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giovedì 9 aprile 2020

La dottrina dello scetticismo: Pirrone di Elide, Timone di Fliunte, Arcesilao di Pitane, Carneade di Cirene, Filone di Larissa, Antioco di Ascalona, Enesidemo di Cnosso, Agrippa, Sesto Empirico.



Pirrone di Elide

Pirrone di Elide (365 a.C. circa – 275 a.C. circa) fu un pensatore greco antico che diede il via all’atteggiamento filosofico dello scetticismo, secondo il quale non può esistere una dottrina, o un metodo, che conduca all’episteme, ovvero ad una conoscenza certissima, oggettiva ed universale, perché una verità ultima ed assoluta o non esiste o, se esiste, è irraggiungibile.

Da giovane Pirrone era un pittore che aveva assorbito i valori e le convinzioni della cultura greca della sua epoca.

Tuttavia, una lunga serie di esperienze di vita gli fece rimettere in discussione ogni genere di conoscenza con cui era venuto a contatto, fin quando, un giorno, si convinse che ogni atteggiamento teoretico o empirico, che promette di cogliere la verità, sia egualmente fallace ed inconsistente, mentre i valori sposati dalle comunità mutano nel tempo e risultano relativi ai luoghi in cui vengono adottati.

Come ciò avvenne non è noto con certezza, ma si può ipotizzare con ragionevolezza che furono proprio le numerose e contrastanti visioni del mondo, che Pirrone ebbe modo di conoscere, a far maturare nel suo spirito un atteggiamento di tipo scettico.

Egli, infatti, entrò in contatto sia con alcuni maestri delle scuole socratiche, con particolare riferimento alla corrente megarica, forse tramite Brisone di Eraclea, scolaro di Stilpone di Megara, a sua volta allievo di Euclide di Megara (fondatore della Scuola megarica), che con il pensiero atomistico di Democrito, forse per opera di Anassarco l'eudemònico, con il quale Pirrone divenne amico.

Egli venne influenzato anche dall’atteggiamento sofistico di Protagora e dei membri della Scuola cirenaica. Ma le esperienze più significative Pirrone le visse al tempo della campagna di conquista che Alessandro Magno condusse in Oriente, alla quale egli prese parte attivamente assieme ad Anassarco.

Nel corso della lunga azione militare intrapresa dal grande conquistatore macedone, Pirrone interagì con i Gimnosofisti in India (dal greco Γυμνοσοφισταί , "Gynmnosophistaί" traducibile come "sapienti nudi" [sophistái gymnói]) e con i Magi in Persia.

I primi, erano degli asceti che avevano maturato la loro sapienza spogliandosi di ogni avere per dedicare l’esistenza alla meditazione.

Essi trascorrevano le giornate seduti sotto dei grandi alberi senza indossare alcun vestito, che a loro avviso avrebbe rappresentato una sorta di ostacolo alla purezza del pensiero.

Per il loro stile di vita secondo natura, condotto in modo semplice e ben lontano da ogni comodità, i gimnosofisti furono accomunati dai greci ai cinici.

I secondi, erano esponenti della casta sacerdotale depositaria degli insegnamenti del profeta Zarathuštra, il cui credo era incentrato sull’insanabile dualismo tra gli spiriti del Bene e del Male, ovvero della Verità e della Menzogna, i quali avrebbero rispettivamente il potere di condurre l’essere umano alla vita, ovvero alla migliore delle esistenze, e alla non-vita, cioè alla peggiore delle esperienze terrene.

Tra tutti, vi fu un personaggio in particolare che diede a Pirrone un’impressionante dimostrazione di profonda coerenza con la propria visione filosofica, nonché di completa padronanza dello spirito sul corpo: si trattò di un gimnosofista di nome Calano, che decise volontariamente di togliersi la vita dandosi fuoco, riuscendo ad affrontare il grande dolore dovuto alle ustioni con assoluta impassibilità, sbalordendo sia Alessandro Magno che il suo esercito, lì presenti.

L’elenco degli insegnamenti che Pirrone trasse dalle proprie esperienze, e che costituì il terreno sul quale fiorì lo scetticismo, è qui di seguito sintetizzato:

dalla filosofia di Socrate Pirrone apprese l’importanza della ricerca e che il vero sapiente è colui che è consapevole di non sapere.

I Megarici gli fecero conoscere l’ontologia eleatica, che negava la validità epistemologica dell’esperienza sensibile, rivendicando la supremazia della ragione; essi, però, attraverso i loro celebri paradossi, misero anche in evidenza una serie di insidie relative all’uso del linguaggio.

Il pensiero degli Atomisti rafforzò la svalutazione che Pirrone aveva già maturato nei confronti dei sensi, che, secondo i seguaci di Democrito, al contrario della ragione, non erano in grado di cogliere né la vera natura degli enti, né i nessi causali tra loro esistenti (una tesi che verrà rovesciata qualche secolo più avanti da Epicuro, che rifondò l’atomismo su basi sensistiche).

Tuttavia Democrito presuppose soltanto che fosse possibile ottenere la conoscenza attraverso l’intelletto, ma non riuscì a giustificare questa posizione teoreticamente, sicché Pirrone iniziò a nutrire qualche dubbio anche in merito all’uso della ragione.

I Cirenaici gli fecero scoprire il relativismo soggettivistico dei costumi, delle leggi e della morale, una posizione che era stata sposata ancor prima sia dai cinici che dai sofisti.

Il suo amico Anassarco gli fece comprendere l’importanza dell’eudaimonia, cioè del benessere come scopo di vita (non a caso il suo soprannome era l'Eudemònico) e lo portò a conoscenza del pensiero del proprio maestro, Metrodoro di Chio, il quale si spinse addirittura ad affermare che non solo: «noi non sappiamo se sappiamo o ignoriamo qualche cosa» ma che: «non sappiamo neppure se sappiamo o non sappiamo questa cosa stessa. Né assolutamente se esista qualche cosa o no», anticipando così alcune delle posizioni di quella che sarebbe divenuta la corrente dello scetticismo.

L’azione militare di Alessandro Magno, con la conseguente rivoluzione politica ed ideologia operata dal grande conquistatore macedone, fece comprendere a Pirrone che tutto ciò che fino ad allora era stato ritenuto indistruttibile, in realtà, non lo era affatto, e che perfino le più antiche e radicate opinioni dei greci potevano essere trasformate, aprendo l’orizzonte a nuovi ed inesplorati scenari.

Dai gimnosofisti apprese l’importanza e la pratica di una vita solitaria, dedita all’ascetismo, finalizzata alla liberazione dalle passioni mediante l’esercizio dell’autodominio.

In particolare, il gimnosofista Calano gli insegnò la vanità e l’irrealtà di tutte le cose, giacché se un uomo è disposto a togliersi la vita, in ogni istante e senza alcuna esitazione, e nel farlo può persino riuscire ad essere completamente impassibile, nonostante sia avvolto dalle fiamme, evidentemente le cose non hanno quella “realtà” e quella “natura” che si è soliti attribuirgli: per questo il saggio indiano riuscì a porsi al di sopra di esse.

Dai Magi apprese la continua ed inesauribile lotta tra gli spiriti del vero e del falso, ovvero del bene e del male, incessantemente e vicendevolmente impegnati a sopraffarsi, l’un con l’altro.

Infine, è possibile che in India Pirrone apprese anche i principi della irrappresentabilità e dell’incomprensibilità delle cose, e colse il valore dell’osservanza del silenzio conseguente alla sospensione di ogni giudizio in merito alla vera natura di ciò che è.

Tornato in patria arricchito da un importante bagaglio culturale, Pirrone raccolse il suggerimento socratico e diede il via alla propria indagine filosofica, ma non impiegò molto tempo per rendersi conto che per ogni gruppo di pensatori che avevano asserito con convinzione la verità di una certa dottrina, ve n’era sempre un altro che sosteneva la falsità delle medesime tesi.

Se da un lato c’era chi screditava la ragione esaltando i sensi, dall’altro vi era chi svalutava i sensi e accreditava il pensiero.

Chi sosteneva l’immutabilità dell’essere, doveva fare i conti con chi invece riteneva che l’essere fosse in eterno divenire.

Per ogni pensatore che affermava l’esistenza del vuoto ce n’era un altro che la negava, la stessa cosa accadeva per il moto... e così via.

Per non parlare poi delle numerose e contrastanti ricette avanzate per raggiungere la felicità, e delle altrettante visioni su cosa fossero il bene ed il male, il bello ed il brutto... e così via.

Ma se i sensi risultano inaffidabili, e non ci si può fidare fino in fondo neppure della ragione, la quale spesso trae in inganno ancor più dei sensi; se lo stesso linguaggio impiegato per esprimere i concetti ha esibito i suoi limiti; se le varie concezioni filosofiche sono in contrasto l’una con l’altra; se i valori, le leggi, i costumi e perfino le organizzazioni sociali, si rivelano mutevoli, soggettivi e relativi... che genere di conclusione si può trarre?

Fu così che Pirrone ebbe un’illuminazione: non esiste assolutamente nulla che sia vero o falso, bello o brutto, buono o cattivo, per natura; verità, bellezza e bontà sono giudicati come tali dall’essere umano per convenzione e per costume, e non in quanto siano veri, belli o buoni in sé.

In un passo del suo celebre Vite dei filosofi, Diogene Laerzio sostiene che: «Pirrone diceva che niente è bello né brutto, niente è giusto né ingiusto, e similmente applicava a tutte le cose il principio che nulla esiste in verità e sosteneva che tutto ciò che gli uomini fanno accade per convenzione e per abitudine, e che ogni cosa non è più questo che quello».

Di conseguenza, l’atteggiamento che si sarebbe dovuto adottare rispetto ad ogni cosa, consiste nel non affermare né che essa sia vera né che sia falsa, né che sia bella né che sia brutta, né che sia buona né che sia cattiva, perché per l’essere umano la conoscenza ultima è inafferrabile.

Qualche decennio più tardi, questo atteggiamento spiccatamente agnostico inaugurato da Pirrone, tutto incentrato sulla sospensione di ogni giudizio, verrà ripreso ed espresso con il termine epoché (traslitterazione del greco antico "ἐποχή", ossia "sospensione"), sebbene il primo degli scettici abbia parlato soltanto di assenza, o mancanza, e non di sospensione, del giudizio.

Quale era il fine della epoché? Proprio come gli altri pensatori morali dell’antica Grecia, anche Pirrone voleva trovare un modo per raggiungere la felicità, che nel suo caso era intesa come atarassia (letteralmente, dal greco antico, ἀταραξία, “assenza di agitazione”, “tranquillità”), ma la strategia suggerita per ottenere questo stato di perfetta pace dell'anima, liberata dal gravame dovuto ad ogni sorta di passione, rappresentava un’assoluta novità per quanto riguarda la storia della filosofia antica occidentale: invece di accettare una certa dottrina, bisogna rifiutare qualunque dottrina!

L’osservanza dell’epoché, dunque, attuata evitando di sposare le “verità” proposte da qual si voglia concezione filosofica, avrebbe di per sé assicurato la tranquillità dello spirito, tipica dello stato di atarassia, e quindi avrebbe condotto alla felicità.

Il perno dello scetticismo di Pirrone era il seguente: la felicità non è data dall’adesione ad un sistema filosofico, le cui “verità” sono reputate superiori rispetto a quelle sostenute dalle altre dottrine, ma dal rifiuto di ogni dottrina determinata, dettato dalla consapevolezza che l’essere umano non può cogliere la verità assoluta.

Il mezzo per giungere a questo diniego è la sképsis, ovvero un’indagine, della quale lo scettico si avvale per evidenziare l’inconsistenza, e la reciproca incompatibilità, di tutti gli atteggiamenti teorici e pratici, ed in virtù di ciò, può legittimare il proprio atteggiamento di astensione dal giudizio, rifiutandosi di accettare qualsiasi sistema filosofico, proprio come fece Pirrone.

Le differenze tra il punto di vista dello scetticismo, e quello delle precedenti scuole di pensiero, sono sostanziali: mentre fino ad allora si era pensato che la felicità scaturisse dall’adozione di una certa dottrina, Pirrone sostenne che essa derivasse dalla negazione di ogni sistema di pensiero;

mentre per Socrate, e Platone, in primo luogo la ricerca deve indagare se stessa, per darsi dei fondamenti e giustificarsi, chiarificando le condizioni ed i principi che la rendono possibile ed affidabile, per Pirrone il compito della ricerca consiste nel guardare al di fuori di sé, al fine di svalutare i diversi punti di vista che sono stati proposti, così da poterli rigettare ed acquisire l’atarassia.

In questo modo egli credeva di aver liberato l’umanità dal gravame spirituale legato all’incessante lotta tra lo spirito della verità e quello della menzogna, di cui i singoli individui si facevano carico tentando, invano, di discernere il vero dal falso.

Ma è proprio astenendosi dal volgere lo guardo verso se stesso, evitando d’indagare sulla fondatezza dell’atteggiamento filosofico che andava proponendo, che Pirrone cadde in contraddizione.

Egli, infatti, affermò di dover rifiutare ogni dottrina, ma nel far questo concepì e sposò la dottrina dello scetticismo, che poneva anch’essa delle verità dogmatiche a proprio fondamento.

Così come chi afferma che «non esistono verità assolute» cade in contraddizione, auto-negando ciò che sostiene, perché se è vero che «non esistono verità assolute» allora ciò che è stato appena espresso nella frase precedente è già di per sé una verità assoluta, anche lo scettico che sostiene di dover rifiutare ogni dottrina determinata, sta implicitamente definendo ed adottando una dottrina determinata.

Il paradosso dello scetticismo radicale, generato da chi si scaglia contro ogni visione dogmatica del mondo, adottando a sua volta un’altra visione dogmatica, diviene evidente nel caso di Pirrone, non appena ci si rende conto che alla base della sua concezione vi è una precisa tesi metafisica relativa alla natura delle cose.

Egli infatti riteneva che tutto fosse indifferenziato, instabile ed indiscriminato, al punto che ogni sensazione dovuta ai sensi, ogni opinione scaturita dalla ragione e qualsiasi altro giudizio ottenuto come combinazione di sensi ed intelletto, si sarebbe dovuto considerare come né vero né falso, evitando di avere fiducia in esso, di esprimere opinioni ed avere particolari inclinazioni.

A chi fino ad allora aveva sostenuto che l’essere e la verità esistono e sono raggiungibili, Pirrone replicò che l’essere umano può avere contezza soltanto dell’apparenza; nel far questo, egli ridusse l’essere all’apparire e sostenne che in merito a ciò che appare, l’opinione di ciascuno non vale né di più, né di meno, rispetto ai pensieri espressi dagli altri.

Ma così facendo allo scettico non resta altro da fare che dire di ciascuna cosa che essa «è, non più che non è», «che è, e non è» oppure «che né è, né non è».

