Aristippo di Cirene
Aristippo
di Cirene (Cirene, 435 a.C. – Lipari, 366 a.C.) fu l’iniziatore
della corrente di pensiero a cui, dopo la sua morte, i filosofi Arete
di Cirene e Aristippo il Giovane (rispettivamente figlia e nipote di
Aristippo il Vecchio) si ispirarono per dar vita alla cosiddetta
scuola cirenaica.
Nonostante
fosse nato in Nordafrica, Aristippo ricevette una formazione
culturale ellenistica molto elevata, forse di carattere sofistico. La
sua famiglia, infatti, era di stirpe nobile e vantava le più grandi
ricchezze di tutta la Libia.
Inoltre,
in quel periodo storico, la città di Cirene (oggi situata
nell'odierna Libia orientale) rappresentava un’importante colonia
greca, che era stata fondata, qualche secolo addietro (intorno al 630
a.C.), dai Dori provenienti dall’isola di Thera (l'odierna
Santorini) su diretto consiglio dell’oracolo di Delfi.
Per
questi motivi Aristippo, oltre a ricevere un’istruzione adeguata al
suo status sociale, ebbe anche il grande privilegio di vivere nel
lusso, fin dalla tenera età, e di compiere numerosi viaggi, grazie
ai quali conobbe ed interagì con alcuni dei più importanti
personaggi dell’epoca.
La
sua storia inizia all’età di diciannove anni, quando si recò in
Grecia per assistere alle celebrazioni atletiche e religiose dei
Giochi olimpici. In quell’occasione incontrò un uomo di nome
Iscomaco, che gli parlò, in modo appassionato, della figura di
Socrate e dei suoi dialoghi, con i quali il filosofo ateniese
pungolava e affascinava i giovani nelle piazze della città.
Tanto
bastò per far sì che Aristippo s’incamminasse in direzione
d’Atene, dove ben presto riuscì ad inserirsi nel circolo di amici
e allievi di Socrate, di cui però non divenne un vero e proprio
discepolo, ma piuttosto una sorta di uditore indipendente.
Tutto
ciò avvenne non prima d’aver frequentato alcuni sofisti, tra cui è
probabile che vi fosse anche Protagora di Abdera in tarda età.
Dopo
la morte di Socrate, Aristippo ricominciò a viaggiare, visitando
molte città; la sua presenza, oltre che a Cirene e ad Atene, viene
segnalata a: Corinto, Siracusa, Egina, Megara, Scillunte, Rodi e
Lipari.
Nei
suoi successivi viaggi, egli ebbe l’onore di conoscere il
mitico Diogene di Sinope, anche noto come il Socrate pazzo, nel
periodo in cui quest’ultimo si trovava a Corinto, e di trovarsi in
Sicilia insieme a Platone in almeno un paio di occasioni: la prima,
fra il 389 a.C. e il 388 a.C., alla corte di Dionisio il Vecchio; la seconda,
nel 361 a.C., quando ormai Dionisio il Giovane aveva preso il posto di suo
padre.
Alcuni
hanno accostato Aristippo a Socrate e ai Cinici, nel tentativo di
individuare dei punti di contatto, ma come avremo modo di comprendere
la sua concezione filosofica aveva ben poco di socratico ed ancor
meno di cinico.
Egli,
piuttosto, fu un retore sui generis che impiegò la propria
intelligenza per sviluppare una filosofia morale che permettesse di
vivere con il minor sforzo possibile, traendo il massimo del
godimento dall’esistenza, senza subire gli effetti negativi dovuti
agli eccessi, alle dipendenze ed agli attaccamenti.
E
la concezione a cui egli pervenne consisteva in un indirizzo
filosofico edonistico, che individuava il fine ultimo nel
perseguimento del piacere fruibile nell’istante presente, e
giustificava la propria dottrina con un impianto antropocentrico,
individualista, utilitarista, sensista e convenzionalista, in
relazione a quanto concerne la società, improntando il tutto
all’autosufficienza e all’autodominio, da esercitare, non per
rifuggire dalle cose e dalle passioni, ma per non esserne dominati.
Aristippo
trascorse la propria esistenza così: viaggiando alla ricerca del
piacere, godendo del momento presente combinando la leggerezza alla
saggezza, senza mai rimpiangere il passato, né temere per il futuro.
Ma
come fu possibile che egli, per primo, giunse a formulare l’idea
che lo scopo ultimo dell’esistenza fosse da ricercare nel
godimento?
Socrate
aveva sostenuto che il bene, di per sé, possedesse una forza
attrattiva irrefrenabile per la volontà dell’essere umano, tanto
che se si fosse conosciuto in cosa consistesse effettivamente il bene
non si sarebbe potuto far altro che metterlo in pratica.
Partendo
da questa riflessione Aristippo si convinse che per individuare cosa
fosse il bene sarebbe bastato ricercare ciò che attrae a sé l’umana
volontà, vale a dire quelle cose che risultano piacevoli a tutti gli
individui, in modo spontaneo e naturale.
