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martedì 8 settembre 2020

La concezione filosofica degli stoici




Antica, Media e Nuova Stoà


Assieme all’epicureismo ed allo scetticismo, lo stoicismo fu una delle maggiori correnti filosofico-spirituali del periodo ellenistico.


Ma delle numerose scuole post-aristoteliche, quella degli stoici fu senza dubbio la più importante ed influente, dal punto di vista storico-culturale.


Tale dottrina deve il suo nome alla Stoà poikile (traducibile come “portico dipinto”): un loggiato ornato con dei disegni situato nella zona settentrionale dell'agorà di Atene, in cui, nel III secolo a.C., Zenone di Cizio espose pubblicamente le sue idee, fondando di fatto una nuova corrente filosofica.


Alcuni ritengono che lo stoicismo sia, in un certo senso, una prosecuzione ed un completamento del cinismo; gli stoici, infatti, proprio come i cinici, non ricercavano la scienza, bensì la felicità, da realizzarsi mediante la virtù; ma a differenza di quest’ultimi, essi sostenevano che per giungere alla virtù, e quindi alla felicità, la scienza fosse indispensabile. 


Con i pensatori stoici i motivi del razionalismo, del panteismo e del determinismo, si combinarono in modo peculiare, dando forma ad una visione del mondo dogmatica ed ottimista.


Questo sincretismo di atteggiamenti fornì i presupposti per la nascita di una filosofia sui generis, che fu in grado di soddisfare sia i bisogni spirituali degli schiavi che degli imperatori.


La dottrina della Stoà non fu adottata soltanto dai filosofi, ma anche dai comuni cittadini e dagli esponenti politici, sia greci che romani; questi ultimi, in particolare, ne apprezzavano la compatibilità con le virtù classiche esaltate nella Roma imperiale.


L’ideale stoico è condensato nell’atteggiamento di un saggio che, esercitando un completo dominio sulle proprie passioni, è in grado di accettare ed affrontare a testa alta il proprio destino, qualunque esso sia, nella consapevolezza che ogni individuo recita un ruolo di fondamentale importanza entro un piano universale superiore univocamente determinato da un principio immanente che opera in modo perfetto e razionale: il logos (in greco antico: λόγος, lógos).


Si consideri che, ancora oggi, l’aggettivo “stoico” viene riferito a quei soggetti che dimostrano di avere una forza d’animo esemplare, perfino di fronte alle sventure più grandi.


Gli studiosi di filosofia sono sostanzialmente concordi nel suddividere la lunga storia della Stoà in tre periodi ben distinti, che descriveremo sinteticamente qui di seguito, citando i principali protagonisti delle rispettive fasi:


1) Stoicismo greco-antico (o Antica Stoà), dalla fine del IV secolo a.C. all’inizio del II secolo a.C..


In questa prima fase, Zenone di Cizio gettò le fondamenta su cui, qualche decennio più tardi, Crisippo di Soli avrebbe edificato lo stoicismo, ampliando e sistematizzando le dottrine enunciate dai suoi predecessori, tra i quali vi era Cleante di Asso.


Il notevole contributo di Crisippo è testimoniato dall’elevato numero di opere (oltre 700) che egli fu in grado di comporre. Non a caso sul suo conto si dice che: «Se non ci fosse stato Crisippo, non ci sarebbe stata neppure la Stoà».


2) Stoicismo medio (o Media Stoà), dall’inizio del II secolo a.C. alla fine del I secolo a.C..


In questa seconda fase, inaugurata da Panenzio di Rodi e continuata dal suo allievo Posidonio di Apamea, lo stoicismo assunse un carattere eclettico, contaminandosi con alcuni elementi dell’aristotelismo (recuperati da Panenzio) e del platonismo (introdotti da Posidonio).


L’importanza di questi due protagonisti della Media Stoà è principalmente dovuta alla grande influenza che essi riuscirono ad esercitare negli ambienti culturali romani.


Basti sapere che figure del calibro di Cicerone e Pompeo seguirono personalmente le lezioni che Posidonio teneva nella sua scuola di Rodi. 


3) Stoicismo tardo-romano (o Nuova Stoà), dal I secolo d.C. al III secolo d.C.


L’ultima fase dello stoicismo si caratterizzò grazie all’operato dei grandi stoici romani dell’età imperale. Tra di essi vi erano Lucio Anneo Seneca, Musonio, Epitteto e Marco Aurelio.


Questi pensatori abbandonarono l’eclettismo dei membri della Media Stoà per riavvicinarsi alle dottrine originarie concepite dagli stoici del periodo greco-antico.


Ma nel far ciò, le tematiche della logica e della fisica, tanto care ai membri della prima Stoà, vennero messe in secondo piano, per concentrarsi sugli aspetti etico-morali.


Situandosi in età cristiana, la Nuova Stoà assunse anche dei toni religiosi piuttosto marcati, andando così a soddisfare i rinnovati bisogni spirituali di quell’epoca. 


Questo è quanto c’è da dire, in estrema sintesi, in merito alle tre fasi dello stoicismo.


Le opere degli stoici


Disgraziatamente, fatta eccezione per alcuni frammenti, la poderosa produzione letteraria elaborata dagli stoici dell’Antica e della Media Stoà è andata quasi interamente perduta.


Di conseguenza, se oggi noi conosciamo le dottrine stoiche è soprattutto grazie alle testimonianze indirette, con particolare riferimento a quelle elaborate dagli avversari della Stoà, che riportavano con tono polemico le loro tesi nel tentativo di confutarle.


Di solito i frammenti e le citazioni riguardanti lo stoicismo non si riferiscono con precisione ad un singolo autore, ma parlano in generale degli stoici. 


È noto inoltre che Crisippo, con la sua poderosa opera, finì per offuscare la produzione degli altri stoici ad esso precedenti e contemporanei.


Egli si adoperò con grande tenacia per combattere alcune tendenze eterodosse, che avevano finito per provocare dei veri e propri scismi nella Stoà, riuscendo appieno nel suo intento.   


Ciò significa che l’esposizione dello stoicismo del periodo greco-antico è sostanzialmente un’illustrazione della formulazione filosofica elaborata da Crisippo. 


Di conseguenza, pur potendo individuare quali siano stati i più importanti esponenti dello stoicismo, il compito di attribuire con precisione a ciascuno di essi i rispettivi meriti nel processo di nascita delle diverse dottrine della Stoà, risulta particolarmente complesso, se non del tutto impossibile.


Per questo motivo, nei manuali di storia della filosofia la dottrina degli stoici viene esposta nella sua totalità, illustrando, nei limiti del possibile, le sfumature di pensiero dei vari protagonisti.


Assai diverso, invece, è il caso della Nuova Stoà, in quanto le opere dei filosofi stoici del periodo tardo-romano ci sono pervenute in grande quantità e talvolta nella loro interezza.


Pertanto, in questo saggio illustreremo, per prima cosa, una filosofia di base, comune alla maggior parte degli stoici, e poi passeremo in rassegna i vari esponenti dello stoicismo, operando in ordine cronologico e cercando di riportare, oltre ad alcune note biografiche, il rispettivo pensiero.


La tripartizione della filosofia


Cominciamo subito specificando che nella dottrina stoica la filosofia venne suddivisa in tre discipline distinte ma intimamente collegate: la logica, la fisica e l’etica. 


Il compito della logica consiste nell’occuparsi dei metodi per raggiungere la conoscenza; quello della fisica, di studiare l’oggetto della conoscenza, ovvero la natura; quello dell’etica, d’individuare la condotta morale che risulti conforme alla razionalità del mondo. 


Per far comprendere in modo intuitivo il senso di questa tripartizione, gli stoici elaborarono diverse immagini.


Essi, ad esempio, paragonarono la filosofia ad un frutteto, in cui la logica corrisponde al recinto che individua e difende i confini (della conoscenza), il terreno e gli alberi rappresentano la fisica, vale a dire quella struttura fondamentale senza la quale non potrebbe esistere il frutteto (cioè la filosofia), ed infine i frutti simboleggiano l’etica, vale a dire lo scopo ultimo a cui mira il proprietario del frutteto (ovvero il saggio stoico). 


Secondo altre analogie, a mio modesto avviso meno riuscite rispetto a quella appena illustrata, gli stoici associavano la filosofia ad un uovo, in cui la logica è il guscio, la fisica è l'albume e l'etica è il tuorlo, oppure ad una città ben costruita e protetta da delle robuste mura di cinta, entro cui i cittadini sono amministrati in modo retto secondo ragione.


Altri, invece, sottolineano come la tripartizione della filosofia adottata dagli stoici rifletta il loro specifico rapporto nei confronti della virtù.


Il motivo è presto detto: essi miravano alla sapienza, intesa come conoscenza delle cose, ma, a loro avviso, il viatico da seguire per l’ottenimento di questa scienza consiste precisamente nell’esercizio dell’arte della virtù.


E siccome secondo gli stoici le virtù più generali sono tre, ovvero quella razionale (relativa al corretto uso dell’intelletto), quella naturale (legata alla conoscenza della natura) e quella morale (dovuta ad una esistenza concretamente vissuta secondo ragione), ben si comprende il perché la stessa filosofia sia stata suddivisa in tre discipline distinte ma interdipendenti, vale a dire la logica, la fisica e l’etica.


La Logica


Un merito che va riconosciuto agli stoici è quello di aver considerato la logica non più come uno strumento al servizio degli altri campi di indagine, ma come una vera e propria disciplina autonoma.


Fino ad allora, infatti, la logica veniva ritenuta utile per l’ottenimento della conoscenza ed era intesa come una sorta di prerequisito propedeutico allo studio delle altre scienze.


Non a caso Andronico di Rodi intitolò “Organon” la raccolta che conteneva gli scritti di Aristotele riguardanti la logica, scegliendo un termine che può essere tradotto come “strumento”.


Con gli Stoici, invece, la logica divenne una parte a se stante della filosofia ed, in quanto tale, fu ritenuta degna di studio di per sé; il suo compito consiste nell’indagare autonomamente i modi del pensiero e le sue espressioni.


Essi intendevano questa disciplina come la scienza del logos, un termine che, per essere compreso nell’accezione stoica, dev’essere considerato col triplice significato di “parola”, “pensiero” e “ragione”.


Sicché per gli stoici, la logica doveva essere intesa come la dottrina che si occupa sia dei pensieri condotti secondo ragione, che dei costrutti del linguaggio attraverso i quali i ragionamenti possono essere espressi e comunicati.


In tal senso, l’oggetto di indagine della logica stoica è rappresentato dai logoi, ovvero dai discorsi; se i logoi sono discorsi continui allora la logica stoica diviene retorica, mentre se si svolgono per domande e risposte essa si fa dialettica.


A sua volta la dialettica era suddivisa in due sottodiscipline, a seconda se ci si occupasse dello studio delle parole o dei significati. 


Più precisamente, la parte della dialettica stoica che indaga le parole altro non è se non la grammatica, mentre quella che tratta delle cose significate è propriamente ciò che noi oggi definiremmo logica.


Come avremo modo di comprendere, gli oggetti di studio della logica stoica furono le rappresentazioni, le proposizioni ed i ragionamenti, con particolare riferimento ai sofismi ed ai paradossi, verso i quali gli stoici indirizzarono grandi energie.


Seneca, uno dei maggiori esponenti dello stoicismo tardo-romano, definì la dialettica come: «La scienza di ciò che è vero, di ciò che è falso e di ciò che non è né vero né falso», una categoria, quest’ultima, in cui venivano inclusi quei ragionamenti la cui verità o falsità era giudicata indecidibile, come accade in alcuni paradossi (si pensi ad esempio alla celebre antinomia del mentitore). 


Ancor prima della retorica e della dialettica, gli stoici si occuparono di gnoseologia, ovvero di formulare una teoria della conoscenza.


In particolare, quello d’individuare un criterio di verità, fu il primo problema che gli stoici tentarono di affrontare; ma il più grande successo da essi conseguito nell’ambito della logica fu senza dubbio l’elaborazione e la formalizzazione della logica proposizionale, di cui gran parte del merito va attribuito al genio di Crisippo.


L’urgenza d’individuare un criterio di verità può essere compresa se si considera che gli stoici ponevano il pensiero a guida dell’azione.


Di conseguenza, se il pensiero avesse esso stesso vagato erraticamente alla ricerca della verità, senza alcun metodo, non avrebbe di certo potuto svolgere il compito di regolare correttamente la condotta morale.


La soluzione elaborata dagli stoici al problema della conoscenza è data dalla teoria della phantasia kataleptiké, traducibile in italiano come rappresentazione (o fantasia) catalettica (o comprensiva).


Con questi termini s’intendeva indicare un metodo conoscitivo svolto in due fasi: il sentire e l’assentire. 


La sensazione costituisce il primo momento della rappresentazione catalettica; si tratta di un processo passivo dovuto all’azione che gli oggetti esercitano sui sensi, producendo in modo pressoché automatico una impressione nell’anima (phantasia).


Vengono così a costituirsi nell’intelletto delle immagini degli oggetti reali, rispetto alle quali però, secondo gli stoici, non vi è garanzia di piena corrispondenza con la realtà, ovvero tra ciò che effettivamente è, e ciò che viene rappresentato dai sensi nell’anima.


È per questo motivo che il processo conoscitivo stoico si serviva di un secondo momento: l’assentire, vale a dire un processo attivo in cui il soggetto conoscente tenta di stabilire se sia il caso di dare il proprio assenso rispetto alla veridicità delle rappresentazioni animiche impresse dai sensi.


Per gli stoici, quindi, assentire significa esprimere un giudizio, riguardante una rappresentazione, in modo libero, consapevole e volontario. E tale giudizio può tradursi praticamente in un assenso, in un dissenso o in una sospensione del giudizio.


Nel primo caso il soggetto percepente sostiene positivamente la verità della rappresentazione, cioè ritiene che vi sia piena corrispondenza tra l’impressione animica e la realtà; nel secondo la nega, ovvero afferma che la rappresentazione sia falsa, cioè che non vi sia un’esatta corrispondenza tra la fantasia mentale e la realtà; mentre nel terzo caso si limita ad evitare di compiere una valutazione definitiva del grado di verità in merito ad un certo processo conoscitivo.


Pertanto, la catalessi, cioè l’atto conoscitivo con cui il pensiero apprende effettivamente la realtà, avviene quando il soggetto percepente concede il suo assenso ad una rappresentazione.


Ma affinché il processo della rappresentazione catalettica produca conoscenza è indispensabile che il giudizio del soggetto percepente avvenga in conformità al logos, ovvero sia condotto secondo ragione.


Per gli stoici, infatti, il logos ha una validità universale e, permeando l’universo, determina parimenti sia il pensiero razionale dell’essere umano, che la realtà fisica esterna agli individui.


Pertanto, si assentirà soltanto nei confronti di quelle rappresentazioni motivate dalla forza dell’evidenza, assentendo (o dissentendo) rispetto a ciò che risulta oggettivo, riservandosi sempre la possibilità di sospendere il giudizio nel caso in cui lo si ritenga opportuno.


Per questo motivo gli stoici posteriori precisarono che il criterio della verità non doveva essere fondato soltanto sulla rappresentazione catalettica, ma sulla rappresentazione catalettica rispetto alla quale non è possibile opporre nulla in suo contrario.


In altri termini, l’assenso è giustificato secondo ragione quando a corredo di una rappresentazione seguono delle evidenze non contraddette che, in virtù della loro forza, inducono il soggetto percepente ad emettere un giudizio rispetto al grado di verità con ragionevole certezza.


In linea di principio, qualsiasi contenuto del pensiero, può essere vero o falso; ciò che determina il suo grado di verità è la concordanza con la realtà oggettiva.


Il vero, dunque, è tale in quanto è identico al reale, ovvero in quanto sussiste un’esatta corrispondenza tra la realtà e la sua rappresentazione mentale ideale.


L’insieme delle fantasie che suscitano l’assenso, opportunamente collegate ed elaborate, costituiscono la scienza; quest’ultima, dunque, è il prodotto della rappresentazione catalettica combinata con il ragionamento.


Il compito di presiedere al ragionamento, assicurando che esso sia condotto secondo ragione, era affidato dagli stoici alla dialettica, ovvero a ciò che noi oggi chiameremmo logica.


S’intuisce quindi la grande importanza che questa disciplina rivestiva nella filosofia stoica, giacché se fosse venuta meno la validità del modo di pensare, con esso sarebbe caduta anche la teoria adottata per giustificare l’ottenimento della conoscenza. 


Così come per gli epicurei, dunque, anche per gli stoici l’origine della conoscenza risiede nella sensazione. 


L’anima è vista come una sorta di tabula rasa sulla quale vengono registrate le rappresentazioni dovute alle esperienze sensibili; in tal senso, quindi, lo stoicismo può essere considerato come una corrente empirista.


Ma a differenza degli epicurei, gli stoici aggiungevano che per produrre scienza fosse indispensabile il contributo attivo dell’intelletto, in quanto una conoscenza interamente basata sulla sensazione e sulle rappresentazioni direttamente impresse nell’anima dalle cose, non avrebbe avuto quei caratteri di stabilità, oggettività e certezza richiesti per distinguere il vero dal falso. 


Secondo la filosofia stoica, l’intelletto svolge degli ulteriori compiti, non meno importanti rispetto al precedente. 


Dopo la loro scomparsa, le rappresentazioni mentali producono dei ricordi e dall’insieme di quest’ultimi ha origine l’esperienza degli individui.


Ciò è possibile grazie alla facoltà ordinatrice esercitata dalla ragione che provvede a raccogliere, catalogare e accantonare i dati sensibili nella memoria umana. 


Le rappresentazioni sensoriali conservate nella coscienza vengono poi elaborate attraverso un processo di intellezione, dando origine alle anticipazioni (a), agli universali (b) ed al significato (c).


Pertanto, per mezzo dell’intelletto, si passa dalla rappresentazione catalettica ai concetti.


a) Le anticipazioni, anche note come prolessi o nozioni comuni, per gli stoici sono idee generali che appartengono a tutti gli individui e svolgono un’importante funzione per anticipare le esperienze che avverranno in futuro.


Esse sono comuni in quanto ogni individuo è in grado di dar forma a questi concetti nella propria mente allo stesso identico modo, avvalendosi della ragione.


Le anticipazioni, quindi, non sono delle idee innate ma un prodotto naturale che ha un’origine spontanea e comune a tutti gli esseri umani.


Ciò significa che la prolessi è la nozione naturale dell’universale: ma che cosa sono gli universali per gli stoici?


b) Gli universali sono dei nomi che accomunano più cose; essi esistono soltanto nell’anima, come un qualcosa di pensato che può essere espresso. 


Siccome l’universale dipende dal pensiero, è esprimibile con la parola, ma non ha un’esistenza propria nella realtà, si può sinteticamente sostenere che gli stoici furono sia dei concettualisti che dei nominalisti.


A loro avviso ciò che esiste, l’essere, è sempre corporeo ed in quanto tale delinea una realtà individualizzata; ma l’universale non ha un fondamento ontologico, si tratta di un qualcosa d’incorporeo che sussiste soltanto nella mente di chi produce anticipazioni e concetti. Oltre a ciò, essi precisarono che:


1) nulla può avere un carattere proprio, relativo a se stesso, se non ha un suo peculiare modo d’essere;


2) non può esistere un modo d’essere peculiare, senza che vi sia qualche caratteristica fondamentale, ovvero una qualità, che lo contraddistingua dagli altri;


3) soltanto un qualcosa che sussiste di per sé, cioè una sostanza, può avere delle caratteristiche peculiari;


Di conseguenza, gli stoici ridussero le celebri categorie aristoteliche a quattro concetti generali: 


1) il soggetto (o la sostanza);

2) la qualità;

3) il modo d’essere;

4) il modo relativo.


Osserviamo, en passant, che queste categorie sono incapsulate una nell’altra, nel senso che ciascuna di esse racchiude e determina quella ad essa precedente, fino ad individuare il soggetto. 


Se da un lato il concetto più determinato di tutti è dato dalla specie che non ha altra specie sotto di sé, cioè l’individuo (si pensi pure a Socrate), dall’altro quello più esteso, il genere sommo, è dato dall’essere, giacché tutto ciò che esiste, in qualche modo, è.


Eppure, come avremo modo di comprendere meglio nella sezione dedicata alla fisica, nel tentativo di rendere conto delle cose incorporee, come ad esempio gli universali pensati dall’intelletto, alcuni stoici introdussero un concetto ancora più esteso dell’essere, vale a dire il qualcosa (aliquid), che includeva anche ciò che non è corpo e non esiste nella realtà fisica.


c) Il significato, invece, o più precisamente il lekton (in greco λεκτόν), è la nozione centrale della teoria della conoscenza e della logica stoica: esso scaturisce dall’operato dell’intelletto e rappresenta il significato universale del discorso a base razionale.


Siccome il lekton si estrinseca attraverso un logos (discorso), esso si presta ad un’indagine specifica che mira alle caratteristiche, alla struttura ed ai limiti del linguaggio impiegato per comunicare il significato: da qui ha origine la semantica.


Ma il lekton, in quanto frutto incorporeo dell’attività del pensiero razionale scaturito dall’interazione tra la realtà fisica e l’anima umana, rappresenta anche la chiave d’accesso per la conoscenza fisica. 


Questa tesi veniva giustificata sostenendo l’immanenza di una ragione universale nel mondo: il logos, appunto. 


Si tenga presente che la teoria del significato elaborata dagli stoici fu uno degli aspetti più influenti nell’ambito della logica e della teoria del linguaggio.


Essi ritenevano che il lekton collegasse tre elementi:


1) ciò che è;

2) il significante;

3) il significato.


Ciò che è viene definito come un soggetto del mondo reale (si pensi pure al Socrate storicamente esistito nell’Antica Grecia);


il significante è ciò che significa, vale a dire un segno, o una forma, fisicamente percepibile, come ad esempio un suono od una scritta, che rinvia ad un contenuto (si pensi alla vocalizzazione della parola “Socrate”); 


il significato è il concetto che viene colto dalla mente quando si pensa alla cosa reale a cui rimanda il significante (si pensi a ciò che evoca nella propria mente la lettura della parola “Socrate”). 


Di questi elementi, sostengono gli stoici, soltanto il significato è incorporeo, mentre ciò che è, ed il significante, sono entrambi corporei.


Il significato svolge anche la funzione di collegare i suoni e, più in generale, le espressioni linguistiche, alle cose del mondo; senza di esso, le parole sarebbero dei segni puri, senza alcun riferimento alla realtà.


La precedente teoria può essere opportunamente estesa al fine di includere anche i concetti astratti.


Ad esempio, se con la vocalizzazione della parola “uomo” s’intende comunemente il significato di “animale dotato di ragione”, allora con il medesimo suono si possono indicare tutti gli individui che appartengono a questa categoria, ovvero tutti gli uomini.


In tal caso, il concetto “animale dotato di ragione” è quel significato che consente di riferire il significante “uomo” agli esseri umani che esistono nella realtà fisica.


In epoca medioevale e moderna, ciò che gli stoici chiamavano “significato” è stato denotato con altri termini, come ad esempio “connotazione”, “intensione”, “comprensione”, “interpretante” e “senso”.


Il riferimento alla cosa, invece, è stato detto anche “supposizione”, “denotazione”, “estensione” e “significato”.


Questo cambio di terminologia è avvenuto senza nulla togliere alla validità dell’analisi del lekton suddivisa nei tre elementi individuati dai membri della Stoà.


Per quanto riguarda lo studio dei ragionamenti, gli stoici ampliarono l’analisi dei sillogismi condotta da Aristotele, concentrandosi su di un nuovo tipo di sillogismo ipotetico-deduttivo. 


E nel far ciò, teorizzarono e formalizzarono, per primi, quella branca della logica oggi nota con il nome di logica proposizionale.


Il più classico dei sillogismi aristotelici ha la seguente forma:


«Tutti gli uomini sono mortali» (premessa maggiore);

«Socrate è un uomo» (premessa minore);

quindi: «Socrate è mortale» (conclusione).


Si tratta di un ragionamento mediato e necessario, in cui i quantificatori “tutti”, “qualche” e “nessuno” giocano un ruolo centrale.


Lo schema di base del sillogismo stoico, invece, ha la seguente struttura:


«Se è notte, ci sono le tenebre» (lemma);

«Ma è notte» (assunzione);

«Dunque ci sono le tenebre» (conclusione).


Questo tipo di ragionamento è ben diverso da quello aristotelico: si tratta di un sillogismo ipotetico, immediato e non necessario.


Ciò significa che nello schema stoico almeno una delle premesse è data da una implicazione, non vi è un termine medio e non è detto che la conclusione sia sempre vera: essa lo è soltanto quando vi è una corrispondenza con la situazione fattuale a cui esso si riferisce.


Questi caratteri consentirono agli stoici di introdurre un’importante distinzione tra validità e verità di un ragionamento; infatti, il precedente sillogismo è sempre concludente, in quanto la connessione tra le premesse e la conclusione è corretta, ma non è detto che sia sempre vero.


Tra tutti gli schemi d’inferenza validi, gli stoici ne individuarono cinque in particolare che chiamarono sillogismi anapodittici: si tratta di ragionamenti concludenti che risultano evidenti di per sé e giocano un ruolo di fondamentale importanza nella teoria del ragionamento. 


Elenchiamo qui di seguito i cinque indimostrabili individuati dagli stoici, utilizzando la notazione originaria:


1) Se il primo, allora il secondo; ma il primo; quindi il secondo.


2) Se il primo, allora il secondo; ma non il secondo; quindi non il primo.


3) Non (il primo e il secondo); ma il primo; quindi non il secondo.


4) Il primo o il secondo; ma il primo; quindi non il secondo.


5) Il primo o il secondo; ma non il secondo; quindi il primo.


Nei precedenti modi di ragionamento, gli ordinali “primo” e “secondo” sono delle vere e proprie variabili che devono essere sostituite con degli enunciati che possono essere veri o falsi.


In notazione moderna possiamo riscrivere i ragionamenti anapodittici al seguente modo:


1) Se A, allora B; ma A; quindi B.

 

2) Se A, allora B; ma non B; quindi non A.


3) Non (A e B); ma A; quindi non B.


4) A o B; ma A; quindi non B.


5) A o B; ma non B; quindi A.


O ancora, adottando la seguente notazione:

 

“non” ≡ “ ¬”

“e” ≡  “∧”

 “o” ≡  “∨”

“se...allora” ≡  “→”


si può scrivere:


1)  A →  B; ma A; quindi B.

 

2) A →  B; ma ¬B; quindi ¬A.


3) ¬(A ∧ B); ma A; quindi ¬B.


4) A ∨ B; ma A; quindi ¬B.


5) A ∨ B; ma ¬B; quindi A.


Per quanto riguarda la correttezza e la verità di questi ragionamenti, vale quanto già detto in precedenza: essi sono concludenti, cioè corretti nella forma, ma il loro contenuto può essere vero o falso, in quanto la loro correttezza non comporta implicitamente e necessariamente anche la loro verità.


Si comprende quindi che nella logica degli stoici l’attenzione si sposta dai quantificatori (“tutti”, “qualche” e “nessuno”) ai connettivi (“non”, “e”, “o”, “se...allora”), grazie ai quali è possibile collegare in modo opportuno delle proposizioni semplici, ottenendo così dei ragionamenti complessi (ecco perché questo tipo di logica viene detta proposizionale).


Un altro grande merito che va riconosciuto agli stoici è quello di aver dato le definizioni vero-funzionali dei connettivi, specificando il comportamento di queste particelle rispetto alla verità o alla falsità delle proposizioni a cui esse vengono applicate.


Più precisamente, la negazione può essere vista come un operatore che trasforma il falso in vero ed il vero in falso; quindi, si può dire che la negazione è vera quando ciò che viene negato è falso e che la negazione è falsa quando ciò che viene negato è vero.


La congiunzione è vera soltanto quando i congiunti sono veri, cioè quando tutte le proposizioni interessate dall’operatore di congiunzione risultano simultaneamente vere.


Se però almeno uno dei congiunti risulta falso, allora anche la congiunzione diviene falsa.


La disgiunzione ha un comportamento simmetrico alla congiunzione, ovvero risulta vera se almeno uno dei disgiunti è vero, mentre risulta falsa se entrambi i disgiunti sono falsi.


La definizione vero-funzionale dell’implicazione è assai più delicata e meno intuitiva rispetto alle precedenti.


All’epoca degli stoici, infatti, vi erano quattro opinioni rispetto a quale dovesse essere la corretta definizione del condizionale “se A allora B” rispetto ai gradi di verità assunti delle proposizioni elementari A e B.


Senza tediare il lettore con dei tecnicismi, diremo soltanto che essi sposarono la posizione di Filone il Megarico, secondo cui un condizionale è sempre vero, tranne nel caso in cui risulta vero l’antecedente e falso il conseguente.


In altre parole, secondo gli stoici, il vero non può implicare il falso, dal vero può seguire il vero, mentre il falso può implicare sia il vero che il falso!


Per tentare di comprendere la legittimità di questa scelta, si rifletta sulle seguenti considerazioni: che attraverso un ragionamento corretto dal vero segua il vero è un qualcosa del tutto naturale e di conseguenza è assai intuitivo ritenere che l’implicazione corrispondente sia vera;


neanche il fatto che, attraverso un ragionamento errato, dal vero segua il falso, non dovrebbe stupire più di tanto e quindi chiunque, con un po’ di riflessione, alla fine converrà nel giudicare che anche l’implicazione associata a questa situazione debba esser falsa.


Ma che una implicazione possa essere definita come vera anche nei casi in cui partendo da premesse false si ottengono sia conclusioni vere che false, è un qualcosa di veramente controintuitivo.


Osserviamo però che questa scelta, che ai non addetti ai lavori apparirà senz’altro assurda, è precisamente la definizione dell’implicazione materiale adottata oggi in logica ed in matematica.


Quanto appena esposto in merito alle definizioni vero-funzionali dei connettivi può essere riassunto in una semplice tabella che aiuterà senz’altro il lettore nella comprensione dei precedenti concetti:


Per gli stoici una particolare categoria di ragionamenti, ovvero quelli che risultano sia concludenti che veri, hanno il potere di rendere manifeste quelle cose che, con la rappresentazione catalettica, non si riuscirebbero a cogliere nel qui e ora.


Ad esempio, il seguente sillogismo: «se questa mucca ha il latte, allora ha partorito. Ma questa mucca ha del latte nelle mammelle, dunque ha partorito», rende manifesto che quella particolare mucca ha effettivamente partorito; in tal senso, esso è un segno indicativo che consente di mettere in luce qualcosa di oscuro.


Questo genere di ragionamento era detto dimostrativo ed aveva una grande importanza per gli stoici che lo impiegavano per edificare alcune parti della loro dottrina.


Ad esempio, la prova dell’esistenza dell’anima umana e dell’anima del mondo, sostenuta dallo stoicismo, veniva fornita attraverso dei ragionamenti dimostrativi che muovevano i loro passi da dati acquisibili attraverso la rappresentazione catalettica, e che, grazie al ragionamento, venivano poi interpretati come dei segni indicativi di verità più profonde.


Otre a questo genere di segni, vi erano poi quelli rammemorativi, vale a dire quei segni che, quando si presentano, riportano alla mente il legame tra una cosa osservata in connessione con essi che però non è (ancora) percepita nel qui ed ora.


Si pensi, ad esempio, all’odore o alla vista del fumo quando ancora non si sono scorte delle fiamme, che però, in quanto segno rammemorativo, riporta alla mente la connessione causale che insiste tra il fuoco ed il fumo che era già stata osservata in passato dal soggetto percepente.


La Fisica


La fisica stoica è una sofisticata e peculiare visione del mondo di stampo razionale, delineata da tratti materialistici, monistici e panteistici, che si presta ad essere interpretata come una sorta di teologia.


Ricordiamo brevemente che il materialismo è quella posizione filosofica che conferisce realtà soltanto a ciò che è materiale; il monismo riduce la manifesta molteplicità dell’essere ad un’unica sostanza, o principio, fondamentale; mentre il panteismo tende ad identificare la divinità con il tutto, ritenendo che il divino sia immanente ed, in quanto tale, permei ed animi ogni cosa.


Sicché per gli stoici tutto ciò che esiste è corporeo e, in ultima analisi, non è altro che l’espressione individualizzata dovuta all’azione che la ragione universale opera sulla materia.


Quello del logos, dunque, è un concetto di fondamentale importanza nello stoicismo, sul quale gli stoici incentrarono sia la fisica che l’etica in misura addirittura superiore rispetto a quanto fecero con la logica.


Due sono i principi posti alla base del funzionamento dell’universo: il primo di essi è di tipo passivo, si tratta di una sostanza inerte, inanimata, informe e senza qualità, vale a dire la materia.


Il secondo è di tipo attivo, si tratta del soffio vitale, il fuoco artefice, l’anima del mondo, la ragione universale, l’ordine naturale, la legge razionale, vale a dire il logos, il quale agendo sulla materia le conferisce forma e qualità, vivificandola.


Questi due principi sono intimamente legati l’uno all’altro, tanto che gli stoici li consideravano inscindibili.


Dall’azione del logos sulla sostanza materiale scaturiscono tutte le determinazioni individuali delle cose  che popolano la realtà: è così che si producono enti fatti sia di materia che di forma (ilemorfismo), giacché senza l’azione informante ed energizzante esercitata dal logos, la materia resterebbe immobile ed oziosa nell’universo.


È bene precisare che la bipartizione tra principio passivo e attivo, ovvero tra materia e logos, non coincide affatto con la distinzione tra ciò che è corporeo e ciò che è incorporeo: per gli stoici, infatti, l’essere è sempre corporeo, sicché anche la sostanza materiale e la causa ordinatrice non sono altro che corpo.


Per giustificare il loro rigoroso materialismo, sintetizzabile con l’identità fondamentale tra essere e corpo, gli stoici si avvalsero della definizione platonica dell’essere, secondo cui esiste soltanto ciò che è in grado di agire, o subire, un’azione.


E siccome soltanto ciò che è corporeo è effettivamente in grado di compiere o ricevere l’effetto di un’azione, allora soltanto il corpo è reale.


Per estensione, sono ritenute corporee anche le anime, sia quella del mondo, ovvero il logos, che quelle degli individui, le quali per gli stoici non sono altro che individualizzazioni dell’anima del mondo. 


Anche la voce, il bene, la verità, i vizi e le virtù, vengono considerati come cose corporee.


L’anima, infatti, è il principio dell’azione e ciò che è capace di azione è corpo; la voce è in grado di operare sull’anima, ma ciò che opera è corpo; e così il bene e la verità, la virtù ed il vizio, i quali possono produrre effetti positivi o negativi e pertanto non possono che essere corporei.


Tuttavia, per sfuggire ad alcune aporie, gli stoici ammisero l’esistenza di quattro incorporei: il significato (o più in generale gli universali), il vuoto, il luogo ed il tempo.


Siccome a loro avviso l’essere è corpo, l’incorporeo veniva definito come un qualcosa privo di essere. E poiché ciò che non ha corpo manca anche dei connotati dell’essere, dell’incorporeo veniva detto che non è né in grado di agire né di subire un’azione.


Ciò giustifica l’introduzione degli incorporei sopra citati, ma introduce delle ulteriori difficoltà di cui gli stoici dovettero rendere conto.


Ad esempio, se l’incorporeo non fa parte dell’essere, allora è inquadrabile nella categoria del non-essere, ma ciò che non è, è il nulla, ovvero non esiste!


Fu così che gli stoici negarono che quello dell’essere fosse il genere supremo ed introdussero un concetto ancora più ampio: quello del “qualcosa”.


Neppure la divinità, identificabile con il logos, era inclusa tra le cose incorporee: il soffio caldo (pneuma), che permeando il mondo determina ogni cosa, è anch’esso corpo.


Il logos venne anche inteso come la ragione seminale del mondo (lògos spermatikòs) che contiene in sé i semi (logoi spermatikòi) responsabili della generazione di ogni cosa.


La divinità, dunque, è al tempo stesso il tutto, e le singole cose, in quanto, pur essendo una unità, è in grado di differenziarsi in tutte le cose del mondo animandole (dottrina delle ragioni seminali). 


Per gli stoici, inoltre, l’universo è come un grande organismo, in cui ogni singola parte, sostenuta dall’azione del logos, è viva di per sé, giacché il principio della vita è contenuto entro la materia stessa (ilozismo).


La divinità stoica, dunque, non è trascendente ma è immanente; essa, infatti, è inscindibile dalla materia ed opera nel suo intimo in modo intrinseco ad essa.


L’essere divino viene così identificato con l’essere del mondo. Il logos è in tutto, ed è tutto, è sia il cosmo, che le sue parti, e si manifesta in molteplici modi, come intelligenza, anima, natura... e così via.


Nel senso ora specificato, la fisica stoica può essere interpretata come una dottrina di tipo panteistico.


Ma com’è possibile che il logos, pur essendo corpo, pervada ogni cosa, operando in un universo fatto esclusivamente di materia?


La compenetrazione materiale del logos nella sostanza corporea dell’universo venne spiegata dagli stoici con la dottrina della commistione totale dei corpi.


Rifiutando le varie formulazioni della teoria atomistica elaborate dai loro predecessori, secondo le quali i costituenti ultimi della realtà fisica sono delle particelle solide ed indivisibili aventi una dimensione finita, gli Stoici sostennero che il processo di suddivisione dei corpi possa essere iterato all’infinito. 


In questo modo essi negarono l’esistenza degli atomi. E siccome nella fisica stoica non vi sono particelle ultime ad impedire che i corpi si compenetrino, non v’è contraddizione nel sostenere che due cose possano fondersi intimamente, così da costituire un tutt’uno.


Ciò giustifica la possibilità che tale processo avvenga anche tra il logos informante e la sostanza materiale da plasmare, nonostante sia il primo che la seconda siano entrambi intesi come costituenti corporei dell’universo.


In forza della sua azione prettamente razionale ed immanente, l’azione ordinatrice del logos dà luogo ad una natura retta da una meccanica cosmica che ha il carattere dell’assoluta perfezione e dell’ineluttabile necessità.


Per lo stoico, tutto ciò che esiste ed accade è perfetto, e non può far altro che essere ed accadere esattamente nel modo in cui è ed accade, giacché ogni cosa è il frutto del logos, che è al tempo stesso intelligenza e razionalità.


Tutto nell’universo è conforme alla ragione cosmica e pertanto è esattamente come deve essere e come è bene che sia.


Le singole cose che agli occhi dello stolto appaiono imperfette, diventano anch’esse perfette se le si analizza da un punto di vista superiore, ovvero alla luce del disegno razionale complessivo.


Siccome nulla avviene per caso, ma tutto accade secondo ragione, il meccanicismo stoico va inteso in senso finalistico: il logos, infatti, ordina la sostanza materiale in vista della realizzazione di una molteplicità di fini.


La legge necessaria che regge le cose del mondo è detta dagli stoici fato o destino (eimarméne).


Con questi termini essi volevano indicare l’indissolubile ed inevitabile intreccio causale determinato dalla ragione universale che lega tutti gli esseri e gli accadimenti, in forza del quale le cose avvenute sono avvenute, quelle che avvengono avvengono, e quelle che avverranno avverranno, esattamente e precisamente come è stato, è, e dovrà essere.


Nell’universo stoico ogni evento è determinato da un altro evento che ne è la causa, ed a sua volta esso stesso è la causa di un altro evento.


Questa rigida concatenazione causale non può essere spezzata, perché con essa cadrebbe anche l’ordine razionale del tutto, che si muove in assoluta conformità al logos.


Il destino, quindi, è sia l’ordine del mondo che la concatenazione necessaria tra il passato, il presente ed il futuro.


Il finalismo universale operato dal logos, che fa sì che ogni singola cosa sia fatta nel migliore dei modi possibili e sia condotta al suo fine perfetto, è detto dagli stoici provvidenza.


Sottolineiamo che la provvidenza stoica non ha nulla a che fare con il concetto di provvidenza elaborato dal cattolicesimo.


Il primo, infatti, si riferisce all’azione necessaria ed immanente del logos rispetto alla sostanza materiale dell’universo; il secondo, invece, è inteso come un ipotetico e volontario intervento operato da un dio personale che decide se, come e perché, soccorrere gli uomini.


Ispirandosi alla dottrina di Eraclito, gli stoici accostarono la ragione cosmica, che è causa di ogni cosa nell’universo, al fuoco; quest’ultimo è responsabile sia del divenire del mondo che della nascita degli altri elementi materiali (aria, acqua e terra) che costituiscono la realtà.


E siccome l’esperienza suggerisce che il fuoco ha sia il potere di forgiare che di distruggere, essi giunsero alla conclusione che tutte le cose del mondo, ed il mondo stesso, derivano dal fuoco e nel fuoco ritornano, ciclicamente, in un processo infinito che produce e riproduce se stesso sempre al medesimo modo.


All’inizio di ogni ciclo cosmico vi è soltanto il fuoco originario; dal suo progressivo raffreddamento prendono forma e consistenza rispettivamente l’aria, l’umidità (dalla quale deriva l’acqua) e la terra.


Questo processo di “condensazione” del fuoco conferisce ai nuovi elementi un peso ed una consistenza sempre più elevati. 


Il fuoco e l’aria sono elementi attivi, mentre l’acqua e la terra sono passivi.


Il mondo è una sfera piena fatta di terra; su di essa scorre l’acqua; al di sopra di essa vi è uno strato di umidità e d’aria; attorno al mondo vi è il vuoto.


Per fissare le idee, si pensi pure, in ordine, ai continenti ed alle montagne, ai fiumi, ai laghi ed ai mari, alle nuvole ed al vento, ed infine allo spazio attorno alla Terra. 


Concentricamente al globo terrestre vi è la sfera delle stelle fisse e ancora più in alto quella del fuoco.


Il cosmo così formato ha una durata temporale prestabilita, il grande anno, al termine del quale gli astri riassumono la stessa posizione che avevano al principio.


In quell’istante si verifica una poderosa conflagrazione (ekpùrosis) universale, vale a dire una completa combustione del cosmo, che distrugge e purifica tutti gli esseri e l’intero universo, facendo in modo che tutto ciò che esiste si ricongiunga e torni ad essere nient’altro che fuoco.


Ma ad ogni distruzione del mondo segue sempre una rinascita (palingenesi) dello stesso identico cosmo (apocatastasi). 


È così si avvierà un altro ciclo cosmico, del tutto identico al precedente, in cui si animeranno gli stessi esseri già esistiti e si riprodurranno i medesimi eventi con lo stesso ordine già manifestatosi in passato, senza alcuna modificazione.


Rinascerà quindi il pianeta Terra, con tutti gli animali e gli uomini che l’hanno popolato, e si verificherà nuovamente ogni accadimento che ha coinvolto quest’ultimi. 


Tutti i filosofi che hanno camminato sulla terra verranno nuovamente alla luce ed esporranno ancora le loro stesse identiche teorie; ogni guerra combattuta sarà nuovamente vinta o persa, così come nei precedenti cicli; ogni individuo proverà ancora gli stessi sentimenti, le stesse speranze... fin quando, al compimento dell’anno cosmico, avverrà una nuova conflagrazione: così è stato, così è, e così sarà, per l’eternità.


Del resto, visti i presupposti della fisica stoica, il cosmo non può far altro che prodursi e riprodursi allo stesso identico modo, sia nelle sue caratteristiche generali che nelle sue determinazioni particolari.


Infatti, unico ed identico è il logos, ovvero il fuoco, che è demiurgo e artefice di ogni cosa; identiche ed immutate sono le ragioni seminali che caratterizzano i singoli esseri; costanti ed eterne sono le leggi razionali che determinano la meccanica dell’universo; identiche sono le concatenazioni causali che interessano le ragioni seminali, determinandone il loro sviluppo, sia in generale che in particolare.


È questa, in estrema sintesi, la dottrina stoica dell’eterno ritorno.


L’Etica


Per comprendere l’etica degli stoici bisogna tenere bene in mente i presupposti fisici dai quali essa deriva.


Se ogni cosa nella trama dell’universo, anche la più insignificante, è tessuta dal logos e nessuno può sottrarsi al proprio destino, che cosa può fare il saggio?


È evidente che l’unica possibilità consista nel riconoscere l’ineluttabilità della ragione universale che opera nell’intimo delle cose per adeguarsi al corso degli eventi, accettando con serenità e distacco il proprio fato, qualunque esso sia, senza opporre alcuna resistenza.


Soltanto uno stolto potrebbe pensare che sia possibile sfuggire al destino e che quindi abbia senso lottare contro di esso.


Nei confronti delle dinamiche dell’universo, l’essere umano è come un cane saldamente legato ad una carrozza, che, nel tentativo di autodeterminare la propria esistenza, si trova davanti a due scelte: seguire fedelmente il tragitto compiuto dal carro o tentare di cambiare strada, deviando rispetto alla direzione di marcia stabilita.


In ogni caso, ovvero sia che il cane voglia, o non voglia, seguire il carro, esso sarà comunque costretto a farlo dalla forza della necessità e alla fine compirà il medesimo tragitto.


Ma mentre nella prima situazione lo spostamento risulterebbe naturale ed armonioso, nella seconda, sarebbe forzoso e doloroso, poiché il carro strattonerebbe il cane trascinandolo con violenza, contro la sua volontà.


Questo concetto è riassunto in una massima attribuita a Seneca: «Il fato guida chi lo accetta e trascina i riluttanti» ed è ribadito dalla seguente preghiera concepita da Cleante: «Conducetemi, o Giove e Destino, ovunque da voi son destinato e vi servirò senza esitazione; giacché anche se non volessi, vi dovrei seguire ugualmente, da stolto!».


Ecco spiegato perché il saggio stoico uniformerà il proprio volere al volere del logos, evitando così di essere trascinato dagli eventi.


Questo processo di riconoscimento e accettazione del proprio destino, è l’unica vera forma di libertà riconosciuta dagli stoici agli esseri umani.


Si comprende quindi che, nell’universo stoico, l’essere umano non è completamente determinato nel suo agire dall’ordine naturale; egli infatti può scegliere se adattarsi o essere riluttante nei confronti del proprio destino, senza che però vi sia alcuna possibilità di poterlo alterare in modo sostanziale.


Così come sostenuto sia da Platone che da Aristotele, anche per gli stoici il concetto di libertà consiste nell’essere causa di sé, cioè dei propri movimenti e dei propri atti. Per questo motivo essi coniarono il termine autopraghia (autodeterminazione) per indicare il loro concetto di libertà.


Ma il virtuoso per gli stoici non è colui che esercita la propria libertà d’azione in senso positivo, tentando cioè di cambiare (invano) il proprio destino, bensì colui che rinuncia ad essa per sottomettersi completamente al fato; si tratta quindi, allo stesso tempo, di una forma di libertà negativa e razionale.


Negativa, in quanto si riduce alla rinuncia della propria volontà in vista dell’accettazione della volontà del logos che si estrinseca nel destino; razionale, in quanto considerata come una ragionevole e sensata accettazione di un fato che, da un lato, è ineluttabile e, dall’altro, è pura razionalità, in quanto frutto della ragione perfetta ed universale operante nella natura.


In questo modo venne teorizzata, per la prima volta, una dottrina che identifica la libertà con la necessità, spostando l’attenzione dall’individuo verso il tutto, ovvero dall’essere umano al logos.


Ben si comprende il motivo per cui gli stoici dovettero concedere agli esseri umani la possibilità di autodeterminare le proprie azioni, pur nell’impossibilità di alterare in modo significativo il proprio destino, perché altrimenti il problema morale avrebbe perso di ogni significato.


In un mondo popolato da individui completamente determinati, senza alcuna possibilità di scegliere i propri atti, nessuna azione si sarebbe potuta considerare come libera e, in quanto tale, degna di essere definita una virtù, od un vizio, morale. 


Sotto queste condizioni, infatti, le azioni degli esseri umani sarebbero state del tutto equiparabili ad un moto meccanico non intenzionale, come quello di una pietra che cade per gravità, a cui non si sarebbe potuto riferire sensatamente né una colpa, né un merito.


Per chiarire i limiti d’azione legati all’umana volontà, alcuni stoici introdussero la distinzione tra le cause perfette e fondamentali, e quelle concomitanti o prossime.


Le prime agiscono con una necessità assoluta e quindi contro di esse nessuno può far nulla; le seconde possono essere addirittura influenzate o determinate dall’individuo, senza per questo alterare il destino, in quanto la loro azione rispetto al fato risulta secondaria o ininfluente.


In altre parole, le cause fondamentali determinano la storia, quelle concomitanti definiscono i dettagli delle cose che accadono nel corso degli eventi, la cui modificazione però non può in alcun modo alterare il fato.


In ogni caso, l’essere umano è ritenuto libero di dare, negare o sospendere l’assenso, e questa facoltà è sempre in suo potere, sia rispetto a ciò che dipende dalle cause fondamentali che da quelle concomitanti. 


La facoltà di autodeterminarsi, assentire e riconoscere l’esistenza di una ragione immanente che governa il mondo, è dovuta all’azione dell’anima umana.


Per gli stoici, infatti, l’essere umano è un microcosmo nel quale si rispecchia la ragione universale; in tal senso, ciascun individuo partecipa della ragione cosmica.


E così come l’anima del mondo, cioè il logos, permea il grande corpo dell’universo, determinando la vita e l’attività del cosmo, allo stesso modo l'anima individuale, che non è altro che una parte dell’anima del modo, causa la vita e l'attività del corpo umano.


Così come l’anima del mondo, classificata dagli stoici come corpo in base al principio che definisce corporee le cose che sono in grado di agire, anche l’anima umana è corporea, giacché essa è in grado di vivificare il corpo umano.


Un’altra argomentazione portata dagli stoici a supporto della corporeità dell’anima umana, è data partendo dalla definizione platonica della morte intesa come separazione dell’anima dal corpo.


Ma siccome un incorporeo non potrebbe in alcun modo né unirsi ad un corpo, né separarsene, se ne deduce che l’anima umana debba essere corporea, dato che essa è in grado sia di unirsi, che di separarsi, al, e dal, corpo umano.


La penetrabilità dell’anima corporea umana nell’organismo fisico, anch’esso corporeo, veniva giustificata in virtù del dogma della commistione totale dei corpi precedentemente illustrato e quindi non dava luogo ad alcuna aporia.


Anzi, era proprio la possibilità di compenetrare il corpo, in ogni sua più minuscola parte, che conferiva all’anima la capacità di presiedere alle funzioni essenziali dell’organismo umano.


Queste ultime, secondo gli stoici, sono in numero di otto e possono essere ricondotte alle quattro parti di cui è costituita l’anima: l’egemonico, il sensibile, il seme (o principio spermatico) ed il linguaggio.


L’egemonico, anche detto principio direttivo, è la parte dell’anima che dirige il corpo e viene solitamente identificata con la ragione individuale.


Secondo alcuni è situato nella testa, secondo altri è collocato nel cuore. Di certo, si protrae in tutte le restanti parti dell’anima e del corpo, propagandosi come i tentacoli di un polipo, al fine di generare e controllare le rappresentazioni, l’assenso, l’istinto ed i sensi. 


La sua azione veniva paragonata a quella del Sole nel cosmo.


Il sensibile, è la sezione dell’anima che presiede la percezione sensoriale. A sua volta esso è costituito da cinque sottoparti, ciascuna delle quali è rispettivamente responsabile di uno dei cinque sensi (tatto, vista, udito, gusto e olfatto).


Il seme, invece, è la porzione animica responsabile della riproduzione dell’organismo, mentre quella del linguaggio è la parte dell’anima che rende possibile la fonazione. 


Se e come l’anima individuale sopravviva, o meno, alla morte del corpo fisico dell’essere umano, fu un grande motivo di discussione per gli stoici. 


Di certo essa proviene dall’anima del mondo e sopravvive alla morte in seno ad essa, almeno per un certo periodo di tempo. 


Secondo alcuni, soltanto le anime dei saggi si conservano fino all’avvento della successiva conflagrazione cosmica.


Un’altra massima fondamentale dell’etica stoica è espressa nella formula: «vivi secondo natura». 


E siccome per gli stoici la natura coincide con l’ordine razionale, perfetto e necessario determinato dal logos, la precedente massima può essere riscritta al seguente modo: «vivi in modo conforme ai dettami della ragione universale».


Così facendo gli stoici ripresero la prescrizione cinica che suggeriva di condurre una vita in completo accordo con la natura, ma le attribuirono un significato completamente nuovo, nel senso che ora andremo ulteriormente a specificare.


Se si osservano gli esseri viventi, ci si rende conto che ciascuno di essi cerca di autoconservarsi e di sviluppare il proprio essere più autentico.


Questa naturale ed innata tendenza a conciliarsi con se medesimi, attuata ricercando le cose che sono conformi alla propria essenza ed evitando ciò che invece risulterebbe contrario al proprio essere, è detta dagli stoici oikéiosis.


Nei vegetali questa forma di conoscenza interiore, dalla quale scaturiscono sia la tendenza all’autoconservazione che il processo di estrinsecazione della propria essenza, è del tutto inconsapevole ed avviene in modo completamente automatico. 


Una cosa analoga accade negli animali, dove l’oikéiosis è dovuta alla pressione esercitata da un impulso primigenio pressoché irrefrenabile: l’istinto.


Nell’essere umano, invece, questa tendenza è mediata dall’intervento della ragione, il cui esercizio consente di scegliere deliberatamente ciò che si ritene sia conforme alla propria natura e di scartare ciò che invece non appare come tale.


A causa di questa discrezionalità, hanno origine due vie nell’ambito della scelta della condotta morale: quella dell’errore, ovvero del vizio, e quella della virtù.  


Ora, siccome per gli stoici l’essere umano, partecipando della ragione universale, non è un semplice essere vivente, come le piante o gli animali, ma è un essere razionale, vivere in conformità alla natura significa che egli deve conciliarsi con la propria razionalità, fino ad attuarla pienamente. 


Il virtuoso dunque è colui che, comprendendo la ragione universale, vive in modo perfettamente razionale. Ma poiché la natura è espressione della ragione immanente che governa il mondo, chi vive secondo ragione vive anche secondo natura.


Sicché chi si adegua alla natura, ovvero al corso fatale e necessario delle cose determinato dal logos, dimostra al tempo stesso di aver compreso la realtà delle cose e di comportarsi nel migliore dei modi possibili, ovvero di essere in possesso sia della saggezza che della virtù.


Pertanto, coloro che, come gli epicurei, sostenevano che il principio della condotta morale dovesse essere individuato nel piacere, erano in errore. 


Il piacere, infatti, al contrario della oikéiosis, non è un qualcosa di dato a priori, ma semmai può manifestarsi a posteriori, cioè soltanto dopo che la natura individuale del vivente abbia già cercato e tentato di attuare ciò che è indispensabile per conservare se stessi e realizzare la propria intima essenza.


Il bene morale, dunque, non è dato da ciò che arreca una qualche forma di piacere, ma da ciò che giova all’essere dell’individuo.


Allo stesso modo, il male morale non è dato dal dolore, ma da ciò che danneggia ed ostacola il proprio essere e la sua realizzazione nel mondo.


E siccome, in generale, ciò che giova al corpo non coincide con ciò che giova alla ragione, le due cose vanno tenute ben distinte. 


Nonostante proclamassero la perfezione dell’ordine naturale, in quanto manifestazione della ragione universale, gli stoici non negavano l’esistenza dei mali del mondo.


Essi ne giustificavano la presenza ritenendo che la loro manifestazione fosse indispensabile per l’esistenza del bene.


Mali e beni sono due opposti che si sostengono a vicenda e se non ci fosse l’uno non potrebbe esserci neppure l’altro, perché senza il male mancherebbe quel termine di paragone indispensabile per comprendere e giudicare come tale il bene.


Allo stesso modo, senza ingiustizia non ci sarebbe giustizia, perché la giustizia si ottiene proprio come liberazione dall’ingiustizia.


Senza la menzogna non potrebbe esserci la verità, senza l’intemperanza non potrebbe esserci la moderazione, senza l’imprudenza non potrebbe esserci la prudenza... e così via, per ogni coppia antitetica associabile al dualismo male-bene.


Il logos però ha provveduto ad armonizzare tutti i mali con i beni del mondo, in modo tale che da questa armonizzazione scaturisca la ragione eterna del tutto.


Finché un individuo non riesce a cogliere l’operato del logos, può lodare, biasimare e arrabbiarsi per le cose e gli accadimenti del mondo, catalogandoli tra “buoni” e “cattivi”, e può persino tentare di reagire ad essi, cercando di modificare il corso degli eventi.


Ma non appena egli raggiunge la saggezza, riconoscendo l’operato della ragione universale che presiede ad ogni cosa e ad ogni evento, comprende che non ha alcun senso lamentarsi, opporsi ed alterare il proprio stato d’animo a causa di ciò che accade e di ciò che è. 


Persuaso dalla razionalità della provvidenza, il saggio stoico cesserà quindi di dolersi per gli avvenimenti del mondo e, adeguando il suo punto di vista a quello del logos, comincerà a sentire come “positivo” anche ciò che gli stolti giudicano come “negativo”.


Evitando di amare e di aborrire i singoli aspetti della vita, egli giungerà ad uno stato mentale di totale indifferenza rispetto ad essi, e volgerà il proprio interesse soltanto alla realizzazione della virtù, intesa come totale consenso ed aderenza alla razionalità ed alla volontà del logos.


Ciò significa che il vero bene per lo stoico è unicamente la virtù.


Un altro aspetto di fondamentale importanza per comprendere la morale stoica è dato dalla nozione di katéchon: una categoria del pensiero di creazione stoica, successivamente definita dai romani con il termine officium, che può essere resa con il significato moderno di dovere.


Più precisamente, gli stoici definivano come doveri le azioni conformi all’ordine naturale la cui scelta può essere razionalmente giustificata.  


In altri termini, il dovere è un’azione conveniente condotta secondo natura.


In generale, le azioni che possono essere compiute dagli esseri umani si classificano entro tre categorie: 


1) quelle doverose, vale a dire tutte le azioni che la ragione suggerisce di fare; 

2) quelle contrarie al dovere, ovvero tutto ciò che è sconsigliato dalla ragione;

3) quelle né doverose né contrarie al dovere, cioè tutte quelle azioni che la ragione né consiglia né vieta di fare. 


A questo punto, però, gli stoici introdussero un’altra distinzione: quella tra il dovere ed il dovere retto, vale a dire tra le azioni convenienti (kathékon) e quelle moralmente perfette condotte in piena conformità alla ragione universale (katòrthoma).


Tutti gli esseri umani sono in grado di compiere azioni convenienti secondo natura, ovvero i doveri, ma soltanto i saggi realizzano i doveri retti, perché senza essere in possesso della scienza filosofica, propria dei sapienti che intendono la volontà del logos, è impossibile armonizzare completamente se stessi con l’ordine cosmico.


Sicché per gli stoici il dovere retto, eticamente perfetto ed assoluto, non può che trovarsi nei sapienti, mentre la restante parte dell’umanità è incapace di compiere simili azioni morali. 


Da qui ha origine una nettissima dicotomia: tra chi possiede la ragione perfetta e chi invece ne è privo, non vi è alcuna via di mezzo; o si è saggi, o si è stolti. 


In altre parole, o si comprende il logos, e quindi si opera sempre bene e in modo virtuoso, o non si comprende il logos, e quindi si opera sempre male e in modo vizioso.


Del resto, chi ha il naso sommerso da pochi centimetri d’acqua affoga tanto quanto chi si trova a centinaia di metri al disotto della superficie del mare: per respirare è indispensabile emergere dall’acqua.  


La virtù ha tanti nomi che variano a seconda del dominio a cui ci si riferisce. 


E così, ad esempio, si dirà che un individuo è giusto ed è dotato di saggezza, temperanza e forza, ma in realtà queste qualità sono tutte manifestazioni della virtù, la quale è una ed una soltanto e quindi o la si possiede tutta intera oppure non la si possiede affatto.


Per gli stoici quindi, il dovere non è un bene in sé ed, in generale, il compiere un dovere non è una virtù.


Il bene si ha quando l’individuo sceglie di agire in conformità alla ragione universale e questa attitudine viene ripetuta e consolidata fino al punto da diventare una disposizione d’animo uniforme e costante, trasformandosi così in virtù.


Il virtuoso non è quell’individuo che si limita a compiere i doveri, agendo in conformità alla ragione individuale, ma colui che compie soltanto doveri retti, rispondendo soltanto alla ragione universale.


In tal senso, si può sostenere che quella degli stoici sia un’etica fondata sul dovere. E si può aggiungere che questo fu il primo caso nella storia della filosofia in cui la nozione del dovere, intesa come conformità e convenienza dell’azione umana rispetto all’ordine razionale cosmico, assunse un ruolo centrale per l’elaborazione di una dottrina etica.


Convintisi che la virtù, intesa come vita pienamente condotta secondo ragione, fosse il solo bene in senso assoluto, perché soltanto grazie ad essa l’essere umano può esprimere la sua più intima natura razionale riuscendo ad adeguarsi perfettamente all’ordine del mondo, gli Stoici finirono per dare importanza soltanto a ciò che giova alla ragione, definendo ciò che è benefico per il corpo come indifferente.


In realtà, per gli stoici l’insieme degli indifferenti (adiaphora) era ben più ampio e riguardava tutte le cose che possono essere collocate al di là della morale.


Del resto, se sussiste l’identità tra bene e virtù, e la virtù è unica, è lecito definire propriamente “beni” soltanto le varie manifestazioni della virtù, come la saggezza, la giustizia, la temperanza... e così via, mentre i loro contrari possono essere chiamati “mali”.


Di conseguenza tutto ciò che non è né bene né male, nel senso ora specificato, ovvero tutte le cose che non costituiscono virtù, come ad esempio la gloria, la ricchezza, la bellezza, il piacere, la salute e persino la vita stessa, non possono che essere considerate come indifferenti.


Questa dicotomia che poneva l’insieme dei beni e dei mali (morali) da un lato, e gli indifferenti, dall’altro, è uno dei più noti tra i tratti caratteristici dell’etica stoica che, com’è facile intuire, suscitò grande stupore e accesi dibattiti.


Gli stoici, infatti, non esitavano ad includere tra gli indifferenti sia le cose fisicamente e biologicamente positive che quelle negative!


Per lo stoico più puro, dunque, l’essere libero o schiavo, ricco o povero, bello o brutto, sano o malato, vivo o morto, era del tutto indifferente, in quanto ciò non poteva influire in alcun modo nell’esercizio della virtù.


Per essi i beni ed i mali derivano soltanto dalle disposizioni interiori del proprio io, e quindi, con la giusta forza d’animo, non possono essere influenzati in alcun modo dalle condizioni esterne.


Fu così che essi arrivarono addirittura a sostenere che un saggio può essere felice perfino in mezzo ai tormenti fisici!


Con la dottrina degli indifferenti, gli stoici ponevano l’umanità al riparo dalle conseguenze prodotte dagli sconvolgimenti socio-economici dovuti al crollo della polis, infondendo la forza spirituale necessaria per affrontare i pericoli e le insicurezze della rinnovata organizzazione sociale che si andava formando nel periodo ellenistico.


L’indifferenza nei confronti della vita e della morte, pose le basi per la celebre giustificazione stoica del suicidio, un atto che, lungi dall’esser condannato, veniva considerato come doveroso, qualora le condizioni esterne non avessero più consentito un sereno esercizio della ragione.


Lo stoico ammetteva la possibilità di togliersi la vita come atto conclusivo assegnato dal destino, a condizione che si fosse trattato di una scelta deliberata e razionalmente giustificabile.


Secondo gli stoici, così come la ragione esorta gli individui a vivere secondo virtù, essa suggerisce anche di scegliere come uscire dalla vita. In tal senso, l'extrema ratio del suicidio era intesa come la più elevata espressione di coerenza e libertà.


Forti delle loro convinzioni, furono in molti tra gli stoici a suicidarsi; tra di essi alcuni lo fecero per conservare la virtù, altri per lanciare alla società dei forti segnali di protesta ed altri ancora perché si erano convinti che scegliere di morire “bene” fosse l’unica soluzione rimasta per evitare di vivere “male”.


Va detto che per ammorbidire la dottrina degli indifferenti, smussandone i tratti paradossali, gli stessi stoici finirono per introdurre e adottare il concetto di valore.


Andando ad indagare nel dominio degli indifferenti, infatti, non è difficile accorgersi che ci sono cose che sono degne d’esser preferite ad altre.


Così, ad esempio, pur continuando ad essere moralmente indifferente, ciò che conserva ed accresce il proprio essere a livello fisico e biologico, in generale, può essere ragionevolmente considerato preferibile rispetto a ciò che lo danneggia e lo indebolisce.


Pertanto, al netto delle varie manifestazioni della virtù, nell’insieme degli indifferenti ci sono altre cose che, pur non essendo dei beni nel senso indicato dagli stoici, possono essere considerate come “positive”, in particolar modo se paragonate con altre.


Di conseguenza, ciò che appare come degno di scelta, anche se posto al di là della sfera morale, e contribuisce in qualche modo alla realizzazione di una vita conforme alla ragione, venne detto dagli stoici valore (axia).


Ma se da un lato tra gli indifferenti c’erano cose che potevano essere considerate degne di valore, dall’altro ve ne erano altre che potevano essere giudicate come dei disvalori; altre ancora, invece, non venivano classificate né come valore né come disvalore.


In questo modo, anche nell’insieme degli indifferenti, si ripresentava una tripartizione che ricorda molto da vicino la suddivisione che abbiamo già incontrato nella catalogazione delle azioni in doverose, contrarie al dovere e né doverose né contrarie al dovere.


Nella categoria dei disvalori gli stoici includevano l’emozione (pathos): la passione, intesa come ostacolo al retto pensiero, era considerata un vizio dal quale il saggio doveva assolutamente cercare di liberarsi.


Emozioni e passioni furono definite come errori della ragione, giudizi affrettati dovuti all’ignoranza ed alla leggerezza e, in quanto tali, venivano considerate come una sorta di malattia che colpisce lo stolto, ma non il sapiente.


Le passioni, se lasciate libere a se stesse e assecondate, hanno il potere d’impedire l'adeguamento della condotta umana alla razionalità universale, per questo motivo devono essere completamente dominate se non addirittura annientate sul nascere. 


Dunque, la condizione propria del saggio stoico è l’apatia, vale a dire uno stato di completa assenza di passioni. 


Come si può accettare sempre e comunque il proprio destino, riuscendo a pensare in modo perfettamente razionale, senza lasciarsi influenzare e travolgere dalle circostanze?


Essendo impassibili: è questa la ricetta proposta dagli stoici sia per la virtù che per la felicità. 


A loro avviso, ogni passione non è altro che un inutile turbamento dell’animo, giacché tutto nell’universo è perfetto così com’è ed ogni evento accade esattamente come deve accadere, essendo sorretto dal logos. 


Pertanto, non v’è motivo né per esaltarsi né per abbattersi nei confronti delle cose del mondo: l’unica cosa da fare è adeguarsi alla razionalità dell’ordine naturale, lasciando che le cose fluiscano così come stabilito dalla ragione, senza opporre resistenza. 


Il saggio stoico giunge così al culmine del suo processo filosofico-spirituale, realizzando una sorta di unione mistica ed ascetica con il Tutto; egli riconosce di essere una parte del logos e si ricongiunge ad esso, ritornando ad essere un tutt’uno con la ragione cosmica universale.


Sociologia


La dottrina della simpatia universale stoica (sympátheia), vale a dire l’intima connessione tra l’individuo e l’anima del mondo, si riflette negli aspetti sociologici, facendo assumere allo stoicismo delle tinte cosmopolite e filantropiche.


Al contrario di quanto si potrebbe erroneamente pensare, l’apatia dello stoico non implica l’inattività; ciò può essere compreso ricordando che quella dello stoicismo è un’etica del dovere, in cui ciascun individuo è chiamato ad assecondare attivamente il proprio destino.


L’apatia dello stoico, dunque, si risolve in un atteggiamento di distacco da adottare mentre si opera nel mondo.


Fra i doveri più importanti a cui gli stoici erano chiamati a rispondere, vi era senz’altro quello dell’attività politica; non a caso molti stoici divennero degli statisti e si dedicarono alla cosa pubblica, in particolar modo nel periodo romano.


Per gli stoici, però, l’essere umano non è un animale politico, così come sostenuto da Aristotele, ma è piuttosto un animale comunitario.


L’oikeiosis, infatti, vale a dire il moto istintivo primordiale che spinge ogni essere vivente all’autoconservazione e allo sviluppo della propria essenza, si estende in modo naturale a figli, parenti e a tutti i propri simili, perché è la ragione stessa che suggerisce di doverlo fare in vista del conseguimento del bene comune.


L’essere umano è fatto per consociarsi con tutti gli altri individui, andando così a formare un’unica società: la comunità umana. Quest’ultima è diretta dal medesimo ordine razionale del mondo che dirige la vita dei singoli individui.


I diversi popoli della terra si sono dotati di leggi differenti: questo è un dato di fatto. Esiste però una legge eterna, perfetta ed immutabile, che è superiore a ciascuna di esse: si tratta della legge dettata dal logos.


Di conseguenza, per gli stoici soltanto la legge che è perfettamente conforme alla ragione universale è l’unica vera legge dell’umanità, vale a dire la legge naturale della comunità umana. Sotto di essa tutti gli esseri umani sono cittadini ad egual diritto. 


Per cogliere l’importanza storica di questa concezione del diritto, si consideri che con essa vennero gettate le basi teoriche per la formulazione del giusnaturalismo: un atteggiamento filosofico che sostiene l'esistenza di una norma di condotta intersoggettivamente ed universalmente valida, grazie alla quale è possibile organizzare la società nel migliore dei modi possibili.


Per gli stoici, chiunque operi nel rispetto della legge naturale è un cittadino del mondo, in quanto dirige le proprie azioni secondo l’ordine razionale che regge il cosmo intero. 


Perciò il sapiente non apparterrà ad una comunità particolare, ma alla città universale entro cui tutti gli individui sono concittadini e non risponderà alle leggi locali ma soltanto ai dettami della ragione universale.


Anche il concetto di giustizia venne definito dagli stoici come l’azione del logos entro una comunità; l’ingiustizia si manifesta quando le azioni degli esseri umani non avvengono secondo ragione.


Fu così che, in forza dell’idea dell’esistenza di una ragione universale, gli stoici sostennero l’uguaglianza degli esseri umani e destituirono il fondamento degli antichi miti della nobiltà di sangue e della superiorità della razza: tutti gli uomini partecipano al logos, pertanto ciascuno di essi può giungere alla virtù (da qui segue la loro uguaglianza).


Dura è la critica mossa nei confronti della schiavitù: nessun individuo nasce schiavo per natura, la schiavitù imposta dall’uomo sull’uomo è una malvagità, una barbarie.


I concetti di libertà e schiavitù vennero reinterpretati dagli stoici collegandoli alla saggezza e all’ignoranza: il vero schiavo è l’ignorante, mentre colui che può a ragione essere proclamato libero è il sapiente.


Per questo motivo essi arrivano addirittura a sostenere che il saggio stoico è libero sia quando siede sul trono che quando è ridotto in catene.


Anche la libertà, dunque, è un qualcosa che dipende integralmente dall’interiorità e pertanto non può essere in alcun modo scalfita dalle condizioni esterne.


Fonti

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