Il problema è che se si adottasse seriamente questa posizione, non si potrebbe far altro che tacere e non esprimere più nulla; con essa, infatti, cadrebbero sia la logica, che la possibilità di esprimersi in modo sensato e non contraddittorio attraverso il linguaggio.

Ad esempio, affermare, allo stesso tempo ed in relazione al medesimo attributo, che una cosa è, e non è, significa violare il principio di non contraddizione posto a fondamento della logica classica aristotelica.

Non a caso, qualche decade prima, riferendosi ai negatori della suprema legge dell’essere, cioè alla legge di non contraddizione, Aristotele aveva scritto nella sua Metafisica: «È evidente che la discussione con tale avversario non può vertere su nulla, perché egli non dice nulla: infatti, egli non dice né che la cosa sta così, né che non sta così, ma dice che la cosa sta così e non così, e poi, daccapo, egli nega e l’una e l’altra affermazione, e dice che la cosa né sta così, né non così».

Ed è proprio questa la posizione assunta da Pirrone, sostenendo l’afasia, vale a dire rinunciando di affermare, o negare, e quindi di giudicare ogni cosa, come diretta conseguenza della convinzione che sia impossibile comprendere le cose, sia coi sensi che con la ragione.

Ma il sacrificio dell’episteme, dovuto alla presunta impossibilità di raggiungere una conoscenza certa ed oggettiva, lungi dall’essere un problema, per Pirrone rappresentava una qualità positiva da un punto di vista pratico, giacché l’afasia avrebbe condotto all’atarassia, cioè a quella quiete interiore necessaria per il conseguimento della felicità.

L’applicazione della filosofia di Pirrone alla morale, ed agli atteggiamenti da adottare nella quotidianità, conduce in modo naturale alla completa indifferenza e quindi ad un’esistenza liberata da ogni preoccupazione.

Il fine di questo atteggiamento, non è l’annullamento dell’individuo, ma il concretizzarsi di un’esistenza che non bada al peso delle cose, ottenuta acquisendo l’impassibilità del saggio.

In numerosi casi Pirrone diede dimostrazione delle sue grandi doti d’indifferenza e d’imperturbabilità. Gli aneddoti tramandati a tal riguardo sono troppo curiosi per non esser citati.

Diogene Laerzio sostiene che la vita del primo degli scettici fu coerente con la sua dottrina: «[Pirrone] lasciava andare ogni cosa per il suo verso e non prendeva alcuna precauzione, ma si mostrava indifferente verso ogni pericolo che gli occorreva, fossero carri o precipizi o cani, e assolutamente nulla concedeva all’arbitrio dei sensi. Ma, secondo la testimonianza di Antigono di Caristo, erano i suoi amici, che solevano sempre accompagnarlo, a trarlo in salvezza dai pericoli».

In virtù della sua filosofia, Pirrone metteva in atto, con assoluta indifferenza, anche quelle cose che un greco antico reputava servili e ignobili.

Secondo la testimonianza di Erastotene, contenuta nella sua opera Ricchezza e povertà, citata da Diogene Laerzio: «[Pirrone] visse piamente insieme con la sorella, che era ostetrica; [...] talvolta portava a vendere al mercato, secondo i casi, uccellini o maialetti, e faceva le pulizie di casa con perfetta indifferenza».

Si dice anche che un’altra prova di indifferenza la desse provvedendo lui stesso a lavare i porcellini.

Qualunque fosse la situazione, Pirrone non perdeva mai la sua compostezza; se i suoi uditori se ne andavano nel bel mezzo di un discorso, lasciandolo da solo, egli completava l’orazione da sé.

Dice Diogene Laerzio che: «Mentre i suoi compagni di viaggio su una nave si erano incupiti a causa di una tempesta, egli [Pirrone] rimaneva tranquillo e riprendeva animo, additando un porcellino che continuava a mangiare e aggiungendo che una tale imperturbabilità era esemplare per il comportamento del sapiente».

Si narra, inoltre, che quando gli furono applicati dei medicamenti corrosivi per cauterizzare una ferita, e dovette subire dei tagli, egli non contrasse neppure le ciglia.

Una volta il suo amico Anassarco cadde incidentalmente in un pantano. Ma Pirrone, invece di aiutarlo, continuò imperterrito per la sua strada, come se nulla fosse.

Venuti a conoscenza dell’accaduto, alcuni lo rimproverarono per il suo comportamento; Anassarco, invece, lo lodò per la sua indifferenza e la sua impassibilità.

Diogene Laerzio sostiene che Pirrone abbia perso le sue virtù soltanto in un paio d’occasioni: «una volta perdette la calma per un’ingiuria arrecata a sua sorella e a chi lo riprendeva disse che una donna non è una buona pietra di paragone per l’indifferenza»;

un’altra volta invece: «fu messo in agitazione dall’assalto di un cane e replicò che era difficile spogliare completamente l’uomo, soggiungendo che contro le cose bisogna, in primo luogo, se è possibile, lottare con i fatti, se non con la ragione».

Nonostante fosse riuscito ad elaborare un sistema filosofico originale, seppur in senso negativo, ovvero professando il rifiuto d’ogni dottrina e l’impossibilità di cogliere la verità ultima, Pirrone non fondò mai una vera e propria scuola.

Egli voleva far comprendere all’umanità che, malgrado il crollo dei valori tradizionali, nonostante le imprevedibili avversità dell’esistenza e pur senza curarsi della verità, era comunque possibile condurre una vita serena.

I suoi seguaci, più che dei veri e propri scolari, erano singoli individui che apprezzavano e sposavano spontaneamente il messaggio filosofico testimoniato dal loro maestro.

Pirrone visse in povertà e non si preoccupò neanche di mettere nulla per iscritto, fatta eccezione per un componimento poetico in onore di Alessandro Magno.

Se noi sappiamo qualcosa del suo pensiero è proprio grazie alle opere dei suoi estimatori. Tra di essi, Timone di Fliunte fu colui che contribuì maggiormente alla diffusione della filosofia del padre dello scetticismo.

Fu così che, nonostante tutto, Pirrone riuscì ad accendere nello spirito dell’umanità la fiamma di un nuovo atteggiamento filosofico, che avrebbe avuto dei notevoli sviluppi per tutto il corso della storia del pensiero.

Timone di Fliunte

Timone di Fliunte (Fliunte, 320 a.C. circa – Atene, 230 a.C. circa) fu un poeta ed un artista, decisamente poliedrico e dotato di una grande cultura, che venne a conoscenza e rimase affascinato dallo scetticismo di Pirrone.

A rigor di termini, egli non può essere considerato come un vero e proprio filosofo, perché non concepì una dottrina originale; la sua importanza è dovuta all’aver messo per iscritto le tesi divulgate oralmente da Pirrone, contribuendo in modo fondamentale alla sistematizzazione ed alla diffusione del primo scetticismo.

Rimasto orfano in giovane età, Timone si dedicò anima e corpo alla recitazione. Egli si distinse nei teatri dell’antica Grecia per le sue abilità di cantore e danzatore.

Successivamente ampliò ulteriormente le sue doti artistiche divenendo un mimo. Ma il dedicarsi all’arte non gli consentiva di guadagnare a sufficienza per vivere decorosamente.

Fu così che, spinto dalla necessità, si trasferì a Calcedonia, esercitando l’assai più remunerativa professione di sofista. Visitò Tebe ed alla fine si ristabilì ad Atene, dove trascorse il resto della sua esistenza.

Il suo nuovo impiego lo fece arricchire tanto quanto le sue notevoli abilità letterarie e linguistiche accrebbero la sua reputazione, fino al punto da fargli guadagnare l’ammirazione del sovrano del regno di Macedonia Antigono Gonata e del faraone egizio Tolomeo II Filadelfo.

La vasta ed eterogenea produzione scritta di Timone vantava decine di tragedie e di commedie, nonché un discreto numero di scritti in prosa.

Nel corso della sua esistenza, egli venne in contatto prima con Stilpone di Megara e poi con Pirrone di Elide, divenendone un acuto estimatore.

Timone rese conto del suo incontro con Pirrone in una delle sue opere: un dialogo intitolato Pitone in cui l’iniziatore dello scetticismo rispondeva a domande di vario genere, esponendo così la propria dottrina.

Egli compose anche un poema intitolato Le apparenze, un libro Sulle sensazioni ed uno scritto polemico Contro i fisici.

Tra le opere di carattere filosofico più note, e meglio documentate, redatte da Timone, vi sono i Silli, ovvero i “Versi Scherzosi”, un’opera satirica realizzata imitando lo stile omerico, in cui i filosofi megarici, stoici, epicurei ed accademici, venivano aspramente criticati.

La tesi di fondo sostenuta da Timone era la seguente: gli esponenti di quelle dottrine ingaggiano delle contrastanti ed inutili dispute, senza rendersi conto che ciascuno di essi adotta un approccio dogmatico tanto quanto quello degli altri.

I loro vaniloqui, più che a cogliere la verità, servono ad attrarre ed ingannare i giovani, per impossessarsi del loro denaro.

Questo atteggiamento volto a svalutare le dottrine filosofiche determinate, senza proporre delle alternative superiori rispetto a ciò che veniva ricusato, era tipico degli scettici. Di conseguenza, gli unici filosofi degni di rispetto erano coloro che professavano lo scetticismo.

Tra di essi vi era Pirrone di Elide che, per la sua grande sapienza, veniva addirittura assimilato da Timone ad una divinità: «O Pirrone, questo mio cuore desidera apprendere da te come mai tu, pur essendo uomo ancora, così facilmente conduci la vita tranquilla. Tu che solo sei guida agli uomini, simile a un dio».

Ciò che Timone desiderava apprendere dal suo maestro, era la ricetta per l’atarassia, cioè per la serenità.

La strategia ideata da Pirrone, e messa nero su bianco da Timone, è qui di seguito riportata: chi vuole essere felice deve cercare di comprendere qual è la natura delle cose, qual è l’atteggiamento da assumere rispetto ad esse e quali conseguenze risulteranno dall’adozione di questo atteggiamento.

Ebbene, Pirrone sostiene, per mezzo della penna di Timone, che tutte le cose appaiono ugualmente indifferenti, incerte ed indiscernibili, ed è proprio per questo che né le sensazioni, né le opinioni, possono essere considerate vere o false.

«Che il miele sia dolce» scrive Timone «mi rifiuto di affermarlo; ma che a me sembri dolce, lo posso garantire» perché «il fenomeno domina sempre, dovunque appaia».

Pertanto, il saggio non accorderà mai la sua fiducia né ai sensi né alle opinioni, e vivrà senza opinioni, senza inclinazioni, senza agitazione, ritenendo che ciascuna cosa è, non più di quanto non è; che è, e che non è; oppure che né è, né non è.

Infatti, una volta che si sia presa coscienza della discordanza dovuta alla difformità dell’apparenza prodotta dai sensi e dell’equipollenza delle argomentazioni, rispetto alle quali è sempre possibile opporre una contro-argomentazione, non resta altro da fare che proclamare l’ignoranza rispetto alla verità.

Ne consegue che l’atteggiamento da assumere nei confronti delle cose è di evitare di pronunciarsi e di rimanere completamente indifferenti.

Del resto, se ogni verità ultima non è che un dogma, e tutte le posizioni valgono, e non valgono, tanto quanto le altre, allora il saggio non definirà nulla, e non esprimerà opinioni, mantenendosi parimenti distaccato rispetto a ciascuna di esse.

Coloro che si troveranno in questa disposizione d'animo conseguiranno prima l'afasia e poi l’atarassia, e quindi raggiungeranno la felicità.

Sebbene Timone si sia soltanto limitato a riprodurre il pensiero del proprio maestro, forse accentuandone l’atteggiamento d'indifferenza nei confronti delle asserzioni che non si limitino all'apparenza soggettiva ed immediata, è molto probabile che senza il suo operato il patrimonio filosofico di Pirrone non si sarebbe diffuso, rischiando di disperdersi.  

Oltre ad avere preservato il sapere del suo maestro, un altro grande merito attribuibile a Timone è quello di essere riuscito a far penetrare l'atteggiamento scettico nell’Accademia di Platone, dando il via a dei risvolti storici di grande importanza, di cui riferiremo nei prossimi capitoli.

Tra i seguaci di questo rinnovato indirizzo filosofico, vi era il filosofo Arcesilao di Pitane, il quale, una volta succeduto a Cratete nella direzione della scuola fondata da Platone, decise di raccogliere la fiaccola dello scetticismo...

Arcesilao di Pitane

Arcesilao di Pitane (Pitane, 315 a.C. – Atene, 241/240 a.C.) fu un filosofo dell’antica Grecia noto per aver riformato l’atteggiamento dei membri dell’Accademia di Platone in senso scettico.

Le notizie sulla sua vita sono scarse. È noto che si trasferì ad Atene, forse agli inizi del III secolo avanti Cristo. 

In una prima fase della sua formazione si accostò alla scuola peripatetica, dove ebbe modo di ascoltare gli insegnamenti di Teofrasto, che, all’epoca dei fatti, era già succeduto ad Aristotele nella direzione del Peripato.

In una seconda fase, però, cominciò a frequentare l’Accademia di Platone, divenendo discepolo di Crantore e di Cratete di Atene.

Dopo aver completato la sua formazione, interessandosi anche della dialettica della scuola megarica e dello scetticismo di Pirrone, Arcesilao divenne scolarca, cioè capo reggente, dell’Accademia, subentrando a Cratete.

Diogene Laerzio lo descrive come un uomo buono, creativo ed intelligente, dotato di grandi capacità inventive e di persuasione, che con il suo modo di essere ispirava speranza nei suoi uditori:

«Era straordinariamente inventivo nell'affrontare felicemente le obiezioni, nel riportare il corso della discussione sul tema proposto e nell'adattarsi a ogni situazione.

Aveva un'impareggiabile forza di persuasione, perciò parecchi accorrevano a sentire le sue lezioni, benché temessero il suo spirito pungente. Ma sopportavano di buon grado le sue punzecchiature, perché era molto buono e riempiva di speranze i suoi uditori».

Fu anche grazie a queste caratteristiche che Arcesilao riuscì ad inaugurare una nuova fase nella scuola platonica, nota come Seconda Accademia, nella quale l’indirizzo di pensiero dei platonici si contaminò con le tesi scettiche di Pirrone di Elide e di Timone di Fliunte.

Si consideri che il filosofo scettico Sesto Empirico, nei suoi Schizzi Pirroniani, sostenne di non essere riuscito ad individuare differenze sostanziali tra le tesi di Arcesilao e quelle sostenute dagli scettici:

«Arcesilao […] pare a me che partecipi proprio dei ragionamenti pirroniani, tanto da essere unico l’indirizzo suo e il nostro. E invero, né si trova ch’egli si pronunci intorno all’esistenza né intorno alla non esistenza delle cose, né giudica preferibile, rispetto alla credibilità o non credibilità, una cosa a un’altra, ma in tutto sospende il suo giudizio».