La
tesi socratica “ciò che è bene, attrae”, venne così
rovesciata in “è bene ciò che attrae”. E che cosa c’è
di più attraente e desiderabile di un piacere fisico di cui poter
godere nel qui ed ora?
Persino
i fanciulli, osserva Aristippo, familiarizzano da sé con il piacere
in quanto tale e quando hanno modo di provare sensazioni di benessere
fisico non ricercano null’altro; mentre invece chiunque rifugge,
per quanto gli è possibile, dal dolore, che in fin dei conti non è
altro che il contrario del piacere. Dunque, dev’essere questo stato
d’appagamento il vero bene a cui mirare, nonché il fine dell’umana
esistenza.
Socrate
non condannava il piacere in quanto tale, ma non lo considerava
nemmeno un bene in sé; per alcuni avrebbe senz’altro potuto
esserlo, a condizione che la loro condotta di vita fosse stata
sorretta dalla conoscenza.
I
cinici, invece, pur muovendo le loro riflessioni dalle tesi
socratiche, ben presto finirono per considerare il piacere e le
passioni come dei mali, a cui doversi sottrarre grazie ad un costante
esercizio spirituale.
Dal
canto suo Aristippo sostenne che il piacere è sempre un bene, a
prescindere dalla fonte da cui esso derivi. In questo modo egli ruppe
il saggio equilibrio della posizione socratica rovesciando, in senso
positivo, gli eccessi delle tesi ciniche.
Ma
i cinici non ritenevano soltanto che il piacere fosse un male; oltre
ad un completo autodominio, essi rivendicavano anche l’importanza
dell’autosufficienza. Il sapiente non aveva bisogno di nulla: egli
bastava a se stesso. E quindi, oltre alle passioni, bisognava
rinunciare anche alla ricchezza ed ai beni materiali che non fossero
strettamente indispensabili.
Aristippo era di tutt’altro parere: a suo avviso la vera libertà non si ottiene rifiutando i beni ed evitando le passioni, ma disponendo delle cose e provando sentimenti con il dovuto distacco, senza lasciarsi coinvolgere e trasportare eccessivamente.
Egli
riconosceva l’importanza del dominio di sé, ma lo faceva in
relazione all'appagamento del desiderio. “Possedere, senza
essere posseduti”, era questo il suo motto.
La
stessa cosa sussisteva anche per il piacere, che doveva sì essere
perseguito in ogni situazione e circostanza, giacché esso
rappresentava il sommo bene per l’uomo, ma soltanto a condizione di
essere sufficientemente forti dal punto di vista spirituale da non
diventarne dipendenti: qualora un certo piacere da posseduto fosse
diventato possessore, si sarebbe dovuta ricercare dentro di sé la
forza d’animo necessaria per abbandonarlo, ritrovando così la
propria libertà.
Pertanto, secondo Aristippo, cose e passioni non andavano allontanate dalla vita, così come ritenevano i cinici, bisognava soltanto dominarle; di conseguenza, tutto ciò che consente di procurare piacere è concesso, a condizione di avere una centratura spirituale tale da riuscire a godere senza diventare schiavi del godimento.
I
cinici muovevano anche una critica radicale alla società, affermando
la convenzionalità, l’arbitrarietà e la dannosità delle
costituzioni e dei costumi adottati dall’umanità. E come ricetta
per i mali della civiltà proponevano il ritorno allo stato di
natura.
Aristippo,
invece, concordava con i cinici (ed i sofisti) per quanto riguarda le
tesi convenzionaliste e relativiste in relazione alle leggi e alla
morale, ma non concedeva ai cinici che la ricetta per la felicità
prevedesse un ritorno allo stato di natura.
Né
però proponeva un’organizzazione sociale alternativa a quelle
esistenti, che risultasse ad esse superiore, in qualche senso. A suo
avviso, infatti, vi era una terza via che poteva essere seguita
dall’individuo: quella di non legarsi ad alcuna città e di vivere
ovunque capitasse da forestiero.
Di
conseguenza, egli respingeva i valori della civiltà, quali ad
esempio Stato, famiglia e legge, come assoluti, ma era disposto ad
accettarli come relativi, così da poterli sfruttare in modo
utilitaristico ed egoistico nella propria ricerca del piacere.
Sebbene
le norme e le consuetudini fossero prive di valore intrinseco,
sarebbe stato saggio tenerle in considerazione, attribuendogli il
giusto peso, se non altro perché violandole si sarebbe andati
incontro a situazioni spiacevoli a causa delle reazioni degli
individui che attribuivano verità e valore a quelle convenzioni!
Pertanto,
da buon sofista, non solo Aristippo accettava le leggi ed i costumi
delle città in cui si recava, ma li studiava in modo approfondito
perché ciò gli permetteva di ottenere vantaggi e
di evitare di ritrovarsi in situazioni spiacevoli.
Il
suo atteggiamento cosmopolita era subordinato alla sua visione
edonistica, giacché la partecipazione alla vita pubblica, così come
intesa dagli antichi Greci, non gli avrebbe permesso di godere con
pienezza dell’esistenza: «La mia via non passa né per il