanti per natura, siamo fatti per vivere irreprensibilmente e rettamente: non l'uno di noi sì, e l'altro no. Una prova importante di questo è che i legislatori prescrivono a tutti indistintamente ciò che si deve fare e proibiscono ciò che non si deve, senza fare eccezione per nessuno che disubbidisca o sbagli, sottraendolo così alla pena: nessuno, né giovane, né vecchio, né forte, né debole, né qualsivoglia si sia».


Per quanto riguarda il commettere ingiustizia, Musonio sostenne la tesi socratica secondo cui sarebbe conveniente subire un sopruso piuttosto che commetterlo.


E non è un caso se egli arrivò addirittura a predicare la pace, l’amore ed il perdono tra gli uomini, sposando dei precetti morali che piacquero ai seguaci del cristianesimo.


Perdonare chi ci ha offeso è un atto positivo e fecondo; in quanto esseri umani si ha il dovere di evitare di fare del male agli altri, di aiutare i bisognosi e di andare incontro a coloro che commettono degli errori.


Si dice che Musonio violò il suo precetto, secondo cui non si sarebbe dovuta intentare causa neppure per difendere se stessi dalle ingiurie ricevute, soltanto in una sola occasione.


Ma lo fece per riabilitare la memoria di un suo amico che, qualche anno addietro, era stato condannato a morte a causa di una falsa testimonianza.


Dice Tacito che: «Musonio Rufo attaccò Publio Celere, accusandolo di aver attaccato Barea Sorano con una falsa testimonianza. Evidentemente con quell’accusa si rinnovavano gli odi delle delazioni. Ma l’accusato, vile e colpevole, non poteva essere difeso: di Sorano era santa la memoria; Celere, che faceva professione di sapienza, testimoniando contro Barea, aveva tradito e violato l’amicizia».


Nell’ambito sociale Musonio esaltò il valore del matrimonio al punto da porlo alla base della società:


«La cosa più importante in un matrimonio è la comunanza di vita e la generazione dei figli. Infatti lo sposo e la sposa devono unirsi l’uno all’altra, generare insieme e considerare tutto in comune, nulla come proprio, neppure il corpo stesso. E grande evento è la generazione di un essere umano che questo giogo procura. Ma per lo sposo non basta questo soltanto, che invero potrebbe risultare anche al di fuori del matrimonio, da altre unioni, come anche gli animali si uniscono tra loro. Bisogna invece che nel matrimonio abbia luogo una completa comunanza di vita e una reciproca sollecitudine dell’uomo e della donna, sia nella salute, sia nella malattia, sia in qualsiasi circostanza. […] Quando dunque tale sollecitudine è completa, e gli sposi che convivono se la donano compiutamente in modo reciproco, facendo a gara per vincersi l’un l’altro, questo matrimonio funziona come si deve ed è degno di emulazione, perché simile unione è bella».


Da un punto di vista pratico, secondo Musonio il miglior modo di vivere per conseguire la virtù consiste nel dedicarsi all’agricoltura.


In particolare, la coltivazione della terra è il mestiere che più si addice alla figura del filosofo.


L’agricoltura, infatti, costringe l’individuo a vivere secondo natura, assecondandone i ritmi, e a praticare un faticoso esercizio psico-fisico, ma in cambio di ciò assicura l’autosufficienza.


«La terra ricambia con i frutti più belli e più giusti coloro che si prendono cura di essa, dando molte volte tanto quel che riceve ed offrendo grande abbondanza di tutto quanto è necessario per vivere a chi ha la volontà di faticare. E tutto questo con decenza, nulla di ciò con vergogna».


Infatti, secondo Musonio: «non aver bisogno di un altro per le proprie necessità è molto più dignitoso che l’averne bisogno».


Di conseguenza, l’umile pratica del lavoro nei campi può essere considerata un’attività degna d’un uomo libero, giacché grazie ad essa egli è in grado di esercitare il governo di sé e di rendersi indipendente dagli altri.


Ma il lavoro della terra non dev’essere d’impedimento all’attività filosofica; per questo Musonio, tra tutte le attività agricole, predilige la pastorizia, così che il corpo non si affatichi troppo ed al filosofo resti del tempo libero per meditare ed insegnare.


Attorno ad esso verrebbe così a formarsi una comunità di agricoltori, che condividono la medesima spinta verso la ricerca spirituale.


Del resto: «di coloro che veramente amano la filosofia, non c’è nessuno che non desidererebbe vivere in campagna con un uomo virtuoso, anche se il podere dovesse essere particolarmente poco accogliente, sapendo che ricaverà grandi guadagni da questo soggiorno, grazie alla vita in comune con il maestro notte e giorno, perché sta lontano dai mali della città che sono impedimento al filosofare».


Epitteto di Ierapoli


Epittèto (Ierapoli di Frigia 50 d.C. circa – Nicopoli d'Epiro 130 d.C. circa), conosciuto anche come lo schiavo filosofo, fu uno dei più importanti esponenti dello stoicismo di epoca romana.


Nato da una coppia di schiavi nella città di Ierapoli, Epitteto ereditò il “mestiere” dai suoi genitori e, perlomeno nella prima fase della sua esistenza, fu anch’egli costretto alla schiavitù.


A riprova di ciò, si sappia che il suo stesso nome, o meglio il suo soprannome, ovvero Ἐπίκτητος (Epíktētos), può essere tradotto dal greco antico con il significato di “colui che è stato acquistato”.


È noto con certezza che Epitteto, in giovane età, prestasse servizio sotto Epafrodito, un ex schiavo che da liberto era divenuto un ricco e potente funzionario dell’imperatore Nerone.


Si dice anche che il suo nuovo padrone gli concesse il privilegio d’istruirsi, forse per renderlo un precettore di alto livello, ma che, in compenso, si divertisse a torturargli una gamba.


Epitteto accettava con indifferenza i soprusi del suo padrone limitandosi a fargli notare, con toni pacati, che, prima o poi, se avesse continuato a torturarlo, gli avrebbe causato una frattura; una previsione che, come ribadì lo stesso schiavo al suo torturatore, con altrettanta tranquillità d’animo, si rivelò incontestabilmente esatta.


Ad onor del vero, bisogna dire che l’aneddoto relativo alla gamba di Epitteto fu probabilmente inventato col duplice intento d’illustrare, da un lato, la dottrina stoica che predicava l’indifferenza rispetto ai mali del corpo e, dall’altro, di giustificare la sua nota zoppia.


Un difetto, quest’ultimo, che in realtà potrebbe aver avuto un’origine accidentale o naturale, giacché si dice anche che lo schiavo filosofo fosse stato gracile e malaticcio sin dalla tenera età.


In ogni caso, fu grazie ad Epafrodito che Epitteto ebbe modo di frequentare a Roma le lezioni dello stoico Musonio l’Etrusco, scoprendo così la sua innata vocazione per la filosofia.


Giunto ormai a maturazione filosofica, lo schiavo filosofo divenne a sua volta liberto. Ciò accadde per motivi che ci sono sconosciuti, forse sotto il governo di Tito o, al più, di Vespasiano.


Come suo primo atto da uomo libero, Epitteto prese ad insegnare filosofia nella città di Roma.


In questo periodo egli acquisì prestigio sociale, pur continuando a vivere in modo appartato, conducendo una vita umile e disinteressata al denaro.


Successivamente però, avendo criticato la svolta autocratica compiuta da Domiziano, fu cacciato da Roma non più tardi del 94 d.C. con uno dei provvedimenti con cui l’imperatore mise al bando i filosofi dalla città.


Trasferitosi a Nicopoli, nell'Epiro, fondò una vera e propria scuola filosofica che riscosse un enorme successo.


Da qui in avanti le notizie sul resto della vita di Epitteto scarseggiano.


È noto che egli continuò ad operare a Nicopoli fino alla fine dei suoi giorni, acquisendo una fama così grande da procurargli l’amicizia e la stima dell’erede al trono Adriano.


Qualche decennio più tardi, quando ormai Epitteto non era più in vita, il grande Marco Aurelio, filosofo stoico nonché imperatore romano, lo ricorderà nei suoi scritti annoverandolo nell’elenco dei suoi padri spirituali.


Seguendo l’esempio di Musonio, anche Epitteto non si curò affatto di mettere per iscritto il suo pensiero. E anche in questo caso, vi fu uno scolaro disciplinato, lo storico Flavio Arriano, che ebbe la felice idea di redarre un’opera in cui raccolse le lezioni del suo maestro.


Nacquero così le Diatribe, uno scritto in otto volumi, di cui quattro di essi si sono conservati fino ai nostri giorni.


Estrapolando dalle lezioni di Epitteto le massime più significative, Arriano compilò anche un fortunatissimo Manuale, anche noto come Enchiridion (letteralmente "oggetto che si tiene in mano"), di cui una delle traduzioni più celebri fu curata niente di meno che da Giacomo Leopardi.


Il carattere della filosofia di Epitteto ricorda molto da vicino quello di Seneca: rispetto agli esponenti dell’antica Stoà, che si occupavano approfonditamente anche di logica e di fisica, gli aspetti morali assumono una maggiore importanza ed i toni religiosi risultano fortemente accentuati.


Secondo Epitteto Dio, ovvero il logos immanente che pervade ed ordina ogni cosa nell’universo, è sia il padre degli dei che degli esseri umani; egli è al tempo stesso intelligenza, scienza e bene.


Dio è anche provvidenza, in quanto si prende cura non solo di tutte le cose ma anche delle sorti di ciascun individuo in particolare.


Egli è sia dentro il corpo che nell’anima, perciò l’essere umano non è mai solo lungo il suo cammino.


La stessa vita non è altro che un dono di Dio; assecondare la volontà divina significa, al tempo stesso, operare secondo ragione e compiere il bene.


Pertanto, osservare il precetto divino è un dovere morale: essere liberi significa adeguarsi spontaneamente all’ordine voluto da Dio.


Dice Epitteto che il compito proprio dell’essere umano consiste nel recitare nobilmente la parte che gli è stata assegnata; la scelta della trama, invece, spetta alla divinità.


Affinché l’esistenza scorra con serenità, non bisogna adoperarsi per fare in modo che gli avvenimenti seguano i nostri desideri, ma desiderare ciò che accade esattamente così come avviene.


Alla luce di queste espressioni, non stupisce che anche nel caso di Epitteto qualcuno tentò di alimentare l’opinione infondata secondo cui questo pensatore aderisse segretamente al cristianesimo.


In realtà, la distanza tra il moralismo religioso dell’ultima Stoà e la dottrina cristiana è incolmabile.


Si pensi alla stessa concezione di Dio, delineata dagli stoici come una sorta di principio fisico che opera nell’intimo delle cose in modo perfettamente razionale e necessario, che ha ben poco a che fare con l’idea della divinità elaborata ed adorata dai cristiani.


E si rifletta, inoltre, sul fatto che mentre per gli stoici l’essere umano può raggiungere la virtù attraverso l’esercizio della ragione ed una ricerca interiore individuale, secondo i cristiani la via del bene è data all’umanità direttamente da Dio.


In altre parole, né nella dottrina di Epitteto, né più in generale nello stoicismo, v’è alcuna traccia del concetto di rivelazione.


Al di là del tono religioso di Epitteto, in cui, al netto della fortissima carica spirituale, vi è ben poco di originale, la parte più bella e significativa della filosofia elaborata dallo schiavo filosofo riguarda, senza alcun dubbio, le sue riflessioni in campo etico e morale.


Secondo Epitteto tutto ciò che riguarda l’esistenza di un essere umano può essere suddiviso in due gruppi: le cose che sono in suo potere e quelle che invece non lo sono.


Al primo gruppo appartengono la ragione, l’opinione, il desiderio, l’impulso e la volontà dell’individuo, vale a dire gli atti spirituali; al secondo, il corpo, gli averi, la reputazione e, più in generale, quelle attività al di fuori del controllo dell’individuo.


Secondo Epitteto: «Tra le cose che esistono, le une dipendono da noi, le altre non dipendono da noi. Dipendono da noi: giudizio di valore, impulso ad agire, desiderio, avversione, e in una parola, tutti quelli che sono propriamente fatti nostri. Non dipendono da noi: il corpo, i nostri possedimenti, le opinioni che gli altri hanno di noi, le cariche pubbliche e, in una parola, tutti quelli che non sono propriamente fatti nostri».


La differenza sostanziale tra le cose che sono, e quelle che non sono, in nostro potere, è dovuta al fatto che le prime sono libere per natura, ed in quanto tali non possono essere né impedite né ostacolate, mentre le seconde sono schiave, giacché sono cose che dipendono da altri, ed è per questo motivo che possono ricevere impedimento.


Tutti i problemi esistenziali dell’individuo scaturiscono dall’ignoranza rispetto a questa distinzione fondamentale: felicità, libertà e virtù, possono essere simultaneamente ottenute a condizione di desiderare soltanto le cose di cui si può disporre.


Al contrario, chi decide di inseguire ciò che non è in suo potere, rimetterà la propria esistenza nelle mani degli altri, diventerà schiavo delle cose, andrà incontro a delusioni e sarà infelice.


La sua esistenza si ridurrà ad un continuo affanno dovuto al vano tentativo di conseguire o evitare cose ed eventi il cui verificarsi dipende dall’operato degli altri o addirittura dal caso.


Dice Epitteto: «se credi che le cose che sono per natura in uno stato di schiavitù siano libere e che le cose che ti sono estranee siano tue, sarai ostacolato nell'agire, ti troverai in uno stato di tristezza e di inquietudine, e rimprovererai dio e gli uomini.


Se al contrario pensi che sia tuo solo ciò che è tuo, e che ciò che ti è estraneo - come in effetti è - ti sia estraneo, nessuno potrà più esercitare alcuna costrizione su di te, nessuno potrà più ostacolarti, non muoverai più rimproveri a nessuno, non accuserai più nessuno, non farai più nulla contro la tua volontà, nessuno ti danneggerà, non avrai più nemici, perché non subirai più alcun danno».


Si comprende quindi come il fondamento morale dell’etica di Epitteto risieda nell’abilità di discernere tra tutte le cose quali sono in nostro potere e quali invece no.


Queste scelta di fondo, da cui discendono in modo consequenziale le decisioni particolari legate alle singole azioni di vita, va effettuata mediante il corretto uso della ragione.


L’individuo può portare a termine questo compito attraverso la proairesi, vale a dire la facoltà razionale propria degli esseri umani che li differenzia da tutti gli altri animali.


Analizzando le cose del monto egli dovrà elaborare ed emettere un super-giudizio, ovvero un giudizio di un giudizio: questa operazione cognitiva è indispensabile per attribuire un senso alle esperienze sensibili, le quali, secondo Epitteto, se considerate di per sé, risultano indeterminate.


Il guaio è che nell’emettere questi super-giudizi si corre il rischio di commettere degli errori, che possono ripercuotersi negativamente sull’esistenza dell’individuo.


Nel tentativo di discernere ciò che è in nostro potere (le cose proairetiche) da cosa invece non lo è (le cose aproairetiche), si può riuscire a stabilire effettivamente come stanno le cose (diairesi), oppure si può credere di una cosa che è in nostro potere, che non lo è, e di una cosa che non è in nostro potere, che lo è (controdiairesi).


Di conseguenza, mediante la proairesi l’essere umano può assumere due tipologie di atteggiamenti: quello che opera secondo diairesi e quello che agisce secondo controdiairesi.


Per comprendere concretamente questi concetti, si considerino i seguenti esempi, tratti dalle Diatribe di Epitteto:


1) «Oggi devo inevitabilmente morire. Ne devo pure gemere?»;

2) «Domani devo essere inevitabilmente imprigionato. Dovrò anche lamentarmi?»;

3) «Sono stato condannato all'esilio. Chi mi impedisce di ridere, di essere di buonumore, di essere sereno?».


Siccome morire, essere imprigionato ed essere esiliato, sono attività che non dipendono dalla volontà dell’individuo, al contrario del gemere, del lamentarsi, del ridere... e così via, che invece sono attività spirituali sotto il suo controllo, ne consegue che chi opererà diaireticamente morirà senza gemere, andrà in prigione senza lamentarsi e verrà condannato all’esilio essendo felice, mentre invece chi opererà controdiaireticamente morirà gemendo, andrà in prigione lamentandosi e verrà esiliato essendo infelice.


In tal senso Epitteto enunciò il celebre motto «astieniti e sopporta», volendo così sintetizzare la summa della sua morale, suggerendo di evitare di occuparsi delle cose che non sono in nostro potere sopportandone gli eventuali effetti negativi.


Un altro errore che bisogna evitare di commettere consiste nel ritenere che il bene ed il male alberghino nell’insieme delle cose che non sono in nostro potere, quando in realtà essi dipendono e sono legati esclusivamente alla classe delle attività spirituali, ovvero a tutto ciò che dipende strettamente dalla nostra volontà.


Ad esempio, non ha alcun senso considerare la morte naturale come un bene o un male, poiché essa non dipende da noi. «La morte», infatti, «non è nulla di terribile (perché altrimenti sarebbe sembrata tale anche a Socrate): ma il giudizio che la vuole tale, ecco, questo è terribile!».


La spiegazione del perché ciò avvenga è presto detta: «Non sono i fatti in sé che turbano gli uomini, ma i giudizi che gli uomini formulano sui fatti».


Di conseguenza, dice Epitteto: «quando subiamo un impedimento, siamo turbati o afflitti, non dobbiamo mai accusare nessun altro tranne noi stessi, ossia i nostri giudizi».


Ma in verità vi è un ulteriore passo da compiere per ottenere la completa saggezza: quello di riconoscere che gli accadimenti non possono essere diversi rispetto a come si verificano.


Per questo Epitteto sostiene che: «Incolpare gli altri dei propri mali è tipico di chi non ha educazione filosofica; chi l'ha intrapresa incolpa sé stesso; chi l'ha completata non incolpa né gli altri né se stesso».


Marco Aurelio


Biografia essenziale

L’imperatore e filosofo romano Marco Aurelio Antonino Augusto (Roma, 26 aprile 121 – Sirmio o Vindobona, 17 marzo 180) fu l’ultimo dei grandi esponenti del tardo stoicismo.


Messo al mondo da un’illustre famiglia di origine spagnola, ben presto il giovane Marco Aurelio rimase orfano di padre e fu adottato dall’avo paterno Marco Annio Vero.


Per questo motivo egli trascorse l’infanzia sul colle Celio, uno dei sette colli su cui venne fondata Roma, dove all’epoca dei fatti insisteva la domus nobiliare di suo nonno.


Per volontà del bisnonno, Marco Aurelio non frequentò le scuole pubbliche ma ricevette comunque un’educazione ed un’istruzione degna d’un futuro imperatore, potendo contare su di un gruppo di precettori di altissimo livello.


Il suo percorso formativo comprese lettere latine e greche, eloquenza, filosofia, scienze giuridiche e perfino la pittura.


Tra tutte queste discipline, Marco Aurelio fu particolarmente attratto dallo studio della filosofia, tanto è vero che, ad un certo punto, egli volle sperimentare direttamente l’austerità dello stile di vita stoico, indossando un ruvido mantello greco e dormendo a terra.


Per far sì che il futuro imperatore abbandonasse quest’ultima abitudine, dovette intervenire sua madre, la quale, forse preoccupata dalla delicatezza della costituzione fisica del figlio, riuscì in qualche modo a convincerlo dell’opportunità di ritornate a dormire su di un comodo letto.


Tra i precettori che si occuparono della formazione di Marco Aurelio citiamo:


Diogneto, un pittore e filosofo greco antico che lo avviò alla filosofia, insegnandogli a liberarsi dalla superstizione attraverso l’uso della razionalità;


Alessandro di Cotieno, un grammatico, tra i più importanti studiosi omerici del suo tempo, che lo formò dal punto di vista dello stile letterario;


Trosio Apro e Tuticio Proculo, due maestri di latino; Anino Macro, Caninio Celere ed Erode Attico, che si occuparono d’insegnargli il greco;


Marco Cornelio Frontone, un retore che, così come Erode, era considerato uno degli oratori più stimati dell'epoca;


Apollonio di Calcide, un filosofo stoico che gli trasmise l’essenza dello stoicismo, vale a dire l’ideale dell’indipendenza, l’importanza della ragione e dell'impassibilità;


Claudio Massimo, un politico e filosofo romano, che gli insegnò le virtù del senso del dovere, dell'autocontrollo, dell'onestà, della gentilezza e della clemenza;


ed infine, Quinto Giunio Rustico, considerato come il vero successore di Seneca, che completò la sua formazione di carattere stoico.


È noto anche che il futuro imperatore stimasse le dottrine di Epitteto, di cui venne a conoscenza leggendo gli scritti composti da Arriano di Nicomedia.


Tra tutti i suoi numerosi precettori, Frontone fu quello con cui Marco Aurelio strinse i più profondi e duraturi legami di amicizia.


Degno di menzione è il fatto che nei loro numerosi scambi epistolari essi non trattassero né di politica né di alcun avvenimento storico che in qualche modo fosse rilevante per l’impero, così come ci si sarebbe aspettati che avvenisse nelle interazioni tra un futuro imperatore ed un console.


Essi invece discutevano dei loro studi, di ricercatezze stilistiche e dei rispettivi stati di salute; è noto infatti che Marco Aurelio fosse cagionevole.


Non meno importante per il suo percorso di crescita personale fu anche l’esempio dei suoi familiari: «Mio nonno Annio Vero mi è stato esempio di affabilità e mitezza. Mio padre, di modestia e fermezza virile. Mia madre, di pietà religiosa e liberalità».


Le virtù morali sviluppate da Marco Aurelio non passarono inosservate; basti sapere che l’imperatore Adriano volle fargli sposare la figlia di Lucio Ceionio Commodo, ovvero dell’erede al trono da lui designato.


Quest’ultimo però si ammalò e venne a mancare, così Adriano individuò nella figura di Tito Aurelio Fulvio Boionio Arrio Antonino (ai più noto come Antonino Pio) il suo nuovo successore, facendogli promettere che egli avrebbe a sua volta adottato sia il figlio del defunto Ceionio Commodo, ovvero Lucio Vero, che Marco Aurelio, noto allora con il nome di Annio Vero.


Non appena salì al trono, Antonino esaudì la volontà del suo precedessore, e da quel momento in poi il diciassettenne Annio Vero prese il nome di Marcus Aurelius Antoninus con cui passò alla storia.


Questa seconda adozione favorì l’ascesa sociale di quello che un giorno sarebbe diventato un imperatore filosofo; negli anni successivi, infatti, Marco Aurelio bruciò le tappe, ricoprendo incarichi pubblici sempre più importanti.


Per prima cosa divenne questore e poi ricevette il consolato all’età di diciotto anni, operando in deroga alla norma che richiedeva il compimento del venticinquesimo anno di età per ricoprire quei ruoli sociali.


Successivamente divenne responsabile delle emissioni monetali imperiali e poi ufficiale dell’esercito romano in una legione.


Antonino Pio chiese a Marco se fosse disposto a recedere dal suo precedente patto matrimoniale, volendo farlo accompagnare con la sua giovane e bellissima figlia Faustina minore.


Egli accettò e dall’unione dei due scaturirono un’amore sincero, che durò per tutta la loro vita, ed una prole numerosissima, che avrebbe potuto contare ben 13 figli, se solo alcuni di essi non fossero morti in giovane età.


Non per ultimo, l’imperatore reggente gli attribuì anche il titolo di Caesar, rendendolo di fatto il nuovo erede al trono designato.


Negli anni successivi, Marco Aurelio affiancò Antonino Pio facendo tesoro dell’esperienza di buon governo messa in atto dall’imperatore.


Nei ventitré anni del suo imperio, infatti, Antonino Pio aveva fatto conoscere a Roma uno dei periodi più prosperi e beati di tutta la storia romana, riuscendo a guadagnare la stima e l’ammirazione del popolo.


Alla soglia dei settantacinque anni, la salute dell’imperatore precipitò e da lì in avanti anche l’impero si avviò al declino.


Giunto ormai alla fine dei suoi giorni, Antonino Pio fece trasportare la statua della Vittoria nella stanza di Marco Aurelio, come segno materiale del trasferimento della potestà imperiale.


Egli aveva scartato l’altro figlio adottivo, Lucio Vero, perché quest’ultimo, a causa della sua giovane età e del suo carattere, aveva dato prova di non essere in grado di reggere un impero.


Il senato consacrò il nuovo Princeps con i titoli di Augustus, Imperator e Pontifex Maximus; Marco Aurelio accettò stoicamente il suo destino, sebbene si dice che inizialmente abbia avuto un atteggiamento riluttante.


Egli, però, decise di assumere la direzione della Res publica soltanto a condizione che il fratello adottivo Lucio Vero ricevesse i suoi stessi onori: il senato accettò la proposta e, per la prima volta, Roma fu governata simultaneamente da due imperatori.


Nonostante, in teoria, i due fratelli avessero gli stessi poteri, in pratica, Marco Aurelio conservò una chiara preminenza su Lucio Vero ed esercitò una maggiore autorità rispetto ad esso.


Quest’ultimo si accontentò di recitare un ruolo di secondo piano e nei confronti del fratello si comportò con deferenza, obbedendogli così come avrebbe fatto un governatore con un imperatore.


L’intento di Marco Aurelio era quello di seguire le orme del suo predecessore, agendo nel rispetto delle antiche istituzione e ricercando il maggior bene dei sudditi.


A tal fine, accrebbe l’autorità ed il prestigio del senato, coinvolgendolo maggiormente nell’azione governativa, e legiferò in senso umanitario, reprimendo gli abusi delle autorità, curando la tutela dei minori e stabilendo norme più benevole verso gli schiavi.


I buoni propositi di Marco Aurelio, la sua vastissima formazione e le sue indiscusse qualità etico-morali, però, non lo misero al riparo da una lunga e disgraziata serie di rovinose calamità.


Durante il suo governo il nuovo imperatore dovette fronteggiare inondazioni, terremoti, pestilenze, carestie, irruzioni, rivolte, persecuzioni e guerre. E non bastarono di certo tutta la sua saggezza e la tenacia dei suoi sforzi a porre rimedio a queste sventure che travolsero ed avviarono al declino l’intero impero romano.


Le notizie sulla morte di Marco Aurelio sono incerte.


Si sa che nell’ultima fase della sua vita l’imperatore era impegnato in una guerra contro i Marcomanni, mentre un’epidemia di peste infuriava sullo stesso esercito romano.


Sentendo vicina la morte, forse dovuta proprio alla peste, Marco Aurelio convocò al suo capezzale il figlio Commodo chiedendogli di concludere onorevolmente la guerra, affinché non sembrasse che egli avesse tradito la Repubblica.


Nei giorni successivi accettò il suo destino e da buon stoico quale era accelerò la sua dipartita astenendosi dal mangiare e dal bere.


Per sua volontà, le redini dell’impero passarono nelle mani del figlio, che già lo affiancava nel suo operato ormai da qualche anno.


Una decisione, quest’ultima, assai infelice, che fu fortemente criticata dagli storici dell’epoca, giacché Commodo aveva già dato ampia prova di non essere all’altezza di quel ruolo.


Tale scelta, in forte contrasto col grande senso del dovere dell’imperatore Marco Aurelio, fu forse dettata dal timore di una rivolta sociale che sarebbe potuta scoppiare se egli avesse privato il figlio del diritto al trono.


Lo storico Lucio Cassio Dione omaggiò il defunto imperatore con un elogio, ma evidenziò l’inopportunità della scelta del suo successore con le seguenti parole:


«[Marco Aurelio] non ebbe la fortuna che meritava, perché non era fisicamente forte e poiché dovette affrontare, per la durata del suo regno, numerose difficoltà. Proprio per questo motivo lo ammiro maggiormente, in quanto egli, in mezzo a difficoltà insolite e straordinarie, non solo sopravvisse ma salvò l'impero. Solo una cosa lo rese infelice, il fatto che, dopo aver dato l'educazione migliore possibile al figlio, questi deluse le sue aspettative. Questa materia deve essere il nostro prossimo argomento, dato che da quel periodo dei Romani deriva oggi la nostra storia, decaduta da un regno d'oro a uno di ferro e ruggine».


Un’altra macchia imputata all’imperatore filosofo fu quella di aver perseguitato i cristiani.


Sebbene considerasse i seguaci di Cristo come dei fanatici, senza per questo mostrare disprezzo nei loro confronti, all’atto pratico Marco Aurelio diede continuità alle politiche indulgenti già adottate dai precedenti imperatori rispetto alla pratica dei culti.


In realtà, più che alla volontà del Princeps, la caccia ai cristiani che si verificò effettivamente sotto il suo imperio, fu dovuta alla convinzione del popolo che le numerose epidemie, carestie ed invasioni, che avevano colpito duramente la Repubblica in quell’epoca, fossero imputabili proprio ai seguaci di Cristo, i quali, negando gli dei, ne avrebbero causato la collera.


All’atto pratico, il principato di Marco Aurelio fu la più evidente confutazione empirica della tesi platonica secondo cui i mali non avrebbero abbandonato l’umanità fintantoché una generazione di filosofi veri e sinceri non fosse assurta alle somme cariche dello stato.


Marco Aurelio combinava un’invidiabile conoscenza filosofica con un’ottima disposizione d’animo, ma nonostante fosse un imperatore illuminato, nel senso nobile del termine, non riuscì affatto ad eliminare i mali dalla società.


Da ciò si evince che per raggiungere questo ambizioso obiettivo non è sufficiente pretendere che soltanto i governanti siano dei filosofi, ma semmai che sia necessario che tutta l’umanità sia votata alla filosofia.


Nonostante tutte le vicissitudini che dovette affrontare e sebbene sia stato anche (impropriamente) incluso nell’elencato dei persecutori dei cristiani, alla luce di tutto il suo operato, Marco Aurelio passò comunque alla storia come il quinto dei cosiddetti buoni imperatori.



Le opere

Nell’ultimo decennio della sua vita Marco Aurelio redasse un’opera letteraria in dodici volumi intitolata A sé stesso (in greco antico: Τὰ εἰς ἑαυτόν, Tà eis heautón).


Conosciuti anche come Pensieri, Meditazioni, Ricordi o Colloqui con sé stesso, gli scritti di Marco Aurelio, unici nel loro genere, vengono annoverati tra i maggiori capolavori filosofici di tutti i tempi.


Essi contengono una serie di ricordi, riflessioni, massime e consigli che l’imperatore annotò al fine di compiere una sorta di esercizio spirituale volto al proprio auto-miglioramento:


«Evita i costumi dei Cesari; non prender le costoro tinte, poiché così suole avvenire; ma conservati semplice, buono, intero, grave, serio, amante del giusto, pio, mite, cordiale, saldo nell'esercizio dei doveri. Sforzati di mantenerti come ti vuole la filosofia. Venera gli dei. Abbi cura degli uomini. La vita è breve. Unico frutto del viver sulla terra è la disposizione alla santità, alla beneficenza».


Lungi dall’essere un’opera sistematica, in cui viene esposto un sistema di pensiero completo e coerente, i Colloqui con sé stesso sono piuttosto una specie di diario filosofico in cui l’autore risponde, caso per caso, alle questioni sollevate dal proprio spirito, tentando di dissipare le angosce dovute al dubbio ed al sentimento.


Nonostante Marco Aurelio non si rivolga ai lettori della sua opera, ma alla propria coscienza, e con ogni probabilità non intendeva neanche pubblicare i suoi scritti di carattere strettamente personale, chiunque può facilmente trovare in essi degli insegnamenti di rara bellezza e dall’indiscusso valore morale, giacché egli, annotando le sue riflessioni, riversò in esse la summa della propria saggezza.


Si consideri, a titolo di esempio, il seguente passo, in cui l’autore esalta l’ideale stoico dell’apatia, avvalendosi di una suggestiva immagine poetica:


«Sii come il promontorio contro cui si infrangono incessantemente i flutti: resta immobile e intorno ad esso si placa il ribollire delle acque. “Me sventurato, mi è capitato questo!”. Niente affatto! Semmai: “Me fortunato, perché anche se mi è capitato questo resisto senza provar dolore, senza farmi spezzare dal presente e senza temere il futuro”. Infatti una cosa simile sarebbe potuta accadere a tutti, ma non tutti avrebbero saputo resistere senza cedere al dolore. Allora perché vedere in quello una sfortuna, anziché in questo una fortuna?».



Il pensiero

Per quanto riguarda la sua concezione filosofica, si può sinteticamente dire che Marco Aurelio, al netto di alcune tendenze eclettiche e di qualche elemento di novità, aderì in modo sostanziale alle dottrine dell’ultima Stoà.


Di conseguenza nei suoi scritti si ritrovano le tematiche classiche dello stoicismo tardo romano, si pensi ad esempio all’accettazione del proprio destino, al senso del dovere ed agli ideali dell’autosufficienza e dell’indifferenza.


Laddove vi è divergenza rispetto alla visione ortodossa dell’ultima Stoà, traspare in modo chiaro l’influenza subita da Marco Aurelio nei confronti di altri grandi pensatori, come ad esempio Platone, Eraclito, Epicuro ed Epitteto, di cui egli evidentemente conosceva e condivideva alcune visioni filosofiche.


Nel tentativo di risolvere i problemi della vita, a cui egli era fortemente interessato, Marco Aurelio accantonò sia la logica che la fisica, che invece avevano suscitato grande interesse nell’antica Stoà.


Non a torto si può sostenere che, tra gli stoici, egli fu colui che più di tutti restrinse il campo d’indagine, scegliendo di occuparsi principalmente di questioni etiche e morali.


Lungi dal riuscire a trovare delle risposte definitive alle problematiche esistenziali, negli scritti di Marco Aurelio si ravvisa una duplice tendenza allo scetticismo ed al pessimismo, mentre non di rado la sua opera assume dei toni malinconici e delle forti tinte religiose.


Il carattere delle sue riflessioni è quello di un saggio stoico che sente sulle proprie spalle tutto il peso del governo di un impero ormai prossimo ad un inesorabile declino ed oltre a ciò, nel suo intimo, soffre anche per gli accadimenti legati alle proprie vicissitudini personali.


In tal senso l’opera di Marco Aurelio può essere interpretata come un tentativo di lenire le angosce e ad il dolore dovuti alla propria sorte individuale e a quella collettiva dell’umanità.


Uno degli aspetti in cui egli fu originale e si discostò dall’ortodossia stoica riguarda la visione antropologica, con particolare riferimento alla natura dell’essere umano.


I membri della prima Stoà avevano sostenuto che l’uomo è formato dalla commistione di un corpo con un’anima e che queste parti, pur compenetrandosi, siano entrambe materiali.


Marco Aurelio superò questo schema, rinnegando il materialismo degli stoici, sostenendo che l’essere umano in realtà scaturisce dall’unione della seguente triade di principi costituivi:


1) il corpo (soma), che è carne ed è responsabile delle percezioni sensibili;

2) l’anima (psyché), che è pneuma, ovvero soffio vitale, la quale è il motore materiale del corpo e presiede agli impulsi;


3) l’intelletto (nous), ovvero la mente, che è spirito ed è in grado di produrre i pensieri.


L’essere umano, dunque, non è soltanto corpo; esso è costituto sia da parti fisiche materiali (il corpo e l’anima) che da una parte metafisica immateriale (lo spirito, ovvero l’intelletto).


Il suo principio dirigente, cioè l’egemonico, si trova al di fuori dell’anima e dev’essere identificato con il nous (intelletto-mente): è questo il vero “io” dell’essere umano.


L’intelletto è definito da Marco Aurelio anche come un daimon, vale a dire una guida donata direttamente da Zeus ad ogni individuo, ponendoli a metà strada tra l’umano ed il divino.


Il daimon, in definitiva, è ciò che differenzia gli esseri umani dagli animali e dalle altre cose del mondo, accomunandoli agli dei.


Per quanto riguarda la concezione della realtà, Marco Aurelio riprese e reinterpretò la tesi dell’eterno fluire di Eraclito, traendone la conclusione pessimistica che ogni cosa, prima o poi, è destinata a dissolversi e a morire.


La realtà viene paragonata ad un fiume che scorre perennemente, in cui nulla resta immobile. Questa incessante mutevolezza riguarda sia le forze che le cause e quindi investe inevitabilmente anche le vicende umane.


Si sente forte il bisogno d’una bussola con la quale orientarsi nel mentre che si è costretti a solcare i flutti della vita. E questa guida è data dalla filosofia:


«La durata della vita umana non è che un punto e la sostanza è un flusso, e nebulose ne sono le percezioni, e la composizione del corpo è corruttibile, e l'anima è un turbine, e la fortuna imperscrutabile, e la fama cosa insensata. E dunque, cosa c'è che possa guidare un uomo? Una cosa e solo una: la filosofia».


Due sono le tematiche che discendono dall’assunto dell’incessante fluire, da cui Marco Aurelio è particolarmente angosciato: la nullità delle cose e la morte fisica dell’essere umano.


Non c’è nulla tra le cose della vita che non sia condannato alla monotonia, alla caducità, alla dissoluzione e all’insignificanza, ovvero alla sua sostanziale nullità.


Di conseguenza, senza una corretta visione del mondo, l’esistenza stessa rischia di perdere di significato.


Del resto, l’essere umano è condannato dalla natura alla morte e perfino gli sforzi per guadagnarsi la fama e la memoria, in definitiva, risultano insensati, in quanto anch’essi saranno inevitabilmente vanificati dallo scorrere del tempo:


«Colui che è abbagliato dalla fama che può lasciare dopo la morte non pensa che ciascuno di quelli che si ricorderanno di lui morrà a sua volta e che altrettanto accadrà ai loro successori nella vita, finché non si estinguerà quella fama tutta intera, dopo essere passata attraverso alcuni esseri, la cui vita appena cominciata è destinata ad estinguersi».


E questo è ciò che accade a chi riesce a distinguersi dalla massa, perché a tutti gli altri spetta una fine ancor più tragica: «Il nome di coloro che furono un giorno illustri diventa oscuro; tutte le cose svaniscono ed un completo oblio ben presto le avvolge. Ed io parlo di coloro che brillarono già d’un meraviglioso splendore. Perché per gli altri, appena morti, nessuno li conosce, nessuno li ricorda».


Che cosa è, dunque, l’immortalità della nostra memoria? La risposta è nettissima: «Una vanità».


Vi è però una speranza: secondo Marco Aurelio, infatti, lo stoicismo rappresenta la dottrina che, con la sua visione panteistica ed il suo senso del dovere morale, è in grado di riscattare l’individuo dall’apparente insensatezza della vita e dalla vanità di tutte le cose, restituendo senso e significato all’esistenza umana.


Per quanto riguarda la morte, è importante che, per prima cosa, gli individui diventino consapevoli della loro natura mortale: «bisogna ormai, una buona volta, che ti renda conto di quale mondo sei parte, che capisca di quale realtà che governa il mondo sei efflusso e che un limite di tempo ti è fissato».


In secondo luogo, si deve cercare di non disprezzare la morte ma di accoglierla di buon grado, perché anch'essa è un ente tra quelli che la natura vuole.


In terzo luogo, bisogna realizzare che la durata della vita non è importante e che la determinazione della sua lunghezza non rientra nelle facoltà dell’individuo:


«Uomo, sei stato cittadino in questa grande città: che ti importa se per cinque anni o per cento? Quel che è secondo le leggi ha per ognuno pari valore. Che c'è di grave allora se dalla città ti espelle non un tiranno o un giudice ingiusto, ma la natura che ti ci aveva introdotto? (...) A stabilire che il dramma è completo infatti è chi allora fu responsabile della composizione, ora del dissolvimento; tu invece non sei responsabile né dell'una né dell'altro. Quindi parti sereno: chi ti congeda è sereno».


Ed infine, sebbene è inevitabile e certissimo che la morte fisica tocchi ogni essere umano, si deve considerare che ciò che accadrà veramente dopo di essa è un qualcosa d’incerto:


«Ippocrate stesso, dopo aver curato molti morbi, ammalatosi, morì. I Caldei predissero le morti di tanti, e poi il destino li catturò. Persino Alessandro, Pompeo e Gaio Cesare, dopo che ebbero valorosamente conquistato intere città, dopo che ebbero sbaragliato molte migliaia di cavalieri e fanti, abbandonarono la vita. Eraclito, una volta che ebbe speculato in tale (mirabile) maniera riguardo alla conflagrazione del cosmo, allorché le sue viscere si riempirono d'acqua, spalmatosi di letame, morì. I pidocchi uccisero Democrito, i pidocchi d'altro genere Socrate. E allora? Ti sei imbarcato, hai navigato, sei approdato: sbarca, dunque. Se sarà per un'altra vita, di certo non troverai colà nulla privo di dèi. Se, invece, sarà nella condizione in cui nulla più percepirai, infine cesseranno per te piaceri e dolori».


Secondo Marco Aurelio tre sono le possibilità rispetto alla morte:


nel caso sia vera la teoria materialistica degli atomi, avverrà la dispersione dei costituenti dell’individuo nell’universo (1);


nel caso dovesse risultare corretta la concezione panteistica, o si verificherà uno spegnimento dell’anima individuale (2) o un suo trasferimento, entro un altro essere vivente o in seno all’anima del mondo (3).


Ma a questo punto il problema dell’esatta determinazione del destino dell’anima dopo che essa si è separata dal copro passa in secondo piano e viene lasciato in sospeso.


La dipartita del padre subita in giovane età, e la scomparsa prematura di molti dei suoi figli, spinsero Marco Aurelio ad interrogarsi sul tema della morte anche in relazione alla perdita dei propri cari.


Secondo l’imperatore filosofo, per sopportare le sofferenze legate alla separazione dalle persone a cui si è sentimentalmente legati, bisogna rivedere il proprio atteggiamento: invece di pretendere l’impossibile, ovvero che chi amiamo non sia soggetto alla morte, bisogna essere pronti all’eventualità che essi vengano a mancare prematuramente: «Uno prega: “che io non debba perdere mio figlio!”; ma tu devi pregare: “che io non tema di perderlo!”».


Più in generale, si può dire che la ricetta universale per risolvere tutti i mali della vita, proposta dagli stoici e sposata anche da Marco Aurelio, consiste nell’introspezione, ovvero nel ritirarsi dell’anima in se stessa per praticare la meditazione interiore:


«Volgi subito lo sguardo dall'altra parte, alla rapidità dell'oblio che tutte le cose avvolge, al baratro del tempo infinito, alla vanità di tutto quel gran rimbombo, alla volubilità e superficialità di tutti coloro che sembrano applaudire... Insomma tieni sempre a mente questo ritiro che hai a tua disposizione, in questo tuo proprio campicello».


E ancora: «Guarda dentro di te. Dentro è la fonte del bene, che sempre ha il potere di sgorgare, a condizione che tu sempre scavi».


Esercitando in modo opportuno le facoltà proprie dell’intelletto, lo spirito umano può essere invincibile.


Infatti: «Le cose, di per se stesse, non hanno alcun contatto con l'anima, non hanno accesso all'anima e non possono né modificarla né muoverla, ma solo essa può modificare e muovere se stessa e far sì che gli accidenti esterni siano per lei tali quali i giudizi che stima giusto formulare su di essi».


In altre parole, l’egemonico, che è il vero io dell’essere umano, non può essere scalfito in alcun modo; se esso non vuole, non c’è nulla che possa ostacolarlo, danneggiarlo o colpirlo, né il ferro, né il fuoco, né la violenza fisica.


Ciò che può affliggere lo spirito sono le false opinioni che egli stesso formula e a cui sceglie di attribuire importanza: «Tutto è opinione, e questa è in tuo potere. Elimina dunque, quando vuoi, l'opinione, e come per chi abbia doppiato il promontorio, anche per te ci sarà gran bonaccia, quiete assoluta e un golfo al riparo dalle onde».


Ad esempio: «Non dire a te stesso niente più di quanto le rappresentazioni che più contano ti comunicano. Ti è stato annunciato che un tale parla male di te? Questo è l'annuncio fatto. Però che tu ne abbia avuto un danno non si trova nell'annuncio».


Pertanto, chiunque riesca ad esercitare il proprio intelletto in modo retto ed a conservarlo dalla corruzione spirituale, avrà trovato un rifugio sicuro che lo proteggerà da qualsiasi vicissitudine, conseguirà inoltre la pace assoluta e vivrà un’esistenza degna di un vero essere umano.


Gli individui, dice Marco Aurelio: «Van cercando ritiri alla campagna, alla marina, sui monti, e tu stesso suoli desiderare siffatti luoghi; ma non c'è miglior ritiro, e più tranquillo, di quello che l’uomo trova in se stesso, nella propria anima. Concedi dunque spesso a te questo rifugio, e rinnovella quivi te stesso... E soprattutto non agitarti, non aver grandi desideri, ma cerca d’essere libero, e di considerare le cose virilmente, da uomo, da cittadino, da essere mortale. E tra le considerazioni che farai, tieni sempre davanti queste due: la prima, che le cose materiali non toccano l'anima e, stando al di fuori di essa, non la possono agitare. I turbamenti vengono tutti dall'idea interna. La seconda, che tutte le cose che tu vedi si trasformano, e, mentre tu le vedi, ecco già più non sono. A quante trasformazioni tu hai preso parte! Il mondo non è che mutamento, la vita non è che apparenza».


La meta da raggiungere consiste nell’adiaforia, vale a dire nel conseguimento di uno stato mentale di serena indifferenza rispetto a ciò che si trova al di là della sfera entro cui l’individuo può effettivamente esercitare la propria influenza.


Essa è resa possibile dall’accettazione razionale dell’ordine naturale di cui si è parte e dall’assenza di giudizio rispetto agli eventi: «Consegnati spontaneamente a Cloto [la tessitrice che fila lo stame della vita], lasciando che ti intrecci con qualsiasi fatto voglia».


Così come Epitteto, anche Marco Aurelio suggerisce di utilizzare la ragione per discernere ciò che è in nostro potere da ciò che non lo è, così da concentrarsi su ciò che può effettivamente essere cambiato ed accettare le cose che invece non possono essere alterate.


Bisogna inoltre evitare di commettere l’errore di suddividere le cose in buone o cattive, desiderabili o indesiderabili, giacché: «La morte, la vita, la fama, l'infamia, il dolore, il piacere, la ricchezza, la povertà, tutto ciò tocca ugualmente a buoni e cattivi, non essendo queste cose né belle né brutte; e, dunque, neppure beni o mali».


Il bene ed il male, infatti, secondo Marco Aurelio, sono tali soltanto in senso morale e di conseguenza non v’è ragione di attribuire queste qualità alle cose che sono determinate dalla natura ed in cui ciascun individuo incappa, oppure no, a seconda del proprio destino.


Le riflessioni sul come ci si debba comportare nei confronti degli altri esseri umani per conseguire il bene morale, rappresentano il punto più elevato della concezione filosofica di Marco Aurelio: egli proclamò la parentela di tutti gli uomini ed affermò che essi avrebbero dovuto amarsi gli uni con gli altri in modo incondizionato.


Tutti gli individui condividono la medesima ragione e fanno parte di un’unica città. Il loro compito consiste nell’operare il bene, sia verso se stessi che nei confronti della società, e tutto ciò sarebbe dovuto avvenire in modo disinteressato, vale a dire come fine in sé, in quanto la benevolenza ed il mutuo supporto sono dei compiti propri connaturati agli esseri umani.


Queste tesi sono una diretta conseguenza del credo panteistico posto a fondamento della dottrina stoica professata dell’imperatore filosofo, nel senso che ora andremo a precisare.


Egli, infatti, sosteneva che: «Una sola è la luce del sole anche se interrotta da muri, montagne e infiniti altri ostacoli. Una sola è la sostanza universale, anche se è divisa in infiniti corpi di specifiche qualità. Una sola è l'anima, anche se è divisa e circoscritta in infinite nature e realtà individuali. Una sola è l'anima intelligente, anche se dà l'impressione di trovarsi divisa».


E ancora: «Tutte le cose sono reciprocamente intrecciate, il loro legame è sacro e quasi nessuna cosa è estranea ad un’altra. Si trovano, infatti, armonicamente ordinate e insieme danno ordine e bellezza al medesimo mondo. E quest’ultimo è unico, formato da tutte le componenti, unico è il dio che le attraversa tutte quante, unica la sostanza e unica la legge, la ragione comune a tutti i viventi intelligenti, unica la verità, se è vero che una sola è la perfezione dei viventi aventi medesima natura e partecipanti alla medesima ragione».


Di conseguenza: «Se l'intelligenza è comune agli uomini, pure la ragione, che ci rende ragionevoli, è a tutti comune. Se questo risponde a verità è comune anche la ragione che ordina ciò che si deve e non si deve fare. Esiste perciò una legge comune, perciò siamo tutti cittadini e perciò partecipiamo tutti a una specie di governo, quindi il mondo è simile a una città».


Entro la città degli esseri umani, l’individuo deve rispettare la sua duplice natura di essere razionale e socievole; pertanto egli deve servire sia se stesso che la comunità: «La mia natura è razionale e socievole. La mia comunità è la mia patria, di me, Antonino, è Roma, di me, uomo, è il mondo. Tutte le cose che sono utili a queste due patrie, sono buone anche per me».


Del resto, dice Marco Aurelio: «Ciò che non giova allo sciame, non giova neppure all'ape».


Siccome secondo il credo panteistico tutto è uno, servire gli altri significa servire se stessi, giacché la separazione è un’illusione: «Ho io fatta alcuna cosa per la società? Dunque a me ho recato vantaggio. Questo discorso ti sia presente in ogni tempo; non abbandonarlo».


Pertanto il bene va operato senza chiedere nulla in cambio, in quanto questo atteggiamento è dettato dalla natura umana; la ricompensa nell’aiutare il prossimo risiede nella bellezza morale insista in quel gesto: «Quando hai beneficato un uomo, che pretendi tu ancora? Non ti contenti di aver operato secondo la natura tua, ma vuoi anche una mercede? Come se l'occhio chiedesse una mercede perché vede, o i piedi perché camminano!».


Argomentando che tutti gli uomini sono accomunati da un legame di fratellanza, che la morte incombe su ciascuno di essi, che gli individui peccano solo per ignoranza ed in modo involontario, e, soprattutto, che nessuno può danneggiare la ragione degli altri, che rappresenta il vero io dell’uomo, Marco Aurelio affermò che l’amare chi sbaglia e perfino chi ci percuote sia un atteggiamento proprio dell'essere umano, sostenne inoltre che, con la giusta disposizione d’animo, si sarebbero potuti evitare l’ira e odio, ritenendoli entrambi ingiustificati, ed infine rivendicò la natura cooperativa degli esseri umani:


«Al mattino comincia col dire a te stesso: incontrerò un indiscreto, un ingrato, un prepotente, un impostore, un invidioso, un individualista. Il loro comportamento deriva ogni volta dall'ignoranza di ciò che è bene e ciò che è male. Quanto a me, poiché, riflettendo sulla natura del bene e del male, ho concluso che si tratta rispettivamente di ciò che è bello o brutto in senso morale, e, riflettendo sulla natura di chi sbaglia, ho concluso che si tratta di un mio parente, non perché derivi dallo stesso sangue, o dallo stesso seme, ma in quanto compartecipe dell'intelletto e di una particella divina, ebbene io non posso ricevere danno da nessuno di essi perché nessuno potrà coinvolgermi in turpitudini e nemmeno posso adirarmi con un parente né odiarlo. Infatti siamo nati per la collaborazione, come i piedi, le mani, le palpebre, i denti superiori e inferiori. Pertanto agire l'uno contro l'altro è contro natura, e adirarsi e respingere sdegnosamente qualcuno è agire contro di lui».


E ancora: «Adatta te stesso alle cose a cui la sorte ti ha assegnato. E ama, ma veramente, gli uomini coi quali il destino ti ha unito».


Grande è in Marco Aurelio il sentimento religioso; la divinità, a suo avviso, è provvidente ed è anche per questo che egli esorta a «vivere con gli dei», intendendo con ciò dire di essere costantemente soddisfatti della propria sorte: «Se gli dei hanno provveduto per me e per le cose che mi devono accadere, hanno provveduto a fin di bene. Perché non sarebbe facile immaginare un Dio improvvido».


Ma le argomentazioni portate a supporto dell’esistenza degli dei, e delle qualità positive ad essi attribuite, fanno leva più sulla retorica che non sulla logica, risultando tutt’altro che convincenti:


«Lasciare il mondo degli uomini, se gli dei esistono, non è affatto motivo di terrore: certo non ti getterebbero nella sventura. Ma se gli dei non esistono, o non si occupano delle cose umane, perché vivere, in un mondo deserto di dei o vuoto di provvidenza? Ma invece esistono, e si occupano delle umane cose, e perché l'uomo non cada in quelli che sono i veri mali, su di lui tutto hanno concentrato».


Con Marco Aurelio lo stoicismo raggiunse la sua acme, vantando la presenza di uno stoico sul trono imperiale. Ma dopo aver celebrando il suo più altro trionfo, questa corrente di pensiero si avviò verso un inesorabile declino.


Nonostante un imperatore romano si fosse apertamente professato, ed avesse operato, da stoico, furono sufficienti poche generazioni per far sì che lo stoicismo si dissolvesse, cessando d’essere una dottrina filosofica autonoma.


Da lì in avanti la sorte degli insegnamenti morali degli stoici fu quella di ispirare e guidare molti esseri umani, tramandandosi fino ai nostri giorni.


Mirco Mariucci

Fonti

  • Il pensiero occidentale, di Giovanni Reale e Dario Antiseri.

  • Storia della filosofia, di Nicola Abbagnano.

  • Storia del pensiero scientifico e filosofico, di Ludovico Geymonat.

Zenone di Cizio


Cleante di Asso



Crisippo di Soli



Panezio di Rodi



Posidonio di Apamea



Lucio Anneo Seneca



Gaio Musonio Rufo



Epitteto



Marco Aurelio




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