Ad ulteriore prova di ciò, si consideri anche che Timone di Fliunte, vale a dire colui che più di tutti aveva sposato la causa dello scetticismo, pur non potendo evitare di apprezzare le posizioni di Arcesilao, non accettava di buon grado che quei dogmatici degli accademici invadessero il suo terreno filosofico.

Per comprendere come sia possibile che una scuola di pensiero che predicava la possibilità del raggiungimento delle verità, certe ed indubitabili, del mondo sovrasensibile, abbia potuto mutare così profondamente le proprie credenze, fino al punto di arrivare a sostenere l’impossibilità di una conoscenza certa, al di fuori di ogni possibile dubbio, bisogna ricordare che sia Socrate che Platone, con i loro dialoghi maieutici, avevano fatto ampio uso di confutazioni di tipo scettico.

Ma mentre per Socrate e Platone la dialettica rappresentava soltanto un mezzo per fare in modo che l’interlocutore ritrovasse la verità, per Arcesilao il mezzo si trasformò in un fine, e così l’atteggiamento scettico sostituì la verità come meta dell’indagine filosofica.

Si consideri, inoltre, che lo scetticismo di Platone riguardava soltanto il mondo sensibile, ma non la realtà sovrasensibile, nella quale, mediante la ragione, si può cogliere la verità.

Egli, infatti, aveva sostenuto che, sebbene intorno a ciò che riguarda i sensi si possano esprimere soltanto opinioni, indagando il mondo dell’essere si sarebbe ottenuta la vera conoscenza.

Pertanto, gli accademici, pur potendo individuare nella filosofia di Platone dei momenti dubitativi, non avrebbero potuto assumere delle posizioni di completo scetticismo senza tradire la propria filosofia originaria, mettendo in secondo piano questi aspetti di primaria importanza.

Ma in realtà è proprio ciò che avvenne sotto la direzione di Arcesilao, perché i filosofi dell’epoca non erano più tanto interessati alle speculazioni intorno al mondo dell’essere, quanto invece lo erano ai tempi di Platone.

Essi, infatti, vedevano nell’indagine filosofica un mezzo concreto per risolvere i problemi pratici della vita.

E così gli accademici finirono per trascurare tutta la parte positiva e costruttiva della filosofia di Platone, quella in cui si asseriva l’esistenza e la raggiungibilità delle verità sovrasensibili riposte nel mondo dell’essere, mentre la parte distruttiva e negativa, ovvero quella che svalutava i sensi e riduceva la conoscenza sensibile a mera opinione, assunse un’importanza centrale.

Per sostenere che né con i sensi, né con l’intelletto, fosse possibile ottenere una qualsiasi conoscenza certa, Arcesilao utilizzava un metodo dialettico che funzionava così:

in una prima fase, egli argomentava in favore di una certa tesi, in modo tale che il suo interlocutore si convincesse della validità di quanto Arcesilao andava sostenendo e quindi sposasse quella posizione;

ma non appena ciò avveniva, Arcesilao cominciava a contro-argomentare nei confronti della medesima tesi, fin quando l’interlocutore ricusava la posizione che poco prima aveva accettato!

In questo modo egli mostrava l’infondatezza di qualsiasi credenza, perché ad ogni presunta verità sostenuta mediate un’argomentazione, si poteva opporre un’altra presunta verità, parimenti sostenuta con un’altra argomentazione. 

Fu così che Arcesilao, partendo dal celebre «so di non sapere» socratico, fini per sostenere, così come aveva già fatto Metrodoro di Chio, che l’essere umano non può asserire con certezza neppure di sapere di non sapere!

La polemica scettica di Arcesilao era principalmente rivolta contro Zenone di Cizio, fondatore dello stoicismo nonché primo scolarca della Stoà. A quei tempi, infatti, gli stoici rappresentavano i più importanti rivali degli accademici.

Per confutare le dottrine degli stoici, riducendoli così al silenzio, Arcesilao mosse una pesante critica alla loro gnoseologia, vale a dire alla teoria della rappresentazione catalettica, che essi proclamavano come mezzo per cogliere la verità.

Gli stoici, così come gli epicurei, ponevano i sensi a fondamento della loro teoria della conoscenza, ma a differenza di quest’ultimi, essi ritenevano che per giungere alla verità bisognasse impiegare la ragione per esprimere un giudizio sulle rappresentazioni della realtà percepite sensorialmente.

Se la rappresentazione sensibile risultava chiara ed evidente, al di là di ogni dubbio, allora lo stoico poteva esprimere il proprio assenso rispetto ad essa.

In questo modo aveva luogo la catalessi, vale a dire l’atto della conoscenza con cui, stando all’opinione degli stoici, il pensiero è in grado di cogliere la realtà.

Ma lo stoico poteva anche sospendere il proprio assenso rispetto ad una rappresentazione, nel caso le evidenze sensibili non fossero risultate sufficienti per esprimere un giudizio conclusivo, o addirittura poteva negarlo, qualora i dati sensoriali avessero escluso in modo definitivo la verità.

Gli stoici, dunque, individuarono la fonte della conoscenza nella sinergia di un elemento passivo, dovuto all’azione dei sensi (che forniscono le rappresentazioni della realtà) e di un elemento attivo, dovuto all’azione della ragione (che ha il compito di valutare le rappresentazioni al fine di concedere, sospendere o negare l’assenso, a seconda dei casi). E sostennero anche che mediante la catalessi l’essere umano potesse comprendere le cose.

Dal canto suo, Arcesilao fece notare agli stoici che se l’apprensione, ovvero la facoltà di conoscere, viene ridotta all’assenso nei confronti della rappresentazione catalettica, allora non vi può essere alcuna conoscenza certa: in primo luogo, perché l’assenso, cioè l’approvazione volontaria esercitata mediante la ragione, non viene dato rispetto alla realtà ma ad una sua rappresentazione; ed in secondo luogo, perché non esiste alcuna rappresentazione che sia oggettivamente vera, oltre ogni dubbio, e quindi non possa in qualche modo esser falsificata.

L’essere umano, infatti, ha spesso rappresentazioni di cose e qualità che non esistono, o che sono diverse da ciò che appaiono. Si consideri, ad esempio, il classico esempio della matita immersa in un bicchiere d’acqua, che, pur essendo intera, appare spezzata.

Pertanto, non si può mai escludere il caso in cui si stia dando il nostro assenso a qualcosa che può esser anche falso.

Ciò significa, secondo Arcesilao, che la dottrina della catalessi stoica non è in grado di fornire certezza e verità, ma soltanto mera opinione.

Di conseguenza lo stoico, se vorrà essere onesto, dovrà accontentarsi soltanto di ottenere delle opinioni, oppure, se ciò per lui fosse inaccettabile e vorrà esser saggio, invece di essere catalettico, dovrà assumere un atteggiamento a-catalettico, ovvero dovrà limitarsi a sospendere il proprio assenso in ogni situazione.

Infatti, come testimoniato da Sesto Empirico nel suo scritto intitolato Contro i matematici: «Poiché tutte le cose sono inapprensibili, per il motivo che non esiste il criterio stoico, allora, se il saggio darà il suo assenso, avrà mera opinione: infatti, poiché non c’è nulla di apprensibile, se il saggio darà l’assenso a qualcosa, lo darà a ciò che è inapprensibile, e l’assenso a ciò che è inapprensibile è appunto l’opinione.

Di conseguenza, se il saggio è uno di coloro che dà l’assenso, il saggio è uno di coloro che hanno semplice opinione. Ma il saggio non è uno che ha semplici opinioni (infatti per gli Stoici l’opinione è insipienza e causa di errori); dunque il saggio non è uno di coloro che danno l’assenso.

Ma se è così, il saggio dovrà astenersi dal dare l’assenso su tutte le cose. Ma astenersi dal dare l’assenso non è altro che sospendere il giudizio: dunque il saggio sospenderà il giudizio su tutte le cose».

Ciò significa che Arcesilao estese l’epoché, che gli stoici raccomandavano soltanto nei casi in cui le evidenze risultavano insufficienti, ad ogni situazione. E lo fece in forza della convinzione che non possa esistere alcuna evidenza oggettiva, definitiva ed inoppugnabile.

La sospensione del giudizio, dunque, con Arcesilao divenne il fine dell’indagine filosofica degli scettici.

Gli stoici replicarono a questa confutazione osservando che una sospensione così radicale dell’assenso avrebbe comportato l’impossibilità di risolvere il problema pratico della vita, impedendo di formulare una morale le cui scelte, operate in base alla conoscenza del vero, fossero in grado di condurre l’essere umano alla felicità.

Del resto, se un individuo può avere soltanto opinioni, allora la sua vita sarà permeata da una completa incertezza.

Di conseguenza, una totale sospensione del giudizio avrebbe portato alla paralisi dell’azione e ad una esistenza lontana dalla virtù, perché l’ottenimento della conoscenza è una premessa indispensabile se si vuole agire rettamente.

Arcesilao non si fece affatto intimorire dalle repliche degli stoici; egli, infatti, non solo mostrò come l’azione morale fosse possibile anche in assenza di verità e certezza, ma lo fece utilizzando gli stessi argomenti dei suoi oppositori!

Per comprendere come ciò sia possibile, bisogna ricordare che gli stoici, per render conto delle azioni compiute dall’uomo comune, avevano introdotto il concetto di “dovere”, contrapponendolo alle azioni perfette e virtuose del saggio.

Mentre il saggio è guidato dalla ragione e dalla verità, l’uomo comune giustifica il proprio agire sulla base della ragionevolezza.

Fu così che Arcesilao introdusse il suo celebre argomento dell’eulogon (da “eu”, bene e “logos”, ragione), basando la condotta morale sulla ragionevolezza.

Il fatto stesso che i doveri possano essere messi in atto da ogni essere umano, anche senza il bisogno delle rappresentazioni catalettiche, rappresenta la dimostrazione della possibilità dell’azione morale anche in assenza della verità e della certezza.

Pertanto, siccome ogni individuo, perfino il saggio, non può che esprimere opinioni, la pretesa stoica dell’individuazione di una morale perfetta si rivela assurda ed infondata.

Secondo Arcesilao, il criterio da adottare per scegliere, od evitare, cosa fare, non è riposto nella verità, la quale è preclusa all’essere umano, ma nel buon senso, grazie al quale si sarebbe potuto comunque vivere con saggezza.

A suo avviso, il criterio della ragionevolezza è addirittura sufficiente per compiere azioni rette; infatti, di norma, chi agisce sulla base del buon senso è felice, ma la felicità non può darsi senza la saggezza.

Quindi, ciò che viene compiuto con ragionevolezza è saggio e può essere considerato a tutti gli effetti come un’azione retta.

Ciò dimostra che l’azione morale per lo scettico è possibile e fornisce una sorta di criterio soggettivo per determinare la condotta di vita individuale in vista della felicità.

Anche le tesi sostenute da Arcesilao in merito alla morale sono note grazie alla testimonianza di Sesto Empirico che, nelle sue opere, spiega i concetti precedentemente esposti con le seguenti parole:

«Arcesilao dice che il fine è la sospensione del giudizio […]; e, inoltre, che beni sono le singolari sospensioni del giudizio, mali le singolari affermazioni» (Sesto Empirico, Schizzi pirroniani, I, 232 ss.).

E ancora: «Ma poiché dopo ciò bisogna anche occuparsi di ciò che concerne la condotta della vita, la quale non si può dare senza un criterio di verità, dal quale anche la felicità, ossia il fine della vita, trae la propria credibilità, Arcesilao afferma che chi sospende il suo assenso su tutto regolerà le sue scelte e i suoi rifiuti e in generale le sue azioni col criterio del ragionevole o plausibile;

e procedendo secondo questo criterio compirà azioni rette: infatti la felicità si raggiunge mediante saggezza, e la saggezza sta nelle azioni rette, e l’azione retta è quella che, una volta compiuta, ha una giustificazione ragionevole o plausibile. Dunque, chi si attiene al plausibile agirà rettamente e sarà felice» (Sesto Empirico, Contro i matematici, VII, 158).

A questo punto della trattazione non si può evitare di sottolineare lo scarto che corre tra lo scetticismo di Pirrone e quello di Arcesilao: per Pirrone lo scopo principale dello scetticismo consiste nel trovare un modo per condurre un’esistenza felice; per Arcesilao l’obiettivo primario consiste nel confutare le posizioni degli stoici.

E non è un caso se lo scetticismo della Seconda Accademia s’impoverì dialetticamente rispetto alla formulazione di Pirrone, il quale, per riuscire a prescrivere la sua ricetta per la serenità, mescolando l’afasia con l’atarassia, dovette passare in rassegna tutte le visioni filosofiche della sua epoca.

Del resto, se si considera che già Pirrone aveva sostenuto la tesi dell’astensione dal giudizio, ripresa ed applicata da Arcesilao alla teoria della conoscenza degli stoici, ben si comprende come quest’ultimo non sia stato poi così originale nell’elaborazione del proprio pensiero.

Si consideri, inoltre, che se la soluzione al problema della vita proposta da Pirrone poteva essere considerata da alcuni come bizzarra e/o insoddisfacente, quella avanzata da Arcesilao, con la sua estrema semplificazione, lo era ancor di più.

Forse anche per questo si dice che alcuni arrivarono ad accusare Arcesilao di slealtà e doppiezza di pensiero, dovuti ad un dogmatismo esoterico, in relazione alle dottrine originarie di Platone professate soltanto tra gli adepti più intimi dell’Accademia, e di uno scetticismo essoterico, rivolto per convenienza agli uditori esterni.

È possibile che ciò avvenne per proteggere le verità più autentiche tramandate nell’Accademia dagli attacchi dovuti al mutato contesto sociale, ma l’incertezza delle fonti a tal riguardo suggerisce che il doppiogiochismo di Arcesilao sia un’invenzione priva d’un reale fondamento.

Comunque sia, gli accademici seguirono l’indirizzo scettico proposto da Arcesilao per non più di qualche decade.

In questo lasso di tempo, il ruolo di scolarca fu assunto da altri pensatori, di cui però non abbiamo notizie, fin quando un certo Carneade di Cirene divenne a sua volta direttore della scuola fondata da Platone e, grazie al suo notevole ingegno, diede un nuovo impulso all’Accademia.

Carneade di Cirene

Carneade di Cirene (Cirene, 214 a.C. – Atene, 129 a.C.) fu uno di quei pensatori dell’antica Grecia che contribuirono a far sì che i membri dell’Accademia di Platone seguissero la dottrina dello scetticismo.

Il suo nome, a causa della battuta pronunciata da Don Abbondio nei Promessi Sposi: «Carneade! Chi era costui?», viene utilizzato per indicare una persona ignota per antonomasia.

In realtà, Carneade fu il più famoso esponente dello scetticismo accademico e può essere annoverato tra i più importanti filosofi del suo tempo. Egli è considerato il fondatore della Terza Accademia, di cui divenne scolarca nel 167/166 a.C. circa.

Carneade aveva una cultura storico-filosofica invidiabile, combinata ad un notevole ingegno, che si traducevano in un’eccezionale capacità dialettica ed in una non meno elevata abilità retorica.

Si dice che la sua passione nei confronti dell’oratoria fosse così profonda da fargli ignorare perfino la fame, tanto era grande la concentrazione che egli riusciva a raggiungere quando componeva i suoi discorsi.

Così come Pirrone, anche Carneade non si preoccupò di mettere per iscritto la propria dottrina, affidandosi completamente per il suo insegnamento alla forza della parola.

La sua filosofia gli sopravvisse per merito dei suoi scolari, tra cui ricordiamo Clitomaco di Cartagine e Zenone di Alessandria, che appuntarono i suoi discorsi, avendoli uditi di persona, ma le dottrine di Carneade furono riprese e discusse anche da Cicerone e Sesto Empirico.

Lo spessore filosofico e sociale di Carneade è testimoniato dal fatto che egli fu uno dei tre ambasciatori inviati a Roma dagli Ateniesi, che erano stati multati per aver saccheggiato la cittadina di Oropo.

Durante il suo soggiorno romano, Carneade tenne due discorsi, in due momenti differenti, che risultarono l’uno in contraddizione con l’altro: il primo giorno, infatti, egli lodò la giustizia, sostenendo che essa è posta alla base della civiltà; il secondo giorno, invece, dimostrò che la giustizia varia al passare del tempo, differisce a seconda dei popoli e spesso ciò che è saggio è in contrasto con ciò che è giusto.

Per provare quest’ultima tesi Carneade citò il comportamento del popolo romano, la cui grandezza era stata ottenuta strappando agli altri il possesso delle cose, per impadronirsene così da poterle impiegare a proprio vantaggio.

«Se i Romani volessero essere giusti» osservò Carneade «dovrebbero restituire agli altri i loro possessi e tornarsene a casa in miseria; ma in tal caso sarebbero stolti».

Con questo discorso Carneade centrò due obiettivi: da un lato mise in evidenza come, talvolta, giustizia e saggezza siano incompatibili e dall’altro scandalizzò gli ambienti della cultura conservatrice dell’antica Roma.

Questa dialettica dualistica volta a sostenere, con parità di forza persuasiva, sia la tesi che l’antitesi in relazione al medesimo argomento, rappresentava una metodica molto apprezzata dagli scettici.

In particolare, Carneade utilizzava le proprie abilità dialettiche per tentare di confutare l’avversario riprendendo le sue stesse proposizioni; inoltre, avvalendosi della sua grande cultura, era solito elencare tutte le tesi che erano state storicamente sostenute in relazione ad una certa cosa, al fine di mostrare come esse si screditassero reciprocamente, rendendo così impossibile giungere ad una verità comune.

Nell’ambito dell’etica Carneade fornì degli ottimi argomenti a supporto della relatività dei costumi, mentre, per quanto riguarda la giustizia, contestò l’esistenza di un diritto naturale, ritenne che le nozioni di giusto e sbagliato mutino da comunità a comunità ed, al trascorrere del tempo, non restino costanti neppure nella medesima città; infine sostenne che il fondamento del diritto sia da individuare esclusivamente nell’esercizio della forza.

Ma il principale obiettivo polemico di Carneade erano le dottrine fondamentali degli stoici, volendosi opporre, in modo particolare, alla figura di Crisippo.

A tal fine egli mosse una critica radicale ad ogni settore in cui all’epoca veniva ripartita la filosofia, vale a dire la logica (o teoria della conoscenza), la fisica e l'etica; in ogni caso l’obiettivo consisteva nel dimostrare la fallibilità sia dei sensi che della ragione.

Secondo Carneade il destino, la provvidenza e la divinazione, professati dagli stoici, erano smentiti dall’esistenza del caso e dell’umana libertà, che facevano cadere il concetto di necessità.

Del resto, persino tra i filosofi dogmatici vi era un disaccordo insanabile rispetto all’esistenza della provvidenza, e ciò, a suo avviso, rappresentava un’ulteriore conferma del fatto che non si potesse sposare con certezza né l’una né l’altra posizione.

Che alcune predizioni si realizzino, dimostrandosi vere, non può essere utilizzato come un argomento in favore del determinismo, perché ciò che accade nel futuro non è un effetto delle proposizioni vere che lo riguardano.

Per ribattere a questo genere di posizioni fatalistiche, Carneade introdusse la distinzione tra causa antecedente e causa efficace.

Questi concetti furono impiegati per mettere in luce come tutte le cause efficaci siano anche antecedenti, mentre invece non è detto che una causa antecedente sia anche efficace.

Ad esempio, se qualcuno avesse pronunciato la seguente proposizione: «Socrate verrà condannato a morte e si suiciderà bevendo la cicuta», e lo avesse fatto prima dell’inizio del processo, egli avrebbe senz’altro detto il vero, ma non per questo sarebbe autorizzato a sostenere che la causa efficace, ovvero ciò che ha prodotto effettivamente la condanna, possa individuarsi in quella frase.

In ambito logico, Carneade sostenne che le antinomie dei megarici, in particolar modo quella del mentitore, provassero di per sé l’impossibilità di discernere il vero dal falso mediante la dialettica.

Inoltre, a suo avviso, nessuna rappresentazione sensibile è in grado di garantire l’accordo con i fatti; ciò può essere compreso riflettendo sui sogni, sulle allucinazioni o sull’impossibilità di distinguere, con certezza, una coppia di cose, animali o persone, molto simili tra loro.

In tutti questi casi, infatti, può anche darsi che le rappresentazioni siano vere, ma l’essere umano non sarebbe comunque in grado di sincerarsi che vi sia un perfetto accordo tra rappresentazione e realtà.

Ma se né i sensi, né la ragione, sono in grado di cogliere la verità, allora anche il criterio stoico della rappresentazione catalettica risulta fallace.

Quello di Carneade, dunque, era uno scetticismo radicale.

La tesi centrale mossa non solo contro gli stoici, ma in opposizione a tutte le scuole filosofiche, era la seguente: non esiste in assoluto alcun criterio di verità;

non il pensiero, non la sensazione, non la rappresentazione, né alcun altro metodo derivante da una loro combinazione, perché, in un modo o nell’altro, tutte queste cose traggono in errore.

Si veniva così a creare, ancora una volta, un problema pratico dovuto all’incertezza esistenziale causata dall’impossibilità di comprendere la realtà delle cose.

Per risolvere il problema dell’azione morale, pur in assenza d’un criterio che permetta di cogliere la verità, evitando così la paralisi dell’azione, Carneade riprese e chiarificò la soluzione proposta da Arcesilao, sostituendo la dottrina del “buon senso” con quella del “probabile” (pithanon) o meglio, volendo usare una traduzione più attinente al significato originario del termine, della “persuasione”.

Se da un lato il rapporto tra una rappresentazione ed un oggetto è effettivamente oggettivo, nel senso che tale rapporto può essere o vero o falso, dall’altro si deve ammettere che il rapporto tra una rappresentazione ed un soggetto è soggettiva, perché tale rapporto è inerente al soggetto che matura tale rappresentazione.

Pertanto, in quest’ultimo caso, il rapporto tra la propria personale e soggettiva rappresentazione ed un oggetto, non risulta o vero o falso, bensì “appare” come tale.

E siccome l’essere umano non è in grado di dire quale rappresentazione sia vera, non resta altro da fare che limitarsi a stabilire ciò che, secondo la personale opinione di ciascuno, appare vero.

Questa tipologia di rappresentazione è detta da Carneade plausibile, o persuasiva (pitanon), e definisce, non ciò che è vero, ma ciò che appare come probabile.

Quando una rappresentazione persuasiva non viene contraddetta da altre rappresentazioni dello stesso genere, essa si avvalora acquisendo una credibilità sempre più elevata, a mano a mano che si individuano altre rappresentazioni che le sono in qualche modo connesse senza però confutarla.

Così facendo si ottiene una rappresentazione persuasiva non contraddetta, rispetto alla quale si può riporre una maggiore fiducia.

Il massimo grado di probabilità, ovvero il più elevato livello di forza persuasiva, lo si ottiene quando una rappresentazione persuasiva, non contraddetta, resta tale anche dopo essere stata esaminata da ogni punto di vista, ovvero quando essa viene sottoposta, e riesce a superare indenne, un esame metodico e completo di tutte le possibili rappresentazioni ad essa connesse.

Così facendo Carneade, pur rifiutando un criterio oggettivo di verità, introdusse un metodo soggettivo riguardante la credibilità.

Infatti, la rappresentazione dovuta all’esperienza, il non essere contraddetti, la concomitanza di altre rappresentazioni a supporto di una certa posizione ed, infine, un esame attento e completo, delineano una sorta di criterio crescente per stabilire il grado di persuasione di una rappresentazione.

Non a caso, in relazione a questa dottrina, alcuni hanno parlato di “probabilismo carneadeo”, secondo cui una rappresentazione appare tanto più “probabile”, quanto meno viene contraddetta e quanto più risulta avvalorata da altre rappresentazioni.

In estrema sintesi, se dal un lato Carneade sostiene che non si possa conoscere la realtà, dall’altro concede che si possano tracciare dei gradi di plausibilità soggettivi, stimando la forza di persuasione delle rappresentazioni individuali.

Pertanto, il filosofo scettico potrà adottare questo criterio per regolare la propria condotta morale. E tanto più sarà saggio, quanto più riuscirà ad individuare rappresentazioni persuasive, che gli consentiranno di vivere nel migliore dei modi possibili.

Neppure gli stoici possono sfuggire alla dottrina del probabile. Secondo Carneade, infatti, siccome non esiste alcun criterio assoluto di verità, e quindi in particolare anche la rappresentazione catalettica ideata dagli stoici risulta fallace, tutto è a-catalettico, cioè inconoscibile.

Di conseguenza, sebbene da un punto di vista teorico sarebbe corretto limitarsi all’epoché, ovvero alla sospensione dell’assenso e del giudizio, da un punto di vista pragmatico l’essere umano per vivere è costretto a dare il proprio assenso a ciò che lo persuade apparendogli “vero”, pur essendo condannato all’ignoranza nei confronti della verità.

Del resto, per quanto questo modo di agire non permetta di cogliere la realtà ultima delle cose e produca soltanto delle mere opinioni, esso è l’unico criterio d’azione a disposizione dell’essere umano.

Dopo esser stata retta da Carneade, l’Accademia vide come scolarchi un suo parente omonimo ed un paio di filosofi minori, che non apportarono innovazioni filosofiche degne di rilievo.

Ma ormai lo scetticismo cominciava ad esibire i suoi limiti e la morale probabilistica di Carneade non risultava più così soddisfacente.

Il compito di sottoporre a dura critica la filosofia di Carneade, riuscendo a far abbandonare l’atteggiamento scettico agli accademici, fu svolto prima da Filone di Larissa e poi, in modo ancor più risoluto, da uno dei suoi allievi: Antioco di Ascalona, l’ultimo scolarca dell’Accademia.

Filone di Larissa

Filone di Larissa (Larissa, 159/158 a.C. – Roma, 84/83 a.C.) fu un pensatore scettico che impresse all’Accademia un indirizzo filosofico più moderato rispetto a quello di Carneade.

Recatosi ad Atene, cominciò a frequentare l’Accademia nel periodo in cui la scuola era diretta da Clitomaco di Cartagine, divenendo suo allievo. Alla morte di quest’ultimo, avvenuta verso il 110 a.C., Filone lo sostituì, assumendo la carica di scolarca.

Durante la guerra mitridatica, nel corso della quale l’Accademia venne fisicamente distrutta, Filone si rifugiò a Roma, senza per questo abbandonare l’insegnamento della filosofia: fu così che egli diede vita alla Quarta Accademia.

Il suo intento era di ricucire lo strappo che si era formato rispetto all’antico dogmatismo platonico.

A tal fine, Filone interpretò la dottrina del buon senso di Arcesilao e quella della persuasione di Carneade, come delle posizioni che avevano valore in relazione al tentativo di confutare il criterio di verità stoico: la rappresentazione catalettica; per questo motivo gli accademici sposarono quelle tesi, ma lo fecero senza mai discostarsi nella sostanza dalle dottrine di Platone.

Dopo un periodo di piena fedeltà alle dottrine dello scetticismo, in questa nuova fase, Filone cercò, da un lato, di attenuare le tesi negative rispetto al concetto di verità, che erano state portate da Carneade fino alle estreme conseguenze e, dall’altro, di accentuare le conclusioni probabilistiche sostenute da quest’ultimo.

Se gli Stoici avevano sostenuto che la verità esiste e può essere colta attraverso un criterio, e a queste tesi Carneade aveva risposto negando sia l’esistenza di una verità oggettiva che di un qualsiasi metodo per conoscerla, Filone procedette riabilitando il concetto di verità, pur continuando a negare l’esistenza di un metodo per ottenere la conoscenza, ribadendo così la necessità di doversi affidare ad un criterio veritativo di tipo probabilistico che permetta di avvicinarsi alla verità, senza mai raggiungerla.

Inaspettatamente le sue lezioni riscossero un grande successo nel nuovo ambiente romano e ben presto Filone riuscì a radunare attorno a sé numerosi allievi.

Tra di essi vi erano Marco Tullio Cicerone, che lo ammirò a tal punto da autoproclamarsi come un continuatore della sua filosofia, e Antioco di Ascalona, che invece rimase talmente scandalizzato dal rinnovato pensiero di Filone da fondare una nuova scuola, che si allontanò definitivamente dallo scetticismo: la cosiddetta Quinta Accademia.

In verità, lo spunto che spinse Filone ad ammorbidire lo scetticismo di Carneade, gli venne proprio da un’obiezione elaborata dallo stesso Antioco.

Carneade aveva sostenuto che:

1) esistono rappresentazioni false che, in quanto tali, non possono dar luogo ad alcuna certezza;

2) non ci sono rappresentazioni vere che possono essere riconosciute come tali per un loro carattere specifico, distinguendole, senza alcuna possibilità d’equivoco, da quelle false, e quindi, di conseguenza, non c’è modo di discernere tra rappresentazioni certe e incerte. 

Antioco osservò che queste due affermazioni sono reciprocamente incompatibili, nel senso che non appena si ammette una di esse, immediatamente l’altra cade, giacché l’una sostiene il contrario dell’altra!

Infatti, se si ammette che esistono rappresentazioni false, allora non si può affermare l’impossibilità di discernere tra ciò che è certo e ciò che non lo è, mentre se si sostiene che le rappresentazioni vere sono indistinguibili da quelle false, non si capisce come si possa affermare con certezza l’esistenza di queste ultime.

La soluzione ideata da Filone, per liberarsi da questo impasse, fu di riabilitare il concetto di verità e di ammettere la distinzione tra vero e falso.

Tuttavia egli continuò a sostenere che l’essere umano non dispone di un criterio che sia in grado di condurlo alla certezza, e quindi ciascun individuo debba, per forza di cose, cercare di orientarsi nelle apparenze, tentando di avvicinarsi al vero mediante il probabile.

Come ci riferisce Sesto Empirico, in un celebre passo dei suoi Schizzi pirroniani: «Filone afferma che, quanto al criterio stoico, cioè alla rappresentazione catalettica, le cose sono incomprensibili; ma quanto alla natura delle cose stesse, sono comprensibili».

Posto che il criterio di verità elaborato dagli stoici non regge, la precedente citazione può essere interpretata in due modi:

1) siccome la rappresentazione catalettica, combinando i sensi con la ragione, è il criterio più elevato tra quelli concepibili, allora, vista la sua inefficacia nello stabilire il vero, si deve concludere che nessun altro criterio sarà in grado di cogliere la verità. Ciò però non significa che le cose sia intrinsecamene incomprensibili, ma soltanto che noi, in quanto esseri umani, non siamo in grado di comprenderle nella loro essenza.

2) nonostante il criterio stoico della rappresentazione catalettica sia inefficace, non si può escludere che esista un altro criterio in grado di condurre l’essere umano alla verità, giacché le cose, in quanto alla loro natura, sono comprensibili e quindi, ad esempio, la verità potrebbe risultare intelligibile, ovvero potrebbe essere colta con la pura ragione.

In ogni caso, qualunque sia stato il vero pensiero di Filone, introducendo questa novità, egli si pose al di fuori dello scetticismo: uno scettico, infatti, se è davvero tale, non può sostenere in modo dogmatico che la verità esiste, anche se noi non la conosciamo, e ancor meno può sostenere che la verità potrebbe essere conosciuta individuando un metodo che, ad oggi, risulta ignoto! 

Con la riabilitazione della verità, effettuata da Filone, la dottrina della persuasione di Carneade assunse un nuovo significato.

Egli, infatti, comprese che ciò che è considerato probabile assume un senso proprio, soltanto se si ammette una verità oggettiva come pietra di paragone.

In questo modo il probabile può svolgere il ruolo della verità, perché tanto più una rappresentazione si accosta al vero, quanto più si avvalora.

Così facendo la dottrina della persuasione si trasforma, a tutti gli effetti, in un criterio veritativo da porre a fondamento dell’azione morale degli individui.

Il nuovo approccio adottato rispetto alla teoria della conoscenza si ripercosse anche sulla visione etica di Filone, portandolo a concepire una morale ben distante dalle posizioni di Arcesilao e Carneade.

Egli paragonava l’attività del filosofo morale a quella di un medico. I compiti di cui questa sorta di maestro spirituale dell’umanità ha il dovere di occuparsi sono i seguenti:

1) così come il medico che, in primo luogo, deve convincere il malato ad accettare il rimedio proposto, anche il filosofo deve convincere gli esseri umani ad abbracciare la filosofia.

2) In secondo luogo, il medico deve confutare eventuali errate convinzioni ingenerate nei malati da cattivi consigli; parimenti, anche il filosofo deve liberare le menti dalle false dottrine e dalle errate opinioni.

3) Quindi il medico illustra le cause delle malattie, mentre il filosofo indica le cause dei mali morali e in che cosa consiste il sommo bene.

4) Se da un lato il medico ha come scopo finale la guarigione e la salute del paziente, dall’altro il filosofo ha come fine ultimo l’umana felicità.

5) Se il medico tende a conservare la salute, il filosofo deve prescrivere dei precetti per mantenere la condizione di felicità.

Ma per Filone il filosofo aveva un ultimo compito: quello di divulgare la filosofia, rendendola accessibile anche alle masse.


Se l’etica degli Stoici era principalmente rivolta al saggio, quella di Filone si preoccupava anche dell’uomo comune.


Antioco di Ascalona

Antioco di Ascalona (Ascalona, 120 a.C. – Siria, 67 a.C.) fu un filosofo greco antico, di origine siriana, noto per aver ricondotto l’Accademia al suo spirito originario, ponendo fine al periodo in cui i membri della scuola di Platone tradirono le loro origini accostandosi allo scetticismo.

Recatosi ad Atene, Antioco divenne un seguace dell’accademico Filone di Larissa e, almeno in una prima fase, ne condivise le posizioni filosofiche.

Successivamente, però, egli cominciò a polemizzare contro gli elementi scettici presenti nella dottrina del suo maestro, fino al punto da abbandonare completamente quell’indirizzo filosofico.

Ad onor del vero, bisogna dire che Antioco cominciò a dissociarsi dalle posizioni di Carneade ancor prima di Filone, tant’è che furono proprio le critiche mosse dall’allievo a spingere il maestro ad ammorbidire il suo scetticismo, inducendolo a riabilitare la verità.

Ma secondo Antioco, nel far ciò Filone mancò di coraggio: a suo avviso era ormai chiaro che lo scetticismo, nel tentativo di affermarsi, aveva finito per esibire i suoi limiti.

Se messo alle strette, lo scettico era costretto a riaffermare ciò che fino ad allora aveva tentato di negare.

Carneade infatti aveva sostenuto, al contempo, la falsità di alcune rappresentazioni e l’inesistenza di una qualità propria che contraddistingua una rappresentazione vera da una falsa.

Ma se si ammette che esistono rappresentazioni false, allora non si può sostenere che non esista una connotazione specifica che consente di distinguere le rappresentazione false da quelle vere, perché altrimenti si cadrebbe in contraddizione. Mentre se si afferma che non esistono rappresentazioni false, allora non è vero che i sensi ci traggono in inganno!

Peggio ancora, se si ammette l’esistenza di una connotazione grazie alla quale è possibile capire quali rappresentazioni sono false e quali vere, allora non si può sostenere che non esiste un criterio di verità.

Era quindi giunto il tempo di portare a compimento l’opera di restaurazione dell’antico spirito dell’Accademia.

Mentre Filone si era limitato a reintrodurre il concetto di verità oggettiva, senza però avere il coraggio di sostenere che essa sia anche conoscibile, Antioco decise di riaffermare che non solo la verità esiste, ma che essa è alla portata dell’essere umano.

Così facendo Antioco si pose definitivamente al di fuori dello scetticismo e nel farlo tentò di trascinare con sé anche gli accademici: per questo motivo egli viene considerato il fondatore della Quinta (ed ultima) Accademia, di cui divenne scolarca.

Le argomentazioni portate a supporto di simili tesi furono numerose e da esse traspare il grande impegno che fu richiesto ad Antioco per riuscire a convincere gli accademici a ritornare sulla retta via.

Secondo Antioco sia la verità, che un criterio gnoseologico da impiegare per comprenderla, rappresentano due aspetti irrinunciabili per l’esistenza umana, in particolar modo in vista del concepimento di una dottrina che individui il sommo bene e suggerisca come raggiungerlo.

Pertanto, qualunque filosofo che voglia dire qualcosa di utile e significativo all’umanità non può prescindere da essi.

Negando il valore delle rappresentazioni, lo scettico non si rende conto che sta gettando in mare ciò su cui si fonda l’umana esistenza; senza di esse, infatti, cadrebbero immediatamente sia la memoria che l’esperienza, che a loro volta porterebbero nell’abisso ogni sorta di arte.

Se si nega il valore di ogni criterio di verità, allora diviene impossibile stabilire che cosa sia il bene e, di conseguenza, non si può neppure definire con rigore che cosa sia la virtù; tutto ciò si traduce nell’impossibilità dell’elaborazione di una scienza morale.

Inoltre, se non v’è certezza in relazione ai compiti da svolgere in vista del fine della vita, che a sua volta a causa dell’atteggiamento scettico risulta sconosciuto, allora perfino l’impegno morale perde di valore e non può essere in alcun modo giustificato.



La radicale e completa sospensione dell’assenso professata degli scettici, ancor prima d’essere assurda, è impossibile; senza l’assenso, infatti, non esisterebbero né la memoria, né l’esperienza, ma senza di esse non vi sarebbe apprendimento e di conseguenza si giungerebbe alla paralisi dell’azione.


Inoltre, in certi casi, è la stessa evidenza delle rappresentazioni che porta con sé un assenso implicito, automatico ed immediato.

Sostenere che i sensi c’ingannano sempre è falso: se gli organi di senso non sono offuscati o danneggiati, ad esempio da una malattia, e le condizioni esterne sono adeguate, essi producono una rappresentazione fedele della realtà.

Ciò che avviene nello stato di sogno, nelle allucinazioni o quando si è ammalati, non può essere considerato come un valido argomento a supporto dell’illusorietà dei sensi; infatti, quando ci si ritrova in quel genere di stati, la coscienza risulta alterata ed ha ben poco in comune con ciò che accade nel corso di un sano, lucido e vigile stato di veglia. Pertanto la validità delle rappresentazioni prodotte nel primo caso, non può essere comparata con quelle prodotte nel secondo.

Neppure la validità dell’approccio teoretico, basato su definizioni, concetti, argomentazioni e dimostrazioni, può esser negata; a riprova di ciò, si pensi ancora una volta a tutte le arti la cui efficacia comprovata dipende proprio dall’impiego di un simile metodo (si pensi ad esempio alla geometria).

Perfino gli stessi ragionamenti degli scettici, si può dire che abbiano senso e valore, soltanto a condizione che si ammetta la validità dell’approccio basato su concetti e argomentazioni.

Ed infine, Antioco fece notare a Filone come sostenere che si possa impiegare la dottrina del probabile, senza ammettere di conoscere quale sia la verità, sia un’assurdità; infatti, se non si è in grado di discernere con precisione il vero non si può neanche individuare che cosa sia il probabile, giacché per stabilire quanto una cosa sia vicina al vero, prima di tutto occorre sapere quale sia la verità.

Pertanto non c’è alcun bisogno di appellarsi alla probabilità e di rassegnarsi alla rinuncia della certezza, come invece il suo maestro riteneva, a torto, che si dovesse necessariamente fare.

La dissoluzione dello scetticismo creò un vuoto che Antioco tentò di colmare cercando di restaurare l’antico sapere dell’Accademia.

Ma nonostante la sua grande aspirazione, egli non fu in grado di essere tanto acuto quanto invece lo fu nel criticare gli scettici.

Nella Quinta Accademia non tornarono in auge le dottrine di Platone, ma si assistette alla nascita di una dottrina eclettica, ottenuta da una mescolanza mal riuscita di tesi preesistenti, tra le quali le posizioni stoiche avevano il maggior peso.

Basti sapere che la teoria della conoscenza di Platone, e con essa anche la sua dottrina delle idee, furono respinte da Antioco.

Egli era convinto che il platonismo e l’aristotelismo fossero la medesima filosofia espressa con termini diversi, ed aggiunse che perfino la differenza tra queste due visioni e quella proposta dagli stoici, fosse soltanto formale ma non sostanziale. 

A suo avviso, le innegabili novità attribuite allo stoicismo non erano nulla di più che un approfondimento rispetto ai temi di cui Platone si era già occupato.

Cicerone, che nell'inverno fra il 79 a.C. e il 78 a.C. fu allievo di Antioco, arrivò a sostenere che, sebbene il suo maestro venisse chiamato Accademico, al netto di alcune piccole variazioni nel pensiero, egli, in realtà, era uno Stoico.

In effetti, la logica e la fisica di Antioco erano di chiara derivazione stoica, così come l’etica, sebbene da questo punto di vista egli aveva qualcosa da puntualizzare.

A suo avviso, infatti, la virtù stoica era in grado di produrre una vita beata, ma non assicurava la più beata delle esistenze.

L’essere umano deve sì vivere in conformità alla propria natura, cioè secondo ragione; ed è senz’altro vero che in ciò risiede la virtù e che essa possa identificarsi con il sommo bene.

Ma non bisogna commettere l’errore di sottovalutare il corpo, giacché nella giusta misura anche i beni materiali concorrono alla realizzazione della perfetta felicità.

Dunque secondo Antioco la virtù stoica, di per sé, non era sufficiente e la pretesa impassibilità del saggio andava stemperata.

Abbandonato dagli accademici, lo scetticismo fu ripreso da alcuni pensatori che si rifecero a Pirrone e portarono nuova linfa a questo indirizzo, rivitalizzandolo.

Tra di essi i più importanti furono Enesidemo di Cnosso, Agrippa e Sesto Empirico, di cui ci occuperemo nei prossimi capitoli.

Enesidemo di Cnosso

Enesidemo di Cnosso (Cnosso, 80 a.C. circa – Alessandria d'Egitto, 10 a.C. circa) fu un filosofo greco antico che, per primo, riprese e rivalutò le tesi scettiche di Pirrone, dopo che gli ultimi accademici, avendo abbandonato lo scetticismo moderato professato dalla Media Accademia, avevano finito col ridiventare dei dogmatici, sposando buona parte della filosofia elaborata dagli stoici.

Nel far ciò, egli si discostò in modo netto anche dalle posizioni persuasive e probabilistiche delle concezioni scettiche elaborate da Arcesilao e Carneade, restaurando così la rigida tradizione che era propria degli iniziatori dello scetticismo.

Le tesi sostenute erano già note. In sostanza, si trattava di rendersi conto che l’unico atteggiamento valido è l’epoché, ovvero la sospensione del giudizio.

Ma Enesidemo non si limitò a ribadire ciò che era già stato detto; egli diede uno straordinario contributo filosofico riprendendo, chiarificando ed ampliando, le argomentazioni che potevano essere utilizzate a supporto dello scetticismo.

Il risultato di questa grande opera di elaborazione e sistematizzazione fu racchiuso in otto libri, intitolati Discorsi Pirroniani, che rappresentano una sorta di manifesto del rinnovato movimento di pensiero a cui si è soliti dare il nome di Neoscetticismo.

La polemica di Enesidemo era chiara, così come lo erano i suoi obiettivi: gli accademici sono dogmatici, tanto quanto gli stoici; essi assumono alcune cose come certe e ne rigettano altre, senza esitazione.

I membri dell’Accademia contemporanei ad Enesidemo sostengono di rifarsi a qualche idea stoica, ma in verità essi sembrano degli stoici che polemizzano con altri stoici.

Le posizioni corrette da assumere sono quelle teorizzate da Pirrone: i suoi veri seguaci professano il dubbio e sono liberi da ogni dogma.

Nessun pirroniano ha mai affermato, in senso assoluto, che tutte le cose sono incomprensibili, né ha ritenuto che siano comprensibili.

Per lo scettico le cose non sono più in un modo che in un altro, oppure talora risultano comprensibili e talaltra invece non lo sono, oppure per qualcuno sono comprensibili e per qualcun altro sono incomprensibili.

Gli scettici non hanno mai sostenuto che tutte le cose, o alcune di esse, sono accoglibili, ma che esse siano accoglibili non più di quanto non lo siano, oppure che talora sia accoglibili e talaltra invece no, oppure che per un individuo siano accoglibili e per un altro invece no.

Ciò accade perché, in realtà, non c’è né vero né falso, né probabile né improbabile, né essere né non essere.

La medesima cosa non è più vera che falsa, o più probabile che improbabile, e più essere che non essere.

Le cose non sono talora questo e talaltra quest’altro, né per uno di tal fatta e per un altro di tal altra fatta.

Non a caso, i pirroniani non definiscono nulla, o meglio, per esser ancor più precisi, non asseriscono neppure ciò che è stato appena detto, ovvero che nulla si può definire: essi parlano senza avere la pretesa di conoscere quale sia l’oggetto del pensiero!

La posizione filosofica di Enesidemo negava la validità dei postulati della logica classica, tra cui il principio di identità, quello di non contraddizione e del terzo escluso, ma contestava anche che si potesse conoscere la sostanza delle cose e che il loro essere fosse stabile.

Per Enesidemo la condizione propria di ciò che esiste nella realtà è indeterminata, disordinata, confusa.

Egli giustificò il suo scetticismo mostrando come la forza persuasiva di ogni discorso fosse soltanto apparente, giacché ad ogni argomentazione può sempre essere contrapposto un altro ragionamento altrettanto credibile che sia in grado di controbilanciare l’argomento originario.

Inoltre, elaborò una sofisticata tavola delle categorie del dubbio, i cosiddetti 10 tropi (modi o regole), con cui ciascun individuo può rendersi conto da sé che l’unico atteggiamento corretto da adottare in confronto ad ogni cosa è la sospensione del giudizio.

Secondo Enesidemo per giungere all’epoché, è sufficiente applicare ad ogni cosa uno dei seguenti tropi o, al più, una loro combinazione:

1) tropo degli animali



In virtù delle differenze che esistono tra gli animali, è lecito sostenere che essi abbiano sensazioni e rappresentazioni differenti e contrastanti, anche in relazione alle medesime cose.


Gli animali, infatti, hanno degli organi sensoriali dissimili che rappresentano in modo diverso gli oggetti.



Tenendo conto di questa discordanza, l’essere umano può certamente esprimere una opinione in merito a come le cose appaiono ai propri sensi, ma deve sospendere il giudizio rispetto a come esse sono in realtà. 


Chi ci autorizza a sostenere che le percezioni degli esseri umani sono giuste, mentre tutte quelle degli altri animali sono false?


L’essere umano non può essere considerato come un giudice in grado di stabilire quali siano le rappresentazioni vere tra quelle degli umani e degli animali, perché egli stesso è parte in causa del processo di percezione.

Né si può sostenere che i sensi degli esseri umani siano superiori a quegli degli animali, giacché in moltissimi casi è vero l’esatto opposto: si pensi, ad esempio, all’olfatto dei cani e alla vista dei rapaci.

Pertanto, ogni individuo, piuttosto che avanzare la pretesa infondata di essere in grado di giudicare, avrebbe a sua volta bisogno di un giudice terzo ed imparziale.

2) tropo degli esseri umani

Ammesso, per assurdo, che i sensi e le rappresentazioni degli esseri umani siano, per qualche ragione, superiori a quelli degli animali, la situazione non cambierebbe affatto e si dovrebbe comunque sospendere il giudizio.

Infatti, le differenze che esistono tra i corpi e le anime degli individui sono tali da far sì che vi sia un’ampia varietà di sensazioni, pensieri, sentimenti ed atteggiamenti vicendevolmente contraddittori. 

Ciò che alcuni reputano vero viene detto falso da altri, ciò che per qualcuno produce piacere secondo qualcun altro arreca dolore, ciò che taluni reputano bello altri lo giudicano brutto... e così via.

Perfino gli stessi filosofi dogmatici hanno dato ampia dimostrazione dell’incolmabile differenza tra il giudizio degli esseri umani, da un lato, concependo dottrine discrepanti e, dall’altro, non riuscendo a trovare un accordo neanche rispetto a cosa si debba ricercare e da cos’altro si debba rifuggire nel corso della vita.

3) tropo dei sensi

Anche se si trascurassero le differenze tra gli esseri umani e ci si limitasse a prendere in considerazione l'opinione di uno solo di essi, evitando così di contrapporre individuo ad individuo, si giungerebbe comunque alla sospensione del giudizio.

Infatti, le rappresentazioni fornite dai diversi sensi di un singolo soggetto possono essere contrastanti ed inaffidabili: un frutto che appare bello alla vista può risultare sgradevole al gusto, guardando alcuni dipinti si possono scorgere rientranze e sporgenze che però non risultano al tatto... e così via.

Per questo motivo l’individuo non può stabilire con certezza come le cose sono in realtà, può soltanto limitarsi ad affermare come esse appaiono ai propri sensi, di volta in volta.



4) tropo delle circostanze


Come se ciò non bastasse, è ben noto che le rappresentazioni umane variano al mutare delle circostanze.

Un giovane giudica diversamente rispetto ad un anziano, un sano rispetto ad un malato, un astemio rispetto ad un ubriaco, la stessa cosa accade tra un individuo felice ed uno infelice, un soggetto calmo ed uno arrabbiato, ed ancora vi sono differenze anche tra quando ci si trova in uno stato di veglia e di sonno, di sazietà e di fame... e così via. 

Sicché anche in questo caso non c’è modo di dire con certezza come le cose siano realmente. 

5) tropo della prospettiva 


Le rappresentazioni delle cose dipendono dalla posizione, dall’intervallo di tempo e dal luogo in cui esse vengono osservate. 



Gli oggetti mutano aspetto a seconda se li si osserva da lontano o da vicino, per un instante o per un tempo prolungato, di giorno o di notte... e così via.


Si pensi ad un portico che, quando viene visto da una sua estremità, sembra restringersi, mentre invece, quando viene osservato dal suo centro, non appare più come un qualcosa di convergente; ad un remo che, se parzialmente immerso nell’acqua, sembra spezzato, nonostante esso sia del tutto integro, se osservato nell’aria; o ad una torre, che cambia di aspetto via via che ci si avvicina ad essa...


Tutto ciò ci conduce ancora una volta alla sospensione del giudizio.

6) tropo della mescolanza



Tutte le cose non si presentano mai in modo puro, in sé e per sé, mostrandosi per ciò che effettivamente sono, ma appaiono sempre mescolate a tutto il resto, così che noi, al massimo, riusciamo a dire quale sia la mescolanza dell’oggetto con ciò che viene percepito insieme ad esso, ma non riusciamo a stabilire quale sia la cosa in sé.


7) tropo della quantità


Una variazione quantitativa può determinare un’alterazione della percezione delle cose.

Si pensi, ad esempio, ad un granello di sabbia che, se toccato singolarmente, è ruvido, ma quando è assieme ad altri sassolini, simili ed asso, restituisce una sensazione di morbidezza.

Così facendo anche la quantità legata alla costituzione delle cose confonde i sensi.



8) tropo della relazione


A ben pensare, tutto ciò che noi affermiamo di conoscere, lo conosciamo mettendolo in relazione con altre cose. 



Solitamente non si conosce una cosa per se stessa, ma in confronto al suo contrario: il piccolo è giudicato tale rispetto al grande, l’asciutto all’umido, il caldo al freddo, il pesante al leggero, il nero al bianco, il debole al forte, il poco al molto... e così via. 


La stessa cosa accade per la virtù o il vizio. Per comprendere cos’è l’utile si guarda al dannoso, per cogliere il bello c’è bisogno di sapere cos’è turpe, il giusto si compara con l’ingiusto, il bene col male, e così per tutte le altre cose.


Ma come si può prestar fede a ciò che deve riferirsi ad altro per definire se stesso, dando luogo ad un circolo vizioso in cui per definire una cosa ci si appella ad un’altra cosa, ma per definire quell’altra cosa si ha bisogno di un’altra cosa ancora... e così via all’infinito?

9) tropo dell’abitudine



La continuità, o la rarità, con cui si percepisce qualcosa è in grado di influire sulle rappresentazioni, alterando il nostro giudizio.


Ad esempio, il Sole è ben più appariscente ed impressionante rispetto ad una cometa.


Ma siccome siamo abituati a vedere il Sole ogni giorno, ecco che lo sporadico manifestarsi di una cometa altera la nostra percezione, impressionando taluni individui a tal punto da far sì che essi gli attribuiscano il valore d’un segno divino.

10) tropo della cultura

Se si guarda alla morale, alla legge, alle credenze mitiche e perfino alle concezioni filosofiche dogmatiche, adottate dai vari popoli nel corso del tempo, ci si rende immediatamente conto di quanto esse siano mutevoli ed eterogenee.

Ciò accade perché gli esseri umani hanno opinioni diversissime e discordanti, a seconda dell’educazione ricevuta e del popolo a cui appartengono.

Se l’essere umano potesse cogliere la realtà delle cose non concepirebbe un così vasto repertorio di affermazioni reciprocamente incompatibili e tutti quanti sosterrebbero la verità. 



Tutto ciò a ulteriore riprova del fatto che noi non possiamo dire quale sia la natura delle cose, ma soltanto quale essa appaia a seconda dei costumi. Anche per questo si deve sospendere il giudizio.


Grazie ai suoi 10 tropi Enesidemo giunse ad una completa relativizzazione, sia di ciò che viene impropriamente chiamato conoscenza, che dei comportamenti umani, mostrando l’inattendibilità e la variabilità delle rappresentazioni. 



Se vi sono differenze insanabili tra i sensi degli animali e quelli degli esseri umani; se gli stessi sensi di un singolo individuo sono in disaccordo; se le rappresentazioni variano a seconda delle circostanze, della prospettiva e della qualità; se si può conoscere soltanto riferendosi ad altro e non alla cosa in sé; se l’abitudine o la novità influenzano le opinioni; se la morale, la legge, le credenze e perfino le concezioni filosofiche variano al variare del tempo e dei popoli, scaturendo più dalla cultura che non da una ragione universale, allora all’essere umano non resta che l’epoché. 


Del resto, se le sensazioni prodotte dalla medesima cosa differiscono sia al variare degli individui che delle condizioni al contorno, come si può proclamare con certezza che la rappresentazione di uno sia vera mentre tutte quelle degli altri siano false? 

Se la rappresentazione degli oggetti muta a seconda che essi siano semplici o mescolati ad altri, si presentino isolatamente o in relazione ad altro, siano in numero minore o maggiore e se ne abbia scarsa o abbondante esperienza, come si può stabilire quale sia la vera natura delle cose?


Se le opinioni umane sono così varie, eterogenee, mutevoli, contrastanti e contraddittorie, tanto che ad ogni concezione si può opporre una contro-concezione di pari forza persuasiva, come si può avanzare la pretesa che l’una sia superiore alle altre?



Ma Enesidemo non era ancora soddisfatto: egli voleva provare anche l’impossibilità di costituire una scienza della natura. 


A tal fine, elaborò delle argomentazioni volte a smantellare i postulati da porre a fondamento di questo ipotetico sistema conoscitivo, esibendo le insanabili difficoltà che si oppongono alla sua edificazione.


La scienza, per dirsi tale, ha bisogno di tre capisaldi:



P1) l’esistenza della verità e della sua raggiungibilità;


P2) l’esistenza delle cause, ovvero delle ragioni causali, le quali determinano il verificarsi delle cose con un rapporto temporale di tipo causa-effetto;

P3) la capacità e la sensatezza di compiere inferenze meta-fenomeniche (anche dette meta-empiriche), ossia la validità del principio secondo cui si può ottenere la conoscenza di ciò che non cade sotto i sensi, partendo da ciò che appare, individuando così, attraverso un’inferenza, la causa meta-fenomenica “invisibile”, in quanto posta al di là dei sensi, di un fenomeno sensibile.

A questi tre postulati corrispondono altrettanti problemi, ovvero rispettivamente il problema della verità, delle cause e dei segni.

Le contro-argomentazioni mosse da Enesidemo sono qui di seguito riportate:

C1) Se la verità esiste, ed è in qualche modo conoscibile, allora essa o è sensibile, cioè può essere colta con i sensi, o è intelligibile, ovvero può essere colta con la pura ragione, o è sia sensibile che intelligibile, ossia può essere colta combinando sensi e ragione.

Ma noi, attraverso i 10 tropi, abbiamo già provato che la verità non è né sensibile, né intelligibile! 

Ad ulteriore riprova che il vero non possa essere colto soltanto con i sensi, si consideri che la sensazione è un qualcosa di a-razionale, ovvero che non cade sotto la ragione.

E come si può pretendere che vi sia conoscenza senza un processo razionale? 

Al tempo stesso, però, la verità non può essere raggiunta neanche con la ragione; se così non fosse, ed il vero fosse intellegibile, gli esseri umani penserebbero la verità in modo comune.


Ma ciò non accade, tant’è che esistono un gran numero di visioni diverse, inconciliabili e contrastanti, in merito ad ogni cosa, ed è inevitabile che sia così, giacché ciò che è pensato soltanto da alcuni non può che essere soggetto a controversia. 



Ed infine che il vero non possa essere conoscibile avvalendosi sia dei sensi che della ragione, lo si comprende riflettendo sul fatto che, se così fosse, le difficoltà già sottolineate si sommerebbero, invece di annullarsi.


In questo modo, infatti, oltre ai problemi dovuti alla conoscenza sensibile ed a quelli relativi al puro pensiero, si dovrebbe render conto anche del contrasto reciproco che sussiste fra le cose sensibili e quelle intelligibili, complicando ancor più il problema della verità, invece di risolverlo.

Dunque, siccome non c’è nulla che risulti sensibile, intellegibile, o che possa esser colto combinando sensi e ragione, dobbiamo concludere, con Enesidemo, che la verità non esiste.


C2) Stando a quanto dichiarano i filosofi, la realtà si compone di cose corporee ed incorporee. 



Per negare la validità dei rapporti causali, Enesidemo tentò di mostrare che non si può stabilire un legame di causa-effetto né fra corpo e corpo, né fra incorporeo e incorporeo, né fra corporeo ed incorporeo, né fra incorporeo e corporeo.

Per contestare l’edificazione di una eziologia, vale a dire di una scienza che indaghi le cause dei fenomeni, egli elaborò un ulteriore elenco di 8 tropi, nei quali vengono catalogati gli errori a cui è destinato ad incorrere colui che intende intraprendere una simile impresa:

1) è indebito presumere che si possa raggiungere qualcosa di non visibile e di non evidente, senza che esso sia attestato da un qualcosa di visibile ed evidente.


Infatti, se una causa di un fenomeno non può essere provata dall’evidenza, non v’è certezza che essa sia effettivamente la causa di quel fenomeno;

2) la pretesa di spiegare il manifestarsi delle cose limitandosi ad indicare soltanto una causa è assurda, perché in realtà per ogni fenomeno è sempre possibile individuare una molteplicità di cause;

3) è insensato addurre cause che non hanno un ordine per spiegare ciò che, invece, si manifesta con un ordine, così come fanno, ad esempio, gli atomisti, che pretendono di spiegare la regolarità della realtà fisica ricorrendo al moto caotico di particelle indivisibili;

4) è indebito sostenere che le cose invisibili si comportino come quelle visibili, giacché non è escluso che le dinamiche di ciò che cade al di fuori dei sensi siano differenti e particolari;

5) è illegittimo pretendere di stabilire le cause basandosi su ipotesi arbitrarie intorno agli elementi primi, che, in quanto tali, variano a seconda della fantasia dei fondatori delle varie sette filosofiche, mentre invece si dovrebbe più correttamente ragionare partendo da metodi e nozioni universali. 



Ma incidentalmente non vi è alcuno accordo su quali debbano essere questi metodi e queste nozioni comuni su cui basarsi;


6) non c’è alcun motivo di accogliere come causa soltanto ciò che si accorda con le proprie ipotesi, respingendo tutto ciò che invece non è compatibile con il proprio paradigma, addirittura anche quando queste altre cause sono supportate da argomenti di eguale forza persuasiva;

7) non è lecito accogliere cause in contrasto con i fenomeni, o con le proprie ipotesi, pur di salvare il proprio impianto filosofico;

8) è assurdo pretendere di spiegare cose che appaiono in modo incerto, con cause che, in forza della loro arbitrarietà, sono altrettanto incerte.


C3) tra i filosofi dell’antica Grecia vi era una profonda e diffusa convinzione secondo cui ciò che appare nella realtà è uno spiraglio aperto sul mondo dell’invisibile. 



In questo modo un fenomeno diviene un segno, vale a dire una sorta d’indizio per scoprire la causa fenomenica che non appare e non è percepibile attraverso i sensi.


Per contestare questo principio Enesidemo sostenne che le cose che appaiono possono sì essere intese come segni, ma soltanto in modo arbitrario; pertanto è indebito considerarle come indizi d’una causa meta-fenomenica. 



Infatti, non appena si pretende di interpretare un fenomeno come un segno, s’intende già implicitamente, presupponendolo, che esso sia l’effetto visibile di una causa invisibile, postulando così, tacitamente, l’esistenza di un nesso causa-effetto dalla validità universale. 


Se le cose apparenti fossero segni, allora dovrebbero apparire allo stesso modo a tutti gli individui che si trovano in condizioni simili, ma ciò non accade.

Infatti, mentre le cose apparenti risultano uguali a parità di condizioni, ciò non vale per i segni, che possono essere interpretati in modi differenti, anche in presenza delle medesime condizioni al contorno.

Si pensi, ad esempio, ai sintomi dello stesso malato, che possono essere interpretati da medici diversi come segni dovuti a cause, ovvero a malattie, differenti. Dunque ciò che appare non è un segno.



È interessante notare, en passant, come Enesidemo, nel tentativo di delegittimare la mentalità eziologica dei greci del suo tempo, volta ad individuare le cause celate dietro a ciò che appare, abbia a sua volta adottato proprio quell’atteggiamento mentale che intendeva combattere; anch’egli, infatti, tentò di determinare le cause per cui, a suo avviso, sarebbe stato impossibile scoprire le cause!


Ma Enesidemo si occupò anche della morale. E lo fece con il preciso intento di smantellare le dottrine filosofiche esistenti. 



Avvalendosi del proprio armamentario argomentativo, egli sostenne che l’essere umano non è in grado di comprendere e conoscere che cosa siano il bene ed il male, e di discernere che cosa sia preferibile da cosa non lo sia. 

Inoltre, polemizzò contro le varie visioni del concetto di virtù proposte dai dogmatici e negò l’esistenza di un qualsiasi fine della vita umana. 


L’essere umano non deve perseguire né la felicità, né il piacere, né la saggezza, deve limitarsi ad osservare la sospensione del giudizio e a mantenersi in uno stato d’imperturbabilità.

Agrippa

Agrippa fu un filosofo dell’antica Grecia che aderì alla corrente di pensiero del tardo scetticismo.



Della sua vita non si sa praticamente nulla, tranne che operò qualche decennio dopo Enesidemo, probabilmente nel primo secolo dopo Cristo, e che, nel tentativo di riassumere e rafforzare le tesi scettiche già formulate in precedenza, ideò una nuova tavola composta da cinque tropi.


Questa volta, più che ai sensi, la cui inaffidabilità gnoseologica era già stata ampiamente argomentata, la polemica di Agrippa si rivolse contro l’intelletto, evidenziando l’impossibilità di giungere alla conoscenza attraverso ogni genere di ragionamento.

L’obiettivo era ancora una volta quello di convincere l’interlocutore che l’unica posizione sensata consiste nella sospensione del giudizio. 

I cinque tropi di Agrippa sono qui di seguito riportati:


1) tropo della difformità di opinione (o della discordanza)

la discrepanza dei giudizi emessi dagli esseri umani è rilevabile sia tra i filosofi che tra le persone comuni. 



La distanza tra le opinioni è tale che il dissidio da esse generato è insanabile.


2) tropo del regresso all'infinito


Quando si sostiene di voler dimostrare un qualcosa con una prova, in realtà, se si è onesti, ci si rende conto che quella prova, a sua volta, ha bisogno di un’altra prova per giustificare se stessa.


Ma la prova della prova ha nuovamente bisogno di un’altra prova... e così via all’infinito, rendendo impossibile alcuna dimostrazione. 



3) tropo della relatività delle rappresentazioni


Ogni cosa è conosciuta in relazione ad un soggetto, e non per com’è in se stessa.


Il rapporto tra il soggetto ed il mondo è unico e particolare per ciascun individuo.



Di conseguenza, tutte le esperienze sono relative, in quanto variano al variare del soggetto e non c’è alcun motivo per ritenere che l’esperienza di uno sia superiore a quelle degli altri. 


4) tropo dell’ipotesi



Ogni dimostrazione è fondata su principi indimostrati che si ammettono per convenzione: le ipotesi (o meglio gli assiomi). 



Per quanto un’ipotesi possa sembrare ragionevole e sensata, e nonostante ciò che da essa consegue, attraverso ragionamenti validi, risulti coerente e non contraddittorio, non c’è alcuna garanzia che quell’ipotesi sia vera. 

Gli stessi filosofi dogmatici, nel tentativo di sfuggire al regresso all’infinito, evidenziato nel secondo tropo, introducono dei principi primi, senza darne alcuna dimostrazione, pretendendo che essi siano considerati veri per fede.


5) tropo della petizione di principio (diallele, o ragionamento circolare)

Talvolta, nel tentativo di voler dimostrare una cosa, la si include, più o meno tacitamente, nelle premesse del ragionamento, ma in questo modo si assume come dimostrato proprio ciò che si sarebbe dovuto provare, invalidando la dimostrazione. 



Così facendo si dà origine ad un ragionamento fallace (diallele), in cui la dimostrazione è soltanto apparente e non ha alcuna validità, in quanto basata su di circolo vizioso autoreferenziale.



Se così stanno le cose, chiunque intenda cogliere il vero attraverso la ragione è condannato all’errore: egli, infatti, o assume punti di partenza indimostrati; o si perde in un processo all’infinito; o cade vittima del diallele. 



E non c’è verso di sfuggire agli errori catalogati nei cinque tropi di Agrippa, neppure combinando i sensi con la ragione!



Infatti, ogni cosa o è sensibile, o è intelligibile, o è entrambe le cose, cioè o può essere conosciuta con i sensi, o con la ragione, o sia con i sensi che con la ragione.


In ogni caso vi è una discordanza di opinioni, poiché alcuni filosofi affermano che sono vere soltanto le cose sensibili, altri solo quelle intelligibili, altri ancora le une e le altre. 



La possibilità che questo disaccordo sia insanabile non può essere ammessa, altrimenti lo scettico avrebbe ragione e si dovrebbe, ipso facto, sospendere il giudizio.


Ma se si ritene che questa divergenza di opinioni possa essere risolta, allora si ricade inevitabilmente in almeno uno degli errori elencati nei cinque tropi di Agrippa! 



Infatti, se come prova si utilizzerà un oggetto sensibile, si dovrà far ricorso o ad un altro oggetto sensibile o ad un qualcosa di intellegibile.

Nella prima ipotesi, anche il nuovo oggetto avrà bisogno della giustificazione di un’ulteriore prova, che, nel caso in cui fosse ancora un qualcosa di sensibile, avrebbe bisogno di un’altra prova ancora... e così via all’infinito, cadendo nella problematica illustrata nel secondo tropo;

nella seconda ipotesi, anche l’intellegibile necessiterebbe di un'ulteriore prova per essere giustificato, ma se questa prova fosse intellegibile si ricadrebbe in un processo infinito dovuto alla necessità di giustificare via via gli intellegibili successivamente impiegati come prove, cadendo così nuovamente nell’errore esposto nel secondo tropo; 

se invece come prova si utilizzasse un sensibile, si cadrebbe nella diallele, il cui circolo vizioso sarebbe dovuto al fatto di voler, da un lato, provare un sensibile con un intellegibile e, dall’altro, di giustificare un intellegibile con un sensibile.


Per evitare tutto ciò, si dovrà necessariamente assumere qualche ipotesi senza dimostrarla, ma così facendo si cadrà nell’errore esposto nel quarto tropo!

Sicché il conflitto tra chi tenta di stabilire se la conoscenza sia sensibile, intellegibile, o ambedue le cose, è insanabile, e quindi si deve sospendere il giudizio.

Alcuni scettici semplificarono ulteriormente i cinque tropi di Agrippa riconducendoli a due casi fondamentali: le cose, infatti, non si possono comprendere né di per sé, né in base ad altro.



Che le cose non si possano comprendere di per sé, è dimostrato dalla divergenza di opinioni degli esseri umani e dal fatto che non esiste alcun criterio da adottare per stabilire quale sia la verità che, a sua volta, non sia oggetto di disaccordo.


Che le cose non si possano comprendere in base ad altro, è facilmente intuibile, giacché se si percorresse questa via si finirebbe o in un processo infinito, nel tentativo di giustificare ogni cosa con un’altra, o in un circolo vizioso, impiegando una cosa già utilizzata per giustificarne un’altra! 


Sesto Empirico

Sesto Empirico (160 circa – 210 circa) fu uno dei maggiori esponenti dello scetticismo, nonché ultimo tra i più celebri filosofi del periodo ellenistico appartenuti a questa corrente di pensiero.



Della sua vita si sa ben poco. Pare che fosse di origine africana, in quanto nel grande lessico enciclopedico di età bizantina intitolato Suida (o Suda) le sue opere vengono citate sotto il nome di “Sextus Africanus”


L’appellativo di “empirico”, invece, gli venne attribuito dalla tradizione per segnalare la sua appartenenza alla scuola medica empirica, nonostante lo stesso Sesto, in un suo scritto, abbia affermato che l’indirizzo medico maggiormente compatibile con lo scetticismo non sia quello empirico, ma quello metodico.

Ad onor del vero, queste visioni erano entrambe fondate sull’osservazione delle evidenze empiriche e ritenevano che al fine di curare i malati non fossero tanto importanti le cause, che a loro avviso erano precluse alla conoscenza, ma piuttosto l’analisi degli effetti prodotti dai rimedi.

I metodici, però, si distanziavano sia dai medici dogmatici, i quali congetturavano attorno alle cause nascoste della malattia, che dagli empiristi, che riponevano tutta la loro attenzione ai dati sperimentali, perché all’osservazione empirica associavano un metodo peculiare basato sulla contemplazione di quanto c’è in comune nelle varie malattie: era questa, a loro avviso, la chiave per curare i pazienti.


È verosimile pensare che Sesto Empirico operò ad Alessandria d’Egitto e che forse soggiornò anche ad Atene e Roma.


La sua importanza, per quanto riguarda la storia del pensiero filosofico, è duplice: da un lato, egli formulò uno scetticismo fenomenico maturo, dall’altro, compose delle opere preziosissime dal punto di vista strettamente storico.


Al loro interno, infatti, si può trovare sia la summa dell’intero scetticismo antico, che un’esposizione sistematica dell’amplissima critica mossa dagli scettici nei confronti delle varie dottrine filosofiche contro cui quest’ultimi polemizzarono.


Sesto Empirico redasse anche degli scritti di carattere medico, ma essi sono andati perduti. Per quanto riguarda i componimenti sul tema dello scetticismo, invece, ci sono pervenute tre opere:



la prima di esse, uno scritto suddiviso in tre volumi intitolato Lineamenti pirroniani, non è altro che un compendio dello scetticismo;



la seconda e la terza di esse constano rispettivamente di 6 + 5 = 11 volumi, che vengono tradizionalmente compresi sotto il titolo unitario ed improprio di Contro i matematici, in cui l’autore si scaglia contro chiunque pretenda d’insegnare ed essere in possesso di un qualche genere di verità oggettiva. 


L’intento (assai velatamente polemico!) può esser facilmente intuito dai titoli dei singoli volumi che compongono la suddetta opera:


Seconda opera: Contro coloro che insegnano discipline esatte

Vol. I Contro i Grammatici
Vol. II Contro i Retori
Vol. III Contro i Geometri
Vol. IV Contro i Matematici
Vol. V Contro gli Astrologi
Vol. VI Contro i Musici


Terza opera: Contro i dogmatici

Vol. VII-VIII Contro i Logici
Vol. IX-X Contro i Fisici
Vol. XI Contro i Moralisti



Più precisamente, nei libri che vanno dal primo al sesto dell’opera, Sesto Empirico mosse le sue critiche ai cultori della grammatica, della retorica e delle cosiddette scienze del quadrivio (ovvero geometrica, aritmetica, astronomia e musica), mentre nei restanti volumi si occupò dei filosofi dogmatici, seguendo la classica tripartizione in logica, fisica ed etica.


Proprio come avevano fatto gli altri esponenti dello scetticismo, anche Sesto Empirico si dedicò alla ricerca, facendo ampio uso di argomentazioni logico-razionali. Il fine ultimo consisteva nell’avvalorare l’atteggiamento della sospensione del giudizio.

La via intrapresa per raggiungere questo obiettivo era comune a quella compiuta da ogni altro scettico: un’attenta analisi critica di tutte le correnti offerte dal panorama filosofico, la quale, se portata alle estreme conseguenze, conduce all’impossibilità d’individuare una verità oggettiva ed impedisce di dare il proprio assenso ad una particolare visione del mondo.

A tal fine, nei suoi scritti egli riprese e fece ampio uso delle dottrine dei tropi sviluppate da Enesidemo ed Agrippa, aggiungendovi qualche elemento di novità. 


Tra le confutazioni più famose sviluppate da Sesto Empirico vi sono le seguenti critiche:


1) critica della deduzione


La deduzione è una tipologia di ragionamento che, partendo da delle premesse e avvalendosi di certe regole che ne assicurino la correttezza, consente di ottenere delle conclusioni ritenute logicamente necessarie.

Essa è utilizzata in matematica per produrre delle dimostrazioni. Anche il sillogismo, così come inteso dalla logica classica aristotelica, è una forma di deduzione, grazie alla quale, partendo da una premessa maggiore e da una premessa minore, si può giungere ad una conclusione derivata in modo necessario. 



Ma secondo Sesto Empirico l’utilizzo della deduzione al fine di dimostrare un qualcosa è indebito: questa tipologia di ragionamento, a suo avviso, dà origine sempre ad un circolo vizioso (diallele).


Ad esempio, quando nel seguente sillogismo si sostiene:

premessa maggiore: «ogni uomo è mortale»;
premessa minore: «Socrate è un uomo»;
conclusione: «Socrate è mortale»,



non si potrebbe assumere come vero che ogni uomo è mortale senza già aver dato per dimostrata anche la conclusione, ovvero che Socrate, in quanto uomo, è mortale! 



Di fatto, mentre da un lato si pretende di dimostrare la conclusione sostenendo di derivarla da un principio universale, dall’altro la si presuppone implicitamente già nelle premesse, invalidando la dimostrazione. 

2) critica dell’induzione

L’induzione è una tipologia di processo logico opposto alla deduzione, con il quale si tenta di individuare affermazioni di carattere universale partendo dall’osservazione di un certo numero di casi particolari. 

Ma secondo Sesto Empirico i ragionamenti induttivi sono ancor più problematici rispetto a quelli deduttivi. 

Essi, infatti, se si fondano soltanto sull’analisi di un numero finito di evidenze, non possono condurre alla certezza, giacché i restanti casi non esaminati potrebbero sempre confutare ciò che è stato indotto basandosi sulle osservazioni prese in esame.

Se invece, per ottenere una conoscenza certa, si decidesse di fondare l’induzione sulla valutazione di tutta la casistica particolare, allora si starebbe pretendendo di portare a termine un compito impossibile, giacché l’analisi di tutti i casi sarebbe infinita e quindi non potrebbe essere effettuata compiutamente.

3) critica al concetto di causa

Una delle argomentazioni utilizzate da Sesto Empirico per mettere in dubbio il concetto di causa, suona grosso modo così: 

la causa di un effetto, se è tale, non può seguire l’effetto, altrimenti non potrebbe produrlo; né può essere contemporanea all’effetto, perché quest’ultimo non può far altro che scaturire da un qualcosa ad esso precedente.

Ma se è vero che la causa sussiste prima di produrre l’effetto, allora si sta anche dicendo che essa è causa ancor prima d’esser causa, cadendo così in contraddizione! 

4) critica alla teologia


La critica alla teologia fu rivolta da Sesto Empirico principalmente contro la concezione degli stoici.


A tal fine egli evidenziò le numerose contraddizioni implicitamente contenute nella loro definizione del concetto di divinità; e per farlo, produsse numerosi argomenti.



Ad esempio, gli stoici ritenevano che tutto ciò che esiste sia corporeo; dunque anche la divinità, qualunque essa sia, dovrebbe esserlo.

Ma ogni corpo, o è composto, oppure è semplice.

Se è composto è soggetto al dissolvimento, e quindi è mortale, ma la divinità non può esserlo. 

Se è semplice, allora o è acqua, o aria, o terra o fuoco, ovvero dovrebbe essere un qualcosa di incosciente e inanimato, ma la divinità non può esserlo. 

Sicché, in forza di queste contraddizioni, l’esistenza della divinità degli stoici è messa in dubbio.

E ancora, se è vero che Dio esiste, allora in quanto vivente egli dev’essere in grado di sentire, cioè di percepire. 

Sentire significa essere in grado di ricevere piacere e dolore; ma il dolore è fonte di turbamento, sicché Dio è mortale, proprio come gli esseri umani che sono capaci di provare turbamento. 

Sesto derivò altre contraddizioni osservando come il voler attribuire tutte le perfezioni alla divinità fosse alquanto problematico. 

Ad esempio, se la divinità possiede tutte le virtù, allora in particolare ha anche il coraggio; ma il coraggio richiede la capacità di discernere le cose temibili da quelle innocue, così da poter intervenire impavidamente, nonostante il pericolo. 

Se così stanno le cose, anche per la divinità ci sono delle cose temibili, ma ciò è assurdo, perché dio non ha timore di nulla!

Mentre compiva la sua ricerca, Sesto Empirico diede alla luce una sorta di manifesto, in cui, via via che si chiarificavano le caratteristiche essenziali di quello che, a suo avviso, avrebbe dovuto essere considerato come l’autentico scetticismo, veniva anche a delinearsi una personale concezione filosofica.

Per orientarsi nei vari atteggiamenti di pensiero, Sesto introdusse la seguente tripartizione:

1) il dogmatismo positivo, che si ha quando si afferma dogmaticamente una verità in merito alla natura delle cose;

2) il dogmatismo negativo, che si verifica quando si sostiene in modo altrettanto dogmatico la non conoscibilità della natura delle cose;

3) lo scetticismo autentico, in cui non si sposa né l’una né l’altra posizione limitandosi alla ricerca, giacché ci si rende conto che a causa dell’uguaglianza della forza persuasiva dei fatti e dei discorsi contrapposti che possono essere portati a supporto o contro ad una certa tesi, si giunge alla sospensione del giudizio (epoché). 

Così, se da un lato sia i seguaci di Aristotele che gli Stoici venivano accusati di dogmatismo positivo, a causa delle rispettive professioni di fede nei confronti delle verità poste a fondamento del mondo, dall’altro i discepoli di Platone, con particolare riferimento ai membri della Media Accademia, dichiarando dogmaticamente l’impossibilità della conoscenza delle verità ultime, avevano a loro volta peccato di dogmatismo negativo. 

Mentre i membri della Media Accademia avevano ammesso di sapere solo che non è possibile conoscere nulla, i veri scettici avevano evitato di proclamare anche questa verità, e si erano attenuti all’applicazione di una ricerca continua.


Per il vero scettico la ricerca non ha né un punto di partenza, né un punto di arrivo. L’abilità da coltivare per far sì che la ricerca non abbia fine consiste nel saper contrapporre in qualsiasi modo le cose che appaiono e quelle che vengono pensate.



Qual era dunque, secondo Sesto Empirico, l’autentica formulazione dello scetticismo?

Non quella degli accademici ma neanche quella originaria di Pirrone, che tendeva ad esaurire nell’apparenza la realtà.



Il motivo della divergenza da questo genere di posizioni è presto detto: con Sesto Empirico, la fusione delle istanze del primo scetticismo e della medicina empirica diede origine a delle differenze sostanziali di vedute rispetto alle tesi sviluppate dai suoi precedessori, sia in relazione alla realtà che all’ambito dell’etica.


Per quanto riguarda la realtà, Sesto riformulò la propria versione dello scetticismo su basi dualistiche, riconoscendo una netta distinzione tra gli oggetti ed i fenomeni.

A suo avviso, gli oggetti sono un qualcosa d’altro rispetto ai soggetti e si presuppone che essi siano le cause esterne dei fenomeni; i fenomeni, invece, sono le impressioni sensibili soggettive e proprie di ogni individuo, che, in quanto tali, si contrappongono agli oggetti. 

Per Sesto Empirico, quindi, i fenomeni non risolvono in sé l’intera realtà, ma si completano con gli oggetti.

Quest’ultimi, sebbene non possano essere aprioristicamente dichiarati come inconoscibili, perché altrimenti si starebbe assumendo una posizione dogmatica, di fatto risultano non conosciuti. 

Pertanto, mentre il fenomenismo di chi, imitando Pirrone, risolve la realtà nell’apparire può essere considerato di tipo metafisico, quello di Sesto Empirico assume delle caratteristiche spiccatamente empiriche.

Come si può intuire, questa differenza sostanziale si ripercosse inevitabilmente anche in ambito etico: secondo Sesto Empirico, nella vita pratica lo scettico è autorizzato a seguire i fenomeni.

Infatti, concretamente parlando, è del tutto lecito che un individuo dia il proprio assenso alle affezioni dovute alle rappresentazioni sensoriali, giacché questo genere di assenso è puramente empirico e, in quanto tale, non può essere considerato dogmatico. 

Lo scettico non si oppone alla vita, al contrario, la difende, dando il proprio assenso a quanto da essa è confermato, senza che vi sia il concorso dell’umana volontà; lo scettico contrasta le cose inventate dai dogmatici: è questo il suo scopo. 

Per orientare gli esseri umani nell’azione, Sesto Empirico costruì una morale incentrata su quattro guide fondamentali:

1) le indicazioni che la natura dà agli individui;

2) gli impulsi dovuti alle affezioni del corpo che, ad esempio, c’invitano ad appagare la fame e la sete;

3) il rispetto delle leggi, dei costumi, delle tradizioni e del codice morale del paese in cui si vive;

4) non essere pigri e oziosi, ma dedicarsi all’esercizio di un’arte, in quanto essa si rivela utile alla vita.

È quindi evidente come con queste regole il tardo scetticismo tentò di distanziarsi sia dai criteri del probabile e del ragionevole, proposti dalla Media Accademia, che dalle ricette ascetiche composte da un miscuglio di apatia, atarassia e autarchia.



Lo scetticismo empirico e fenomenico di Sesto, infatti, non predicava una piena apatia, ovvero la completa assenza di passioni, ma la metriopatia, vale a dire una misurata soggezione alle esigenze della vita affettiva e volitiva.



Le affezioni che si provano per necessità, come ad esempio la fame e il freddo, non vanno censurate, ma moderate; esse non sono un male per natura, ed il considerarle come tali significherebbe accrescere, in modo immotivato, il turbamento ad esse associato.

La tesi che lo scettico debba essere assolutamente impassibile rappresenta una meta ideale che, alla luce dell’esperienza empirica, dev’essere rigettata.

È interessante riportare la spiegazione di come, secondo Sesto Empirico, i primi scettici conseguirono l’atarassia, ovvero l’imperturbabilità dell’anima.

Lungi dall’essere una conseguenza causale conseguente alla sospensione del giudizio, l’atarassia fu piuttosto una conquista casuale.

Tra l’epoché e l’atarassia non sussiste un rapporto diretto di causa-effetto, ma una consequenzialità dovuta al caso: infatti, l’imperturbabilità si presentò del tutto inattesa non appena gli scettici rinunciarono ad emettere giudizi attorno alla verità delle cose.

Per spiegare questa tesi, Sesto Empirico ricorse alla metafora del pittore Apelle, il quale, preso dall’ira per non essere in grado di raffigurare fedelmente la schiuma dovuta alla salivazione che fuoriesce dalla bocca di un cavallo, gettò contro il quadro la spugna con la quale detergeva i colori, ottenendo così, in modo del tutto casuale, una rappresentazione realistica di quanto fino ad allora non era stato in grado di produrre intenzionalmente. 

Allo stesso modo gli scettici, che speravano di conseguire l’imperturbabilità dirimendo le disuguaglianze che sussistono tra i sensi e la ragione, ad un certo punto, fallendo nel loro obiettivo, decisero di arrendersi, sospendendo il giudizio.


E fu proprio allora che, in modo del tutto inatteso e casuale, alla loro resa seguì la realizzazione dell’imperturbabilità.



Con Sesto Empirico lo scetticismo raggiunse la sua formulazione più completa e matura, ma si avviò anche al declino, non prima di aver distrutto quella mentalità dogmatica che era propria dei grandi sistemi filosofici fioriti nell’età ellenistica. 


Alcuni obiettarono che il neoscetticismo, nel tentativo di provare la non esistenza della dimostrazione mediante una dimostrazione, era caduto in contraddizione, giacché la prova scettica utilizzata a tal fine distruggeva anche se stessa! 

Ma Sesto Empirico replicò che non v’era nulla di contraddittorio in ciò, in quanto vi sono molte cose che fanno a se stesse quello che fanno ad altro; infatti, anche le medicine purganti, nel compiere la loro funzione di far evacuare gli umori dal corpo, finiscono per espellere se stesse. 

E così accade anche per l’argomentazione scettica impiegata per screditare la validità della dimostrazione, perché anche se essa scacciasse sé medesima dopo aver dimostrato l’impossibilità di ogni dimostrazione, non per questo confermerebbe la validità di queste ultime, né avrebbe un minor valore.


Così come il fuoco che, consumando la legna, pone fine anche a se stesso, anche l’argomentazione scettica impiegata contro la dimostrazione, dopo aver compiuto il suo compito, finisce per mettere al bando sé medesima.



In realtà, questa posizione è sostenuta dallo stesso Sesto Empirico anche per quel che riguarda le tesi dello scetticismo: lo scettico non afferma che esse siano vere in modo assoluto, in quanto esse possono annullarsi da sé circoscrivendosi assieme alle cose a cui si riferiscono. 


Sicché la negazione dello scettico nei confronti della verità, non può essere considerata dogmatica, perché si tratta di una negazione che nega, oltre al proprio contenuto, anche se stessa, autodistruggendosi. 

È così che lo scetticismo svolse la propria funzione catartica, riuscendo, da un lato, a liberare l’umanità dalla deleteria convinzione d’essere in possesso di una verità assoluta e, dall’altro, ad assolvere gli scettici dall’accusa di dogmatismo rispetto alla professione della propria dottrina.

Mirco Mariucci


Fonti
  • Il pensiero occidentale, di Giovanni Reale e Dario Antiseri.
  • Storia della filosofia, di Nicola Abbagnano.
  • Storia della filosofia antica, di Giuseppe Cambiano.
  • Storia della filosofia occidentale, di Bertrand Russell.
  • Storia del pensiero scientifico e filosofico, di Ludovico Geymonat.

Pirrone di Elide

Timone di Fliunte

Arcesilao di Pitane

Carneade di Cirene

Filone di Larissa

Antioco di Ascalona

Enesidemo di Cnosso

Agrippa

Sesto Empirico


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