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sabato 14 dicembre 2019

La scuola cinica: Antistene di Atene e Diogene di Sinope, detto il Socrate pazzo!

Diogene cerca l'uomo, di Johann Tischbein

Carattere della corrente cinica

Tra le scuole socratiche minori, la più curiosa e influente fu, senza dubbio, quella dei cinici, di cui Antistene d’Atene fu il fondatore e Diogene di Sinope, suo allievo, divenne l’esponente più celebre e folcloristico.

La spiegazione dell’origine del termine “cinici”, da intendersi come “uomini che vivono alla maniera dei cani”, è contesa tra due posizioni, entrambe plausibili:

secondo la prima di esse, Antistene impartiva i suoi insegnamenti in un ginnasio situato appena fuori le mura di Atene, il Cinosarge: un nome composto, che deriva dalle parole greche κυνός (genitivo di κύων, cane) e ἀργός (splendente o, riferito ad un cane, veloce/agile); da qui la nascita della denominazione “cinici”.

Stando alla seconda versione, invece, l’appellativo di cinico fu dapprima attribuito a Diogene, come soprannome, a causa della sua vita randagia assimilabile a quella di un cane, e poi, per estensione, a tutti i seguaci del pensiero di Antistene.

In ogni caso, il termine cinici si affermò già nell’antichità, se non altro, per simboleggiare e riassumere efficacemente alcune delle peculiarità dei membri di quella corrente filosofica che proponeva un’ideale di vita conforme alla semplicità e all’autonomia, da condurre secondo natura, così come fanno gli animali, e che si esplicava concretamente in un’esistenza vagabonda, sfacciata e indifferente ai bisogni più comuni ed alle norme sociali, combinata con un elevatissimo rigore morale ed un netto rifiuto delle passioni.

Secondo alcuni, più che di una vera e propria scuola filosofica si dovrebbe parlare di uno stile di vita; il cinismo, infatti, non era animato da interessi teoretici, ma era votato alla concretezza ed alla praticità. 

A mio modesto avviso, quest’ultima puntualizzazione non è del tutto corretta: sebbene i cinici non abbiano mai fissato un vero e proprio canone che definisse esplicitamente una dottrina, è innegabile che il loro stile di vita fosse implicitamente generato da una concezione filosofica.

Le fonti antiche parlano della “svergognatezza” dei cinici, un atteggiamento che si manifestava attraverso un’assoluta mancanza di pudore, sia dal punto di vista dei costumi, che da quello verbale.

Ma la svergognatezza non era fine a se stessa: era un metodo. Attraverso di essa i cinici muovevano una pesante critica alla società e sottoponevano gli interlocutori ad una dura scuola di sincerità morale.

Di più, si può sostenere che con il loro stile di vita i cinici fossero alla ricerca della libertà individuale e di un’autentica felicità.

Se si volesse delineare una sorta di filosofia cinica, essa avrebbe i seguenti tratti fondamentali:

1) critica, disprezzo, rifiuto e disobbedienza nei confronti di ogni forma di società, con le sue regole, i suoi usi e le sue convenzioni, considerati come, volendo utilizzare un termine moderno mutuato dalla sociologia, delle sovrastrutture arbitrarie, superflue e dannose, che allontanano l’essere umano da quella che invece dovrebbe essere la sua vera e autentica condizione esistenziale: lo stato di natura.

2) la parresìa, ovvero la libertà di dire tutto ciò che si ritiene sia vero, con franchezza e senza filtri, adottata come stile di vita ed elevata a principio filosofico. Sono infatti celeberrime l’impudenza, la sfrontatezza e la mancanza di vergogna impiegate dai cinici per denigrare e disprezzare tutto ciò che la quasi totalità dei membri della società avrebbe considerato legittimo, normale e scontato.

3) ricerca della felicità (eudaimonìa), intesa come bene supremo, nonché fine naturale della vita umana, da non confondere con l’edonismo, secondo cui il fine dell'azione umana è il conseguimento di un piacere immediato declinato, ad esempio, come “godimento” (dalla scuola cirenaica di Aristippo) o come “assenza di dolore” (secondo la concezione epicurea).

Per i cinici, infatti, l’eudaimonìa scaturiva dalla virtù, ovvero, secondo la loro accezione di questo termine, dal vivere in accordo ed armonia con la natura.

4) esaltazione dell’autarchia spirituale, ovvero, più precisamente, dell’autarcheia (αὐτάρκεια, composto da αὐτός "stesso" e ἀρκέω "bastare"), da intendersi come autosufficienza e completo controllo di sé; una condizione che non può essere conseguita senza maturare una certa indifferenza rispetto alle cose esterne.

Da qui la rinuncia a desideri e beni effimeri, tipica dei cinici, e a tutto ciò che li avrebbe allontanati dallo stato di apatia (apátheia), ovvero dall’impassibilità scaturita dall’assenza di passione (páthos). Per essi quanto più un individuo sarebbe riuscito ad allontanare da sé bisogni e desideri, tanto più avrebbe conquistato libertà e serenità spirituale.

5) un approccio ascetico, da intendersi nel senso originario del termine, ovvero come un continuo esercizio spirituale, a cui dedicarsi con costanza e disciplina, ritenuto indispensabile per raggiungere il sommo bene.

Lo stato di eudaimonìa, infatti, non può essere conseguito senza maturare la lucidità mentale necessaria per liberarsi dall'ignoranza e dalla follia causati dai costrutti sociali, responsabili, a loro volta, dell’insorgenza di emozioni negative, desideri contro natura e vizi.

Tutto ciò permetteva ai cinici di individuare, contrastare e liberarsi dalle grandi illusioni di cui l’umanità era vittima, come, ad esempio, la ricerca della ricchezza materiale, del potere, della fama, del piacere, del possesso di beni superflui... e di tutte le cose che, a loro avviso, non avrebbero avuto nessun valore allo stato di natura.

Altri tratti che possono essere ritrovati nei pensatori cinici sono: l’assoluto rigore morale, in relazione ai propri ideali; l’esaltazione della costanza, della fatica e dello sforzo, legati all’acquisizione della virtù mediante l’ascesi; l’adozione, e a volte l’ostentazione, di costumi poveri e animaleschi; la negazione della religione tradizionale; il rifiuto degli istituti sociali, quali la famiglia e la patria, con tendenza al cosmopolitismo.

Storicamente, la corrente cinica godette di due fasi di grande notorietà: la prima nel IV secolo a.C., per merito di Antistene e Diogene di Sinope, la seconda intorno al I secolo d.C., in concomitanza alla corruzione del potere imperiale di Roma, riuscendo a mantenere nel tempo una propria fisionomia, fino al V secolo dopo Cristo, quando declinò definitivamente, sfociando in correnti mistiche.

Nonostante disprezzassero la cultura, i cinici diedero vita al genere letterario della diatriba, lasciando ai posteri una ricca tradizione di opere in cui affrontarono argomenti di ordine etico-morale con la loro celebre asprezza polemico-satirica.

Nel periodo ellenistico l’influenza dei cinici fu notevole; basti sapere che lo stoicismo, una delle maggiori scuole filosofiche dell’epoca, risentì della morale cinica.

La contaminazione del cristianesimo delle origini con la filosofia dei cinici, è cosa nota; gli scrittori cristiani ne elogiavano la scelta di vivere in povertà e molte delle loro pratiche ascetiche vennero adottate anche dai primi seguaci di Cristo. Così come accadde ai cristiani, anche i cinici furono martirizzati per essersi opposti alle autorità.

La forte interazione tra la pratica cinica e l’ascesi cristiana, le similitudini tra gli insegnamenti e lo stile di vita dei cinici e quelli di Cristo, hanno indotto alcuni studiosi ad avanzare l’ipotesi che il Gesù storico fosse un saggio cinico proveniente dalla tradizione ellenistico-giudaica (si vedano, ad esempio, gli studi di Burton Mack e John Dominic Crossan).

Nei secoli successivi, alcuni dei temi, degli atteggiamenti, delle forme comportamentali, tipicamente ciniche, riverberarono nei movimenti spirituali del Medioevo, anche se ormai il nucleo centrale della filosofia dei cinici era stato abbandonato.

Col passare del tempo anche l’accezione stessa del termine “cinico” mutò, fino ad assumere l’odierno significato, assai distante da quello originario.

Nell’epoca moderna, in particolar modo a causa della diffusione della concezione dell’umanità dovuta a personaggi del calibro di Niccolò Machiavelli e Thomas Hobbes, il termine “cinico” prese a significare un atteggiamento di sfiducia nelle motivazioni altrui, giustificato dal preconcetto (scientificamente infondato) che gli esseri umani siano egoisti per natura.

Il tutto, condito con un po’ di misantropia e nichilismo, mescolati alla giusta dose di sarcasmo e ironia, che a volte sfociano nell’umorismo nero o macabro.

Successivamente, l’aggettivo “cinico” cominciò ad essere associato ad individui con un carattere negativo e calcolatore, in grado di agire con freddezza e contro ogni morale, allontanandosi così ancor più dall'antico significato del termine.

Antistene di Atene (Atene, 444 a.C. – Atene, 365 a.C.)
Antistene di Atene

Tra i cosiddetti socratici minori, Antistene di Atene (Atene, 444 a.C. – Atene, 365 a.C.) fu la figura di maggior rilievo. Basti sapere che, nonostante fosse di umili origini e condusse un’intera esistenza in povertà, riuscì lo stesso a fondare una scuola, quella dei cinici, che influenzò sia il cristianesimo che lo stoicismo.

Venuto al mondo dall’unione tra un ateniese e una schiava tracia, dapprima frequentò Gorgia, uno tra i più illustri sofisti dell’epoca, e poi, in tarda età, venne attratto dall’irrefrenabile magnetismo di Socrate, divenendo un suo fedele discepolo.

Antistene era legato al suo maestro come nessun altro, tanto da percorrere 40 stadi al giorno a piedi, pur di poterlo ascoltare: era questa la distanza tra il Pireo (il paese dove Antistene abitava) e la piazza d’Atene. Egli ricevette direttamente da Socrate gli insegnamenti più profondi ed era presente il giorno della sua morte.

A chi lo criticava, chiamandolo semibarbaro, perché non era figlio di persone libere, rispondeva: «Se è per questo, non sono neppure figlio di due lottatori professionisti; eppure io sono un bravo lottatore». E agli Ateniesi, che si davano delle arie in quanto erano autoctoni dell’Attica, diceva, con tono sprezzante, che essi non erano più purosangue delle chiocciole e delle cavallette nate nel medesimo luogo.

Sul suo conto si dice anche che fosse povero per scelta e ostentasse con fierezza la propria condizione. Fu il primo a raddoppiare il mantello, così da poterlo utilizzare sia come indumento che come giaciglio per le notti più fredde. E quando un suo allievo gli chiese una tunica, gli rispose di fare altrettanto.

Un giorno, Socrate, osservando la parte lacera dell’atipico vestiario di Antistene, gli disse: «Vedo, attraverso la tua mantellina, che ci tieni ad essere considerato un filosofo!» volendo sottolineare, con ironia, la sua grande ambizione.

Ad onor del vero, però, fin quando Socrate era in vita, Antistene non mostrò alcun segno di eterodossia e si limitò a mettere in pratica, con dedizione, gli insegnamenti socratici, esortando gli altri a fare altrettanto, proprio come ci si sarebbe aspettati da un buon seguace.

Ma ad un certo punto, l’atteggiamento di Antistene mutò profondamente: Atene era stata sconfitta, il suo beneamato maestro era stato condannato e le speculazioni sul pensiero di Socrate cominciavano a proliferare, tanto quanto il suo disgusto per i cavilli filosofici ed ogni forma di governo.

Alla morte di Socrate, quasi tutti i suoi discepoli si affrettarono ad abbandonare la città, per paura di possibili persecuzioni; Antistene, invece, decise di restare ad Atene, sfidando con coraggio ogni sorta di pericolo.

Fu così che, nonostante la sua tarda età, egli mostrò per primo la via del cinismo, tenendo di persona delle lezioni pubbliche nel ginnasio di Cinosarge, un luogo situato appena fuori le mura di Atene in cui potevano avere accesso anche i meteci, ovvero gli stranieri che, nella Grecia antica, occupavano una posizione sociale intermedia tra i cittadini liberi e gli schiavi.

In una certa misura, l’insegnamento di Antistene risentì di quello dei suoi maestri: da Gorgia prese il relativismo etico, tipico dei sofisti, che avevano constatato la grande variabilità dei principi morali adottati dall’umanità al variare dei luoghi e delle epoche; da Socrate apprese le attitudini pratico-morali, come la forza d’animo, l’autodominio, la capacità di sopportare la fatica e di bastare a se stessi.

Ma Antistene non si limitò a sposare queste posizioni: egli le portò alle estreme conseguenze, decise di metterle in pratica e le propose agli altri come uno stile di vita.

Ed ecco che, da un lato, la polemica sofistica, in relazione alla convenzionalità delle leggi, venne trasformata da Antistene in una critica radicale alla società e, dall’altro, il pensiero socratico venne epurato da quegli aspetti teorici e metafisici che, a suo parere, erano soltanto dei vani giochi dialettici.

Egli sosteneva che la filosofia raffinata fosse priva di valore, in quanto ciò che si poteva, e doveva, sapere, avrebbe dovuto risultare comprensibile anche all’uomo comune. Per questo Antistene predicava all’aperto, adottando uno stile comprensibile a tutti.

Non c’era bisogno di speculazioni filosofiche, bisognava agire in modo immediato e concreto sulla realtà, per porre rimedio ai mali della società causati dalla corruzione e dall’artificiosità dei costumi e della morale.

I suoi insegnamenti non erano destinati ad una élite, ma all’intera umanità, inclusi i malvagi. E poiché gli veniva rinfacciato di farsela con quest’ultima tipologia di persone, disse: «Anche i medici stanno con gli ammalati, ma non per questo hanno la febbre».

Così come farebbe un buon anarchico, Antistene sosteneva che non sarebbero dovuti esistere né governo, né proprietà privata, né matrimoni, né religioni e che la virtù della donna è identica a quella dell’uomo.

Si consideri che la critica dei cinici alla “civiltà” si spinse fino al punto da condannare la schiavitù, e tutto ciò in un’epoca in cui gli esseri umani ridotti in catene erano comunemente considerati come oggetti animati.

La ricetta per la felicità, dunque, era tanto semplice da concepire, quanto ardua da mettere in pratica; essa si fondava su di un binomio: lotta alla società civile e ritorno allo stato di natura.

Secondo Antistene l’unico fine dell’essere umano è la felicità, ed essa consiste nel vivere secondo virtù, disponendo il proprio animo al bene.

La virtù è sufficiente a sé stessa, è l’unico vero bene; essa va praticata con uno strenuo impegno individuale ed il suo raggiungimento passa per un laborioso esercizio interiore, che allena lo spirito così come la ginnastica fa con il corpo.

Per la sua felicità, l’essere umano non ha bisogno della società civile; del resto, né il regime democratico, né quello aristocratico, ed ancor meno la tirannide, erano stati in grado di dare origine ad un buon governo.

Egli sosteneva che il sapiente non si regola secondo le leggi stabilite dalle comunità politiche, ma secondo la legge della virtù.

Sicché l’individuo deve liberarsi dai vincoli sociali e dai falsi bisogni che lo rendono schiavo; tutto ciò che eccede dal necessario è da considerarsi superfluo e dannoso. Il sapiente è autosufficiente: egli basta a se stesso.

Ciò che viene comunemente chiamato bene, in realtà, è un male, perché distoglie ed allontana dalla virtù. Pertanto, oltre che dal possesso delle cose materiali, ci si deve liberare anche dall’influsso del piacere e delle passioni: il vero sapiente è in grado di esercitare un completo dominio su di sé.

Al lusso, ai bisogni artificiosi, alla mollezza e allo snervamento dell'uomo civile, bisogna opporre la parsimonia, l'indipendenza, la sobrietà e la forza d’animo degli animali.

Per Antistene il modello da prendere come riferimento è la natura, non il mondo delle istituzioni umane che, con le sue convezioni arbitrarie, non fa altro che accrescere bisogni e dipendenze.

Quando gli fu chiesto quale insegnamento, tra tutti, fosse quello maggiormente necessario, egli rispose: «Togliersi di torno il rifiuto di imparare».

Ad un adolescente che assumeva pose statuarie, domandò: «Se il bronzo prendesse voce, di cosa credi che andrebbe fiero?». E poiché quello rispose: «Della sua bellezza», Antistene replicò: «Dunque non ti vergogni di gioire delle stesse cose di cui gioisce una cosa inanimata?».

Una volta un conoscente si lamentava con lui per aver perduto i propri appunti, e Antistene gli disse: «Bisognava trascriverli nell’animo e non sulle carte».

Egli riteneva anche che la mancanza di gloria e di fama fosse un bene, argomentando che sarebbe stato meglio imbattersi nei corvi che negli adulatori, giacché i primi mangiano i cadaveri mentre i secondi mangiano i vivi.

Ad una persona che gli diceva: «Molti ti lodano, o Antistene», rispose: «Cos’ho fatto, dunque, di male?».

Sosteneva anche che non si deve provare invidia nei confronti degli altri, perché come il ferro è divorato dalla ruggine, così gli invidiosi sono divorati dal loro stesso carattere.

Erano questi, in estrema sintesi, i suoi insegnamenti.

Pare che Antistene scrisse molte opere, anche se di esse ci è giunto ben poco. Il filosofo Timone lo rimproverò per l’abbondanza dei suoi scritti, definendolo come un «ciarlone che produce di tutto».

Diogene Laerzio testimonia che le compilazioni di Antistene colmavano dieci tomi. Tra di esse, vi erano un libro intitolato Sulla natura degli animali e varie opere che riguardavano miti e personaggi omerici.

È probabile che attraverso i suoi scritti egli cercasse dei modelli da imitare nella vita umana ed un appoggio culturale per argomentare contro la società ed in favore del suo stile di vita frugale.

Non a caso la figura che Antistene esaltò maggiormente fu quella di Eracle, eroe e semidio della cultura greca corrispondente alla figura di Ercole nella mitologia romana.

Egli, con la sua forza, la sua tenacia e le sue fatiche, rappresentava per i cinici il simbolo di quelle doti essenziali per ottenere l’indipendenza e la libertà, senza le quali sarebbe stato impossibile esercitare la virtù e quindi raggiungere la felicità. Eracle simboleggiava il saggio cinico che, con la propria forza d’animo, vince il piacere ed il dolore.

In un dialogo politico Antistene condannò tutti gli uomini politici d'Atene che godevano della maggior reputazione; in un altro criticò il sistema d'educazione dei Persiani, concludendo che le vittorie ateniesi, riportate contro un nemico allevato senza virtù civili e militari, fossero prive di valore. E dopo aver sminuito le gesta reputate gloriose dai patrioti d’Atene, criticò duramente ogni forma di governo.

Si narra che un giorno Antistene consigliò agli Ateniesi di decretare attraverso il voto che anche gli asini sono dei cavalli; poiché gli interlocutori ritenevano questa proposta irragionevole, egli replicò: «Eppure presso di voi dei comandanti supremi spuntano fuori senza possedere alcuna competenza militare, giacché basta la vostra alzata di mano».

Lo scherno ed il sarcasmo di Antistene non risparmiarono neppure le superstizioni ed i culti religiosi dell’epoca: si narra che una volta, mentre veniva iniziato ai misteri orfici, un sacerdote sostenne che i seguaci di quel culto avrebbero goduto di molti beni nell’Ade. Al che Antistene disse: «Perché, dunque, tu non schiatti?».

E ancora, agli adepti del politeismo greco faceva notare che secondo la legge degli uomini gli dei sono molti, ma secondo la natura c’è un solo dio, che non assomiglia ad alcuna cosa visibile e non può essere rappresentato con le immagini; un’affermazione da cui traspare una visione panteistica, in cui la divinità permea ogni cosa e viene ad identificarsi con la natura, l’universo o, se preferite, il tutto.

Unico tra i cinici, Antistene si interessò anche di logica, ma il suo contributo non fu poi così grande e, come già anticipato, era sostanzialmente finalizzato a contrastare l’approccio teoretico dei seguaci di Socrate, riconducendo il pensiero del suo maestro ad una sorta di empirismo concreto.

Inizialmente Antistene fece proprio il metodo socratico delle definizioni dei concetti, tanto che gli va riconosciuto il primato di aver chiarito la nozione di definizione, caratterizzandola come l’espressione dell’essenza di una cosa.

A tal proposito egli diceva: «La definizione è ciò che esprime ciò che è, o era», e sarebbe assurdo discorrere di una cosa senza dichiarare ciò che essa era o ciò che essa è.

Ma ben presto il fedele discepolo finì per discostarsi dalle posizioni del maestro, concordando con i megarici che l’unica predicazione ammissibile sia quella identica, come quando, ad esempio, si dice che “l’uomo è uomo”. Di conseguenza, ogni giudizio che non sia la pura e semplice affermazione di una identità è da considerarsi impossibile.

In altri termini, per Antistene, non si può far altro che dire di una cosa ciò che è, ripetendo il suo nome, perché se si aggiungesse un altro nome a quello che già la determina, quella cosa finirebbe per essere altro rispetto a ciò che è.

Ne consegue che è possibile definire soltanto le cose composte, ma non gli elementi semplici; questi ultimi, infatti, vengono conosciuti mediante la percezione diretta e possono essere soltanto nominati, ovvero si può associare ad essi un nome, ma non si può caratterizzarli in altro modo.

Le cose composte, invece, essendo formate da vari elementi semplici, possono essere definite combinando fra loro i nomi dei loro componenti.

Al netto di ciò, pretendere di chiarire concetti con altri concetti, per Antistene, è un vano esercizio di parola, che non tocca l’essenza delle cose; si potranno effettuare delle comparazioni tra le cose, questo è senz’altro vero, ma non si riuscirà a dire di una cosa quale essa sia in se stessa.

Ma se una cosa non può essere altro rispetto a ciò che è indicato dal suo nome, allora la realtà è assolutamente individuale e materiale; le idee generali, i cosiddetti universali, sono soltanto astrazioni mentali, pure nozioni, prive d’una vera esistenza. Ne consegue uno schietto nominalismo.

Dura è la critica mossa da Antistene alla dottrina platonica delle idee: «Vedo il cavallo, ma non vedo la cavallinità», «vedo l'uomo, ma non l'umanità».

E altrettanto dura fu la replica di Platone: «Perché non hai l’occhio per vederle». E ancora, con un certo disprezzo, Platone annovera Antistene tra «i vecchi che hanno incominciato tardi ad imparare», testimoniando come egli ritenesse impossibile affermare, ad esempio, che “l’uomo è buono”, in quanto ciò equivarrebbe a sostenere, allo stesso tempo, che l’uomo è uno (uomo) e molti (uomo e buono), ottenendo una contraddizione.

Che tra i due filosofi non scorresse buon sangue, fin dai tempi in cui erano condiscepoli di Socrate, lo si comprende da alcuni aneddoti.

Non di rado Antistene scherniva Platone perché si dava un sacco di arie. Un giorno, durante una processione, Platone non smetteva di lodare un cavallo che impennava e nitriva vistosamente. E Antistene gli disse: «Mi sembra che tu pure potresti essere un cavallo che incede bizzoso e fa lo splendido».

Un’altra volta, invece, quando Platone era ammalato, Antistene ebbe il garbo di fargli visita; ma vedendo un bacile nel quale Platone aveva vomitato, gli disse: «Qua dentro vedo la tua bile, però la tua vanità non la vedo».

In un’altra occasione, dopo aver sentito dire che Platone sparlava di lui, Antistene affermò: «È da re agire bene e sentir parlare male di sé».

A prescindere da quale fosse la vera causa di questa rivalità, resta il fatto che per il primo dei cinici la possibilità di assegnare molti nomi a un’unica cosa era da escludersi: attribuire ad un soggetto un predicato diverso da se stesso, ovvero associare ad una cosa più nomi, avrebbe equivalso a considerare ciò che è uno come uguale a molti, il che, a suo avviso, sarebbe stato assurdo.

Ma così facendo il nominalismo di Antistene negava anche la scienza. Infatti, se per ciascuna cosa si può dire soltanto che essa è se stessa, allora non si può neanche riuscire a costruire un discorso sulle cose. E oltre ad impedire la costruzione delle proposizioni, la dottrina di Antistene non consentiva neanche di ottenere una contraddizione e di affermare il falso!

Fu così che Antistene si guadagnò anche il disprezzo di Aristotele, che prima lo incluse tra coloro «che non credono ci sia altro se non ciò che si può stringere a piene mani», ovvero tra i materialisti più radicali, e dopo provvedette a precisare le criticità che abbiamo appena accennato, confermando così la testimonianza di Platone con le seguenti parole: «Antistene professava la stolta opinione che di nessuna cosa possa dirsi altro che il suo nome proprio e che perciò non può dirsi che un nome solo di ogni singola cosa». Ma se ciò fosse vero, nota Aristotele, sarebbe impossibile sia contraddire che dire il falso.

In tal caso, infatti, o si parlerebbe di una cosa, non potendo far altro che servirsi del suo stesso nome proprio, e quindi non si affermerebbe il falso e non vi sarebbe contraddizione, o si parlerebbe di due cose distinte, riferendosi a ciascuna di esse con i rispettivi nomi propri, senza poter far altro, e neanche in tal caso si starebbe affermando il falso e alcuna contraddizione sarebbe possibile.

Per Antistene, quindi, non si doveva abbandonare soltanto il metodo socratico delle definizioni, ma anche ogni sorta d’impresa scientifica che non fosse concreta.

La via maestra da seguire era quella etica. E tutto ciò che non aveva effetti pratici era da considerarsi come una perdita di tempo, una sofisticheria, se non una delle tante illusioni di cui l’umanità era vittima.

Per superare questo genere di posizioni, Platone dovette dar fondo alla sua grande intelligenza, dispiegando un poderoso armamentario teoretico. Questo fatto ci aiuta a comprendere la portata della critica mossa dal primo dei cinici.

Ben donde si è detto in relazione al pensiero di Antistene che egli finì per radicalizzare la visione socratica. Ciò non avvenne soltanto per le posizioni riguardanti la scienza, assai distanti da quelle del suo maestro, che individuava la via della virtù nella ricerca finalizzata alla scienza, ovvero all’ottenimento della conoscenza.

Anche Socrate viveva in modo frugale, ma non ostentava di certo la povertà. L’autosufficienza socratica, cioè il non dipendere, per quanto possibile, dalle cose e dagli altri, fu esaltata da Antistene a tal punto che l’autarchia divenne un obiettivo essenziale. La stessa cosa accadde con l’autodominio.

Per Socrate, sebbene ci si fosse dovuti esercitare per sviluppare la capacità di dominare se stessi, così da non subire la passione ed il dolore, il piacere in sé non era da considerarsi né come un bene, né come un male; ma con Antistene il piacere divenne un qualcosa da rifuggire come il peggiore dei mali: «Preferirei impazzire piuttosto che provare piacere», disse. E ancora: «Se potessi avere tra le mani Afrodite, la saetterei».

Anche l’esaltazione dello sforzo e della fatica, implicati dall’etica dei cinici e riassunti nella figura di Eracle, segna un punto di rottura con il sentire comune dell’epoca, in quanto attribuiva dignità a ciò da cui i più rifuggivano.

Il duro lavoro, effettuato con impegno e costanza, venne elevato a valore dai cinici, in quanto richiesto dall’esercizio della virtù. Come si può intuire, esso era indispensabile per: tenere alla larga il piacere e dominare le pulsioni; distaccarsi dalle comodità e ripudiare la ricchezza; opporsi alle leggi e alla falsa morale... e così via.

Infine possiamo sottolineare come Antistene estremizzò le polemiche dei sofisti, muovendo una critica radicale alla società civile, che si spinse fino al punto di rovesciare l’insegnamento socratico, trasformandolo in senso antipolitico ed individualistico.

Nell’ultimo periodo della sua vita, Antistene si ammalò e divenne infermo. Anche a causa della vecchiaia, mal sopportava le sofferenze dovute alla sua malattia, molto più di quanto ci si sarebbe aspettati dal fondatore del cinismo.

Un giorno Diogene, suo fedele seguace, andò a trovarlo, portando con sé una piccola spada. E mentre Antistene si lamentava dicendo: «Chi potrebbe sciogliermi da questi dolori?» gliela mostrò, esclamando: «Questa!». Al che Antistene replicò prontamente: «Dai dolori, dicevo, non dalla vita!».

Per ironia della sorte, colui che aveva professato l’assoluta autarchia, morì qualche tempo più tardi, nel giorno in cui Diogene si era nuovamente recato dal suo maestro per domandargli: «Hai forse bisogno di un amico?».

Lo storico Diogene Laerzio ha tramandato i seguenti versi dedicati all’iniziatore del cinismo:

«In vita eri un cane, o Antistene, nato per mordere il cuore con le parole, non con i denti. Tu però moristi di consunzione, e dirà forse qualcuno: “Cos’è questo mai? In ogni caso bisogna avere una qualche guida per scendere all’Ade».

Diogene e Alessandro, di Gaetano Gandolfi 1792
Diogene di Sinope

Diogene di Sinope, anche noto come il Cinico, o il Socrate pazzo (Sinope, 412 a.C. circa – Corinto, 10 giugno 323 a.C.), fu uno dei maggiori esponenti della corrente filosofica fondata da Antistene: il cinismo.

Egli incarnò a tal punto i valori di quel movimento, da diventarne una sorta di simbolo. Sulla sua figura si raccontavano aneddoti già quando egli era ancora in vita. Ed il passare dei secoli lo consacrò definitivamente alla leggenda.

Il suo omonimo, Diogene Laerzio, nel celebre Vite dei filosofi, riporta un gran numero di storielle riguardanti il Socrate pazzo, di cui è praticamente impossibile appurare la fondatezza storica.

Esse però, oltre a risultare divertenti, sono di grande aiuto per tentare di ricostruire la vita, il carattere, il pensiero e gli insegnamenti, di colui che fu il più cinico tra i cinici.

Sarà dunque questo il nostro metodo di lavoro per descrivere la figura di Diogene; del resto, ogni leggenda porta con sé qualche elemento di verità.

In pochi sanno che, prima di diventare un cinico, rinunciando consapevolmente a tutto pur di vivere secondo natura, il giovane Diogene conduceva una vita agiata nella città di Sinope. Egli, infatti, era il figlio di un banchiere di nome Icesia ed è noto che godesse dei servigi di uno, o forse più, schiavi.

La sua esistenza subì una brusca sterzata quando Diogene, suo padre, o forse entrambi, furono beccati a contraffare le monete. Le versioni a tal proposito sono molteplici e discordanti; resta il fatto che Icesia finì in galera mentre Diogene si recò esule ad Atene, portando con sé un servo di nome Mane.

Quest’ultimo, approfittando della situazione, si diede alla fuga per riappropriarsi della propria libertà. Diogene lo lasciò andare e a coloro che gli consigliarono di riacciuffarlo rispose così: «Se Mane può vivere senza Diogene, perché Diogene non può vivere senza Mane?».

Quando gli chiedevano di dove fosse, diceva di essere «un cittadino del mondo» e ad un tale che sosteneva che, in realtà, erano stati i cittadini di Sinope ad averlo condannato all’esilio, Diogene rispose rovesciando la situazione: «Sono io che ho condannato loro a rimanere a Sinope!».

Un altro uomo, invece, considerava il suo esilio come un’infamia riconducibile alle azioni disoneste che Diogene aveva commesso nella sua terra natia, ma egli gli rispose: «Oh infelice, ma è grazie all’esilio che ho potuto pervenire alla vita da filosofo!».

Diceva questo a ragione, giacché una volta giunto ad Atene, Diogene conobbe prima la miseria e poi Antistene, ed entrambi divennero suoi maestri spirituali; non avendo di che vivere, dovette arrangiarsi mendicando per le vie della città. 

L’argomento utilizzato per persuadere i donatori suonava così: «Se hai già dato ad un altro, dà anche a me. Se no, comincia da me». Ma il risultato non doveva essere soddisfacente.

Un giorno, infatti, lo videro mentre chiedeva l’elemosina ad una statua e interrogato sul perché lo facesse rispose: «Mi esercito a fallire il mio scopo!».

L’ispirazione per superare quelle che, fino ad allora, gli erano sembrate delle circostanze negative, gli venne di colpo, osservando un topo che correva qua e là, liberamente, senza ricercare un giaciglio per dormire, privo del timore del buio e della brama rispetto a ciò che ai più sembrava desiderabile.

E così decise di fare altrettanto, cambiando radicalmente il suo punto di vista, fino a convincersi che quello fosse il modo corretto di vivere.

Si dice che Diogene fu uno dei primi, se non il primo, a raddoppiare il mantello, così da poterlo impiegare sia come veste che come coperta; con sé aveva anche una bisaccia, in cui riponeva le cibarie, ed un bastone. È probabile che portasse barba e capelli lunghi ed incolti. Negli anni a venire questo stile sarebbe diventato una sorta di divisa per i cinici.

Curioso è l’aneddoto riguardante la sua “abitazione”. Nel primo periodo in cui si era trasferito ad Atene, Diogene bivaccava nelle stoà, ovvero nei portici adibiti ad uso pubblico presenti nella città, ed indicando l’edificio di Zeus, o quello del Pompeion, sosteneva di non aver bisogno di una casa, perché gli Ateniesi gli avevano già fornito i luoghi in cui dimorare.

Successivamente, però, forse a causa del rigore invernale, incaricò un tale di procurargli una casetta; ma questi, vista la condizione di ristrettezza economica del suo committente, indugiava. E siccome la faccenda andava per le lunghe, Diogene decise di stabilirsi in una botte, che divenne la sua (mitica) dimora!
Diogenes, di Jean Leon Gerome
Non furono soltanto gli animali ad indicargli la via da seguire, ma anche i bambini, che egli riteneva puri e autentici, in quanto il loro animo non era ancora stato corrotto dalla società.

Si noti la distanza tra questa concezione e quella di Aristotele, che considerava i bambini come uomini in potenza, ovvero come un qualcosa che avrebbe dovuto crescere e maturare prima di acquisire valore.

Celebre è la storia che narra di quando Diogene prese dalla sua bisaccia la ciotola che utilizzava per bere e la scagliò via, perché aveva osservato un bambino che beveva dal cavo della mano: «Un ragazzo mi ha vinto in parsimonia!» esclamò.

In un’altra occasione, osservò un secondo ragazzo che, avendo rotto la propria scodella di terracotta, mise una porzione di lenticchie entro la conca ricavata da un tozzo di pane. E così Diogene gettò via anche la catinella che adoperava per mangiare.
Diogene getta la scodella, di Nicolas Poussin 1648
Girovagando per la città, venne in contatto con Antistene e decise di seguirlo con ardore per diventare suo allievo. Quest’ultimo, però, lo respingeva con veemenza, perché non desiderava alcun alunno intorno a sé.

Un giorno Antistene levò il bastone contro Diogene, minacciandolo, ma quest’ultimo gli porse la testa dicendo: «Batti pure, non troverai mai un legno così duro con il quale tenermi in disparte, fino a che non ti apparirà il caso di dirmi qualcosa, come a me pare che tu debba!».

Perseverando a frequentare Antistene, alla fine Diogene la spuntò e ne divenne un assiduo uditore.

La frequentazione con il suo nuovo maestro completò la metamorfosi di Diogene da figlio di un banchiere a re dei cinici.

Egli, infatti, non si limitò ad ascoltare gli insegnamenti di Antistene, ma li portò alle estreme conseguenze, incarnandoli e dandone diretta testimonianza per mezzo della propria esistenza, applicandoli con un rigore ed una coerenza impareggiabili.

Fu così che superò di misura il suo maestro, prima nel livello di austerità e poi in quanto a reputazione.

Il modo di vita che da lì in avanti adottò scientemente era votato alla libertà, sia nell’azione che nella parola, e non di rado sfociava nell’irriverenza.

Diogene rivendicava la libertà di esprimersi in modo franco, diretto e senza timori, perfino innanzi ai potenti.

Per impartire i suoi insegnamenti, egli non si avvaleva di argomentazioni lunghe o sofisticate, bensì ricorreva ad un connubio di gesti fisici e massime rapide ed incisive dette “apoftegmi”.

Usava qualunque luogo per qualsiasi scopo, come mangiare, discutere e dormire, e non provava alcuna vergogna nel fare le cose davanti agli altri, perfino quando esse riguardavano la sfera sessuale.

Un giorno lo rimproverarono perché stava mangiando nella piazza del mercato e Diogene disse: «Anche nella piazza del mercato ebbi fame».

Altre volte giustificava le sue abitudini utilizzando dei sillogismi come il seguente: «Se non è fuori luogo fare colazione, non è fuori luogo farla nella piazza del mercato; ma fare colazione non è fuori luogo, dunque non è fuori luogo neppure farla nella piazza del mercato».

A chi lo sorprendeva mentre si masturbava pubblicamente, diceva: «Magari fosse possibile far cessare la fame semplicemente sfregandosi il ventre!».

Tra le abitudini più insolite adottate da Diogene vi era quella di allenare il suo fisico al fine di resistere alle intemperie; e così d’estate non perdeva occasione per rotolarsi nella sabbia rovente, mentre d’inverno abbracciava le statue imbiancate dalla neve.

Si narra che, durante un pranzo, qualcuno gli gettò delle ossa, così come si fa con i cani. Al che Diogene, appena prima di andarsene, orinò loro sopra, proprio come avrebbe fatto un cane!

Non a caso gli ateniesi cominciarono a soprannominarlo il Cinico (dal greco κυνικός kunikòs, derivato da κυνός kunòs, genitivo di κύων kùon, «cane»), volendo sottolineare come la sua condotta di vita fosse assimilabile a quella d’un cane.

In un’altra occasione, mentre stava facendo colazione nella piazza del mercato, coloro che gli stavano intorno ripetevano beffardamente: «Cane! Cane! Cane!...». Al che Diogene disse: «Cani siete voi, che mi state intorno mentre faccio colazione». A degli adolescenti che gli passarono accanto bisbigliando: «Vediamo di non farci mordere...» rispose: «Ragazzi, un cane non mangia bietole».

Secondo alcuni, fu lo stesso Diogene a darsi quell’appellativo, facendo vanto dell’epiteto che gli veniva rivolto con disprezzo; a proposito di se stesso sosteneva d’esser uno di quei cani che la gente loda, ma con cui nessuno ha il coraggio di uscire a caccia.

L’esser diventato un filosofo non migliorò la sua condizione economica, ma ormai Diogene si era convinto di non aver bisogno di nulla per esser felice. E così prese a dar lezioni esistenziali a coloro che incontrava, rilasciando ancor più i suoi freni inibitori.

Un giorno, mentre Diogene stava parlando di cose serie, notò che nessuno gli si accostava. Al che, per attirare l’attenzione degli astanti, cominciò a cinguettare. E siccome in molti gli si avvicinarono, inveì contro di loro, rimproverandoli di avere la premura di ascoltare delle quisquilie e di prendersela comoda quando si tratta di cose importanti.

Quando gli fu chiesto il perché gli uomini diano l’elemosina più volentieri a chi vive mendicando che non a chi fa vita filosofica, rispose: «Perché stimano, in cuor loro, di poter diventare zoppi e ciechi, ma giammai di fare vita filosofica».

A chi ribatteva dicendo di non essere idoneo alla vita filosofica, diceva: «Perché dunque vivi, se non t’importa di vivere bene?». E a coloro che affermavano che il vivere fosse un male di per sé, rispondeva: «Male non è il vivere, ma il vivere male».

Diogene non aveva alcun timore di trattare gli altri con grande alterigia e di certo non gli mancava il senso dell’umorismo.

Chiamava: “fiele” la scuola di Euclide, paragonandola così al liquido dal sapore amarissimo prodotto dal fegato; “perdita di tempo” le conversazioni di Platone; “grandi meraviglie per gli stupidi” le competizioni teatrali che venivano messe in scena durante le celebrazioni pagane dedicate a Dioniso; “ministri della folla” i demagoghi.

E non mancava di schernire coloro che cercavano di ottenere la fama tramite l’eloquenza, così come facevano i retori, definendoli “tre volte uomini”, intendendo dire “tre volte meschini”.

Quest’ultima boutade può essere compresa soltanto tenendo presente che l’opinione di Diogene in relazione all’uomo comune, quello forgiato dalla società, era tutt’altro che positiva; a suo avviso il vero uomo è soltanto quello che, liberatosi da tutti i condizionamenti sociali, conduce un’esistenza piena ed autentica, conforme alla sua vera essenza.

Una volta uscì, in pieno giorno, con una lanterna accesa e si recò in mezzo alla folla. E quando gli domandarono che cosa stesse facendo, disse: «Cerco l'uomo!». Ma del genere di uomo ricercato da Diogene non v’era traccia (da qui ha origine il celebre modo di dire “cercare con il lanternino”).


Diogene cerca l'uomo, di Johann Tischbein (1790 circa).
In un’altra occasione si mise a gridare a gran voce: «Ehi, uomini!», facendo cenno di avvicinarsi. Ma quando la gente gli si riunì intorno, iniziò a colpirla con il suo bastone, dicendo: «Ho detto uomini, non feccia!».

I suoi incontri con i ricchi, i potenti ed i filosofi dell’epoca hanno dato origine ad una lunga serie di aneddoti.

Un giorno un uomo lo introdusse in una casa sontuosa vietandogli esplicitamente di sputare per terra. Al che, dopo essersi schiarito a fondo la gola, Diogene gli sputò diritto in faccia, argomentando di non esser riuscito a trovare un luogo più sudicio dove poterlo fare.

Non prendeva di mira soltanto i ricchi, ma anche i politici. Un mattino Diogene incontrò Demostene, un noto politico e oratore ateniese, che stava mangiando in una taverna, e gli si avvicinò; ma questi, disgustato dal suo aspetto, e forse anche dal suo olezzo, si ritraeva.

Al che Diogene decise di sfruttare questo fatto per prendersi gioco di lui, minacciandolo di contenerlo entro il locale ad libitum: «Quanto più ti ritrarrai, tanto più a lungo resterai nella taverna!».

Che Diogene non provasse alcuna ammirazione per Demostene può essere dedotto, senza difficoltà, dall’indicazione che il Cinico diede ad un gruppo di stranieri che gli chiedevano informazioni per incontrare il celebre oratore. Diogene, infatti, distese al cielo il dito medio e disse ad alta voce: «Ecco a voi il demagogo degli Ateniesi!».

Ma l’incontro più famoso, e gravido di insegnamenti, è senza alcun dubbio quello che Diogene ebbe con Alessandro Magno. La vicenda si svolse, grosso modo, così...

In un periodo in cui questi due personaggi si trovavano nella medesima città, forse Corinto, giacché molti politici, e altrettanti filosofi, si erano recati dal grande Alessandro per omaggiarlo e congratularsi con lui, quest’ultimo s’illuse che anche il mitico Diogene avrebbe fatto altrettanto.

Ma siccome il Cinico non lo degnava neanche della più minima attenzione e continuava a disporre del suo tempo come se nulla fosse, Alessandro decise, in via del tutto eccezionale, di recarsi personalmente a fargli visita.

Quando i due s’incontrarono, Diogene era beatamente steso a terra a godere della luce del Sole. Ma siccome venne accerchiato da un gran numero di soldati e di persone, che scortavano Alessandro, sollevò un po’ lo sguardo ed incrociò gli occhi del conquistatore macedone, che gli disse: «Io sono Alessandro, il grande re». E il Cinico rispose: «E io sono Diogene, il cane».

Incuriosito da quell’appellativo, Alessandro chiese: «Dimmi, che cosa fai per esser chiamato cane?». E Diogene replicò: «Scodinzolo festosamente a chi mi dà qualcosa, abbaio contro chi non mi dà niente, mordo i ribaldi».

«Non hai paura di me?», disse Alessandro, «chi sei tu? Un bene o un male?», domandò Diogene. «Un bene», affermò il grande conquistatore. E Diogene: «Chi, dunque, ha paura del bene?».

A quel punto, forse per mettere alla prova la grande temperanza di Diogene, o forse perché era rimasto sinceramente colpito ed intendeva aiutarlo concretamente, Alessandro gli fece la seguente proposta: «Chiedimi pure quel che vuoi, ed io farò in modo di procurartelo». Al che Diogene rispose: «Non farmi ombra, ridammi la luce del mio Sole».

L’incontro si concluse così, ma a questo punto le versioni diventano discordanti: secondo alcuni, Alessandro, per prendersi gioco di Diogene, gli donò un vassoio pieno di ossi; quest’ultimo lo accettò di buon grado, ma gli mandò a dire la seguente frase: «Degno di un cane il cibo, ma non degno di un re il regalo!».

Altri, invece, affermano che Alessandro rimase così colpito dal modo con cui Diogene si era rapportato con lui, che, al ritorno, mentre i suoi seguaci ridevano e facevano battute sul Cinico, sostenne in modo serio che se non fosso stato Alessandro, avrebbe voluto essere Diogene.

È quindi evidente che i due epiloghi non possano essere compatibili, a meno che il vassoio di ossi non venne inviato da Alessandro, bensì dai suoi seguaci.

Quest’aneddoto ebbe grande fortuna e divenne uno dei più dibattuti della storia della filosofia. Al suo interno è condensata l’essenza del cinismo.
Alexander and Diogenes, di Edwin Landseer 1848
Anche le vicende relative agli incontri con Platone sono degne di menzione. Forse ancor più di quanto non avesse già fatto Antistene, anche Diogene non perdeva occasione per schernirlo e rinnegare le sue tesi metafisiche.

Un giorno Platone enunciò in pubblico questa definizione: «L’uomo è un animale bipede e implume» e venne applaudito. Allora Diogene, per sconfessare in modo plateale quanto era stato asserito, si affrettò a procurarsi un gallo e, dopo averlo spennato, lo esibì nella sala dove il filosofo stava tenendo la sua conferenza, esclamando: «Questo è l’uomo di Platone!». Al che alla precedente definizione venne aggiunto: «e dalle unghie larghe».

Così come il suo maestro, anche Diogene contestava Platone quando quest’ultimo disquisiva delle idee nominando concetti metafisici come la “tavolità” e la “ciatità”, che avrebbero dovuto rappresentare la forma ideale intellegibile comune ai tavoli e ai ciati (il ciato era un piccolo vaso realizzato in metallo pregiato).

«Platone, io vedo il tavolo e il ciato, ma non la tavolità e la ciatità», disse Diogene. E Platone replicò: «Lo dici a ragione, giacché hai gli occhi per discernere il tavolo e il ciato, ma non hai la mente con la quale si vedono tavolità e ciatità».

In un’occasione, mentre si trovavano ad un pranzo sontuoso, Diogene osservò che Platone mangiava soltanto olive. Approfittando di ciò per coglierlo in fallo, Diogene chiese a Platone: «Perché tu, il sapiente che ha navigato fino alla Sicilia per godere di queste tavolate, ora non ne approfitti?».

E Platone gli rispose: «Per gli dei, Diogene, anche là io vissi per la maggior parte di olive e cibi simili» (è noto infatti che Platone fosse vegetariano). E Diogene: «Perché dunque bisognerebbe navigare fino a Siracusa? O allora l’Attica non produceva olive?».

Un giorno, i due s’incontrarono mentre Diogene stava gustando dei fichi secchi. «Se vuoi, puoi averne in parte», disse Diogene. Ma siccome Platone approfittava dell’offerta mangiando in abbondanza, senza porsi alcun freno, Diogene lo redarguì dicendogli: «T’avevo detto che avresti potuto averne in parte, non di divorarli tutti!».

Una volta, invece, fu Diogene a chiedere a Platone un po’ di vino e dei fichi secchi; ma quest’ultimo gli mandò un’anfora intera colma di vino. Al che Diogene gli disse: «Se qualcuno ti chiede quanto fa due più due, tu rispondi che fa venti? Sicché tu né dai ciò che ti si chiede, né rispondi a ciò che ti si domanda».

Capitò anche che Diogene s’intrufolò nell’abitazione di Platone calpestando e sporcando di proposito i suoi tappeti pregiati, mentre quest’ultimo stava ospitando degli amici: «Calpesto la vanità di Platone!», gridò Diogene, e Platone rispose: «Lo fai, o Diogene, con altrettanta vanità!».

Non a caso quando un tale chiese a Platone: «Che cosa ti sembra essere Diogene?» egli rispose: «Un Socrate impazzito!».

Le provocazioni di Diogene non risparmiarono neppure Anassimene. Un giorno, infatti, mentre quest’ultimo stava tenendo un discorso in pubblico, Diogene irruppe sulla scena porgendogli un pesce salato.

Quell’insolito gesto distolse l’attenzione degli ascoltatori e fece andare su tutte le furie il filosofo di Mileto. Al che Diogene fece prontamente notare agli astanti come un insignificante pesce secco da un obolo fosse stato capace di dissolvere tutta la facondia del grande Anassimene!

A quei pensatori megarici che intendevano persuaderlo con argomentazioni teoriche, Diogene opponeva, con grande acume ed ironia, evidenze empiriche contrarie alle loro tesi.

A chi pretendeva di dimostrare mediante un sillogismo che egli aveva le corna, toccava la fronte con le proprie mani dicendo: «Io almeno non le vedo!». E quando qualcuno affermava di poter provare per via teorica che il movimento non esiste, egli ribatteva senza proferire parola, levandosi in piedi ed iniziando a camminare qua e là.

Un simile personaggio non poteva che polarizzare l’opinione pubblica: per i suoi ammiratori Diogene era un uomo devoto alla ragione, che si contraddistingueva per un’onestà esemplare; i suoi detrattori, invece, lo consideravano come un folle, fastidioso e maleducato.

Ma nonostante il suo atteggiamento, Diogene era stimato da molti Ateniesi; basti sapere che quando un giovane distrusse di proposito la sua botte, quest’ultimo prese le botte, mentre a Diogene fu regalata un’altra botte!

Ma com’è possibile che un personaggio così insolente ed irriverente riuscì a conquistare il rispetto degli antichi greci? Per rispondere a questa domanda converrà dare uno sguardo ai suoi insegnamenti.

Da buon cinico quale era, Diogene non si interessava affatto alla scienza; la musica, la geometria e l’astronomia le reputava inessenziali. A chi parlava di fenomeni celesti domandava: «Da quanti giorni sei venuto giù dal cielo?».

Il sapere a cui egli ambiva non era mediato da concetti; si trattava di un sapere concreto, comportamentale, incentrato sull’esempio e l’azione.

Rigettava ogni forma di matrimonio, proponendo che uomini e donne adottassero una convivenza libera e consensuale. I figli si sarebbero dovuti allevare in comune.

Predicava l’abolizione della proprietà privata, ragionando così: «Tutto è degli dei; i sapienti sono amici degli dei; i beni degli amici sono comuni; dunque tutto è dei sapienti».

Argomentava in favore della tesi che la legge fosse una convenzione urbana; a suo avviso, l’unica legge fondamentale a cui obbedire è quella che regge il cosmo.

Chiunque avesse scelto di vivere in armonia con la natura, sarebbe vissuto felicemente; coloro che avessero intrapreso, contro natura, il sentiero della dissennatezza, sarebbero stati infelici.

Diogene gridava spesso ai quattro venti che gli dei hanno dato agli uomini una vita facile da fare, ma che questa verità è stata celata alle masse.

Così decise di farsi carico del compito di riportare alla vista degli uomini quei semplici mezzi che servivano per vivere bene, dimostrando che ciò che occorre per esser felici è alla portata di tutti, a condizione che ci si renda conto di quali siano le effettive esigenze dettate dalla natura.

Più si eliminano i bisogni superflui e più si è liberi: era questo il suo insegnamento. Ecco perché il saggio mira alla completa autosufficienza rispetto ai falsi bisogni indotti dalla civiltà.

Ma per mettere in pratica fino in fondo l’ideale cinico bisognava spingersi fino al disprezzo del piacere, giacché la dipendenza rispetto ad esso avrebbe rappresentato un’altra forma di schiavitù per l’individuo. Alla passione bisognava contrapporre la ragione, alla legge la natura, alla fortuna il coraggio.

Diogene sosteneva che gli uomini virtuosi sono immagini degli dei e che la passione amorosa sia l’occupazione dei disoccupati. Affermava anche che l’educazione per i giovani è temperanza; per gli anziani è consolazione; per i poveri è ricchezza; per i ricchi è compostezza.

E riteneva che l’esercizio pratico, proprio della vita filosofica, sia di due tipi: quello che riguarda l’anima e quello destinato al corpo. Se ci si fosse dedicati ad essi con costanza, come si fa con l’allenamento ginnico, si sarebbe riusciti a realizzare la virtù.

Egli era convinto che nel corso della vita nessun successo si sarebbe potuto ottenere senza uno strenuo esercizio, e che con la giusta dose di dedizione si sarebbe potuto superare qualunque ostacolo.

Motivava le sue posizioni fornendo degli esempi, osservando come, in qualunque ambito, l’eccellenza venisse raggiunta soltanto in seguito ad una pratica costante.

Ma per quanto riguarda il conseguimento della virtù, non si sarebbe dovuto trascurare né l’allenamento fisico né quello spirituale, perché l’uno è indispensabile per l’altro ed essi si completano a vicenda, giacché la vigoria dell’animo e la robustezza del corpo possono svilupparsi in modo ottimale soltanto congiuntamente.

L’atleta che ha raggiunto la sua forma fisica grazie all’allenamento, potrebbe conseguire dei grandi risultati anche dal punto di vista della sua anima, se solo fosse disposto ad esercitarsi in tal senso.

Purtroppo, osservava Diogene, gli uomini fanno a gara nello scavare sabbia e nel tirarsi calci, ma nessuno compete per diventare una persona per bene.

Gli eruditi approfondiscono con minuzia i mali di Odisseo, ma poi ignorano il proprio male; i musicisti accordano le corde della lira, ma lasciano che i loro stati d’animo siano dissonanti; i matematici volgono lo sguardo al Sole e alla Luna, ma non si curano delle faccende che hanno tra i piedi; i retori sostengono d’industriarsi per le cose giuste, senza però metterne in atto nessuna, tant’è che, mentre denigrano gli avari, amano il denaro alla follia.

Diogene condannava anche l’incoerenza di chi, da un lato, loda le persone che agiscono in modo disinteressato rispetto al denaro, ma, dall’altro, guarda con gelosia i ricchi; ammirava invece quei servi integerrimi che, pur assistendo alle ingorde abbuffate dei loro padroni, evitano di sottrarre di nascosto le vivande.

Ad un uomo ricco, che si faceva mettere le scarpe da un suo domestico, disse: «Non sarai beato finché costui non ti soffierà anche il naso; ma ciò accadrà quando avrai perso l’uso delle mani!».

Egli si prendeva gioco anche della nobiltà di stirpe e della fama, sostenendo che si trattasse di ornamenti esteriori del vizio.

Quando Diogene osservava l’opera di piloti di navi, medici o filosofi, diceva che l’uomo è l’animale più dotato di comprendonio; ma non appena s’imbatteva in individui boriosi a causa della fama o della ricchezza, e nelle persone che davano ascolto a interpreti di sogni e indovini, sosteneva che non ci fosse animale più folle dell’uomo.

A proposito di coloro che si lasciano impressionare dai sogni, osservava come essi non s’impensierissero delle azioni che effettuavano da svegli, mentre s’impicciassero delle fantasticherie fatte dormendo.

Provava sdegno nel vedere che si facessero sacrifici agli dei per invocare la salute, quando poi si gozzovigliava a detrimento del proprio benessere, addirittura mentre si compiva il rituale!

Ad un tale che si sottoponeva ad aspersioni purificatorie, Diogene disse: «O infelice, non sai che con le aspersioni purificatorie, come non potresti liberarti degli errori di grammatica che fai, così neppure puoi sbarazzarti delle azioni aberranti che fai nella vita?».

Una volta, invece, incontrò una donna che stava supplicando gli dei in una posizione indecente. E così, volendo liberarla dalla superstizione, le si accostò domandando: «Perché non usi la cautela, o donna, se un dio ti sta alle spalle, giacché tutti i luoghi sono pieni della sua presenza, di evitare di mostrarti in una posizione indecente?».

Quando gli domandarono quale fosse la belva con il peggior morso, rispose: «Di quelle “selvatiche”, il morso del sicofante; di quelle “addomesticate”, il morso dell’adulatore». Sosteneva anche che il discorso fatto per ingraziarsi qualcuno è come una corda da impiccagione spalmata di miele.

Per sostenere la follia dell’organizzazione economica della civiltà ateniese, osservava come le cose di gran valore venissero smerciate per nulla, e viceversa; così, mentre una statua veniva venduta per tremila dracme, un chenice di farina poteva essere acquistato con due monete di rame [chissà che cosa avrebbe detto Diogene dell’arte contemporanea!].

Quando gli chiesero che cosa fosse meschino nella vita, rispose: «Un vecchio privo di mezzi di sussistenza». Quando gli domandarono quale fosse la cosa più bella tra gli uomini, rispose: «La libertà di parola». E a chi gli diceva: «Molti ti deridono», Diogene rispondeva: «Io, invece, non mi derido».

Era questo il suo pensiero, di cui egli dava diretta testimonianza con la propria esistenza, affermando d’ispirarsi al semidio Eracle (Ercole), che non anteponeva nulla alla libertà.

Trascorse così gran parte della sua vita, godendosi il Sole e scuotendo le coscienze assopite dalla società. A coloro che gli dicevano: «Sei vecchio ormai, lascia stare!», rispondeva: «Che dici? Se io stessi gareggiando nella corsa lunga allo stadio, quasi all’arrivo dovrei lasciar perdere e non piuttosto intensificare lo sforzo?».

Praticò la filosofia senza risedere stabilmente in un luogo e non accolse intorno a sé né discepoli, né gruppi di uditori permanenti. Diogene proponeva se stesso come modello di vita, senza alcuna pretesa di costruire altre forme d’organizzazione politica superiori a quella esistente.

Egli piuttosto sognava l’eliminazione di ogni forma di governo diversa dal governo della ragione. Fosse nato oggi sarebbe stato senza alcun dubbio un anarchico, o meglio un anarco-primitivista, giacché Diogene intendeva realizzare integralmente l’ideale cinico del ritorno allo stato di natura.

Nell’ultima parte della sua vita, però, il fato tolse a Diogene la sua tanto amata libertà, ed il vecchio Cinico venne, in parte, addomesticato.

Un giorno, mentre navigava verso Egina, venne catturato dai pirati e fu condotto a Creta, per essere messo in vendita. I commentatori ci dicono che Diogene sopportò la schiavitù con la grande nobiltà d’animo che gli era propria.

La storia della sua vendita si svolse, più o meno, così: Diogene venne esposto al mercato, insieme ad altri prigionieri, mentre un banditore tentava d’invogliare i passanti all’acquisto di qualche schiavo a buon prezzo.

Siccome gli proibirono di sedersi, credendo di fargli un torto, Diogene disse: «Non fa differenza, giacché pure i pesci si smerciano in qualunque posizione giacciano». Osservando ciò che stava accadendo, diceva anche di meravigliarsi del fatto che quando si tratta di comperare una pentola, o un piatto, si è soliti saggiarne il tintinnio, mentre invece per l’acquisto di un uomo era sufficiente la sola vista.

Dato che parlava tanto, gli fu chiesto che cosa sapesse fare, ed egli rispose: «Comandare uomini». Poco dopo, visto che la faccenda andava per le lunghe, Diogene prese l’iniziativa e diede un consiglio al suo venditore: «Banditore, grida e chiedi a questa gente se c’è qualcuno che vuole comprarsi un padrone!».

Ma siccome la sua direttiva non veniva rispettata, indicò un uomo che indossava un abito ornato di color porpora, dicendo: «Vendimi a costui, perché quest’uomo ha bisogno di un padrone!».

Si trattava di Xeniade di Corinto, il quale, forse a causa dell’atipico atteggiamento di Diogene, accettò il suo consiglio e decise di comprarlo.

Non appena giunse nella sua nuova dimora, Diogene mise subito le cose in chiaro col suo nuovo padrone: «Orsù, bada di fare ciò che ti ordino», gli disse.

E quando Xeniade gli citò il verso “rimontano i fiumi alle sorgenti”, per fargli comprendere che era lo schiavo che avrebbe dovuto obbedire e non di certo il padrone che lo aveva appena acquistato, Diogene osservò: «Se tu avessi comprato un medico e fossi ammalato, non gli ubbidiresti ma gli diresti “rimontano i fiumi alle sorgenti”?».

Sicché Xeniade dovette obbedire a Diogene, nonostante ne fosse il padrone, così come ogni uomo assennato, che non sapesse navigare e si trovasse in mare, avrebbe dato ascolto ad un pilota di nave, anche se quest’ultimo fosse stato uno schiavo.

Xeniade accettò nuovamente il consiglio di Diogene, lo fece tutore dei suoi figli e gli diede l’incarico di amministrare la sua casa. Il Cinico ricambiò la fiducia del suo padrone dando il meglio di sé, al punto che Xeniade andava in giro dicendo: «Un buon daimon è entrato in casa mia».

E Diogene fu davvero un ottimo tutore, che allevò i figli di Xeniade ispirandosi ai principi dei cinici, avendo cura di allenare sia la loro anima che il loro corpo, proteggendoli però dagli eccessi della sua filosofia.

Per prima cosa, rapò a zero i ragazzi e gli fece comprendere l’inutilità degli ornamenti. Li educò ad andare in giro scalzi, senza tunica, in modo silenzioso e a badare a se stessi, quando si recavano per le vie della città. I ragazzi dovevano consumare cibi frugali e bere soltanto acqua, servendosi da sé.

Diogene insegnò loro a cavalcare, tirare con l’arco, colpire con la fionda e lanciare il giavellotto. E quando furono maturi a sufficienza per frequentare la palestra, proibì all’istruttore di ginnastica di imporgli degli allenamenti pesanti come quelli dei veri atleti.

Oltre a ciò, esercitava la memoria dei ragazzi, insegnando loro versi di poeti, brani di prosatori e opere composte dello stesso Diogene.

Ben presto anche i ragazzi si affezionarono al loro nuovo tutore, al punto da prendersene cura e fare delle richieste ai propri genitori per conto suo.

Nel frattempo, alcuni conoscenti di Diogene, venuti a sapere dell’accaduto, si offrirono di pagare il riscatto per liberarlo; ma egli, con uno scatto d’orgoglio, li chiamò “sempliciotti”, dicendo che i leoni non sono schiavi di chi li nutre, bensì è chi li nutre ad essere schiavo dei leoni.

Diogene trascorse l’ultima fase della sua vita presso Xeniade, fin quando, un giorno, morì. Secondo il grammatico e biografo greco antico Demetrio, il Cinico, ormai prossimo ai novant’anni, spirò a Corinto nel medesimo giorno in cui Alessandro Magno morì a Babilonia.

Ci sono varie versioni a proposito di come ciò avvenne: c’è chi dice che Diogene contrasse il colera dopo aver mangiato un polpo crudo e chi invece che fu morso ad un tendine da un cane con il quale stava condividendo del cibo.

Altri ancora testimoniano, più verosimilmente, di averlo ritrovato senza vita avvolto nella sua mantellina presso una palestra situata nei sobborghi di Corinto, deducendo dal suo aspetto, che si fosse suicidato trattenendo il respiro.

Si dice che i suoi conoscenti si contesero duramente il compito di seppellirlo, ingaggiando una lite furibonda che sfociò in una vera e propria rissa.

Quando era ancora in vita Diogene aveva dato diverse disposizioni su come trattare il suo corpo privo di spirito e ciò non aiutò di certo i contendenti a prendere una decisione.

Secondo alcuni egli aveva suggerito di lasciarlo insepolto, così che ogni belva potesse disporre di una sua parte, oppure di gettare il suo cadavere nel fiume Ilisso, così da poter diventare di qualche utilità ai suoi fratelli animali.

Secondo Xeniade, Diogene aveva sostenuto di voler essere sepolto a faccia in giù «perché in poco tempo il culo diventa la faccia». Ma forse questa era soltanto una delle sue solite battute volte a sottolineare come ormai i macedoni fossero diventati dei dominatori, trasformandosi da nazione oscura a potenza egemone.

Alla fine fu stabilito che Diogene doveva essere sepolto presso la porta della città che conduce verso l’istmo di Corinto. Sulla sua tomba fu realizzata una colonna adornata con una scultura di un cane scolpito nel marmo.

Successivamente i suoi concittadini vollero onorare il grande Diogene realizzando delle immagini in bronzo sulle quali vi era scritto:

«Anche il bronzo invecchia col tempo, ma la tua gloria, o Diogene, non la demolirà l’eternità. Perché tu solo insegnasti ai mortali la lezione di un’esistenza bastante a se stessa e mostrasti il percorso della più semplice vita».

Qualche decennio più tardi il poeta e filosofo Cercida di Megalopoli gli dedicò dei versi che recitano così:

«Non è più, chi era innanzi cittadino di Sinope, celebre per il bastone che portava, per il doppio mantello e il vivere all’aria aperta. S’imbarcò premendo il labbro contro i denti e mordendo il respiro. Era Diogene, un vero figlio di Zeus, un cane celeste».


Mirco Mariucci

Fonti
  • Il pensiero occidentale, di Giovanni Reale e Dario Antiseri.
  • Storia della filosofia, di Luciano De Crescenzo.
  • Storia della filosofia, di Nicola Abbagnano.
  • Storia della filosofia antica, di Giuseppe Cambiano.
  • Storia della filosofia occidentale, di Bertrand Russell.
  • Storia del pensiero scientifico e filosofico, di Ludovico Geymonat.
Scuola cinica
Antistene di Atene
Diogene di Sinope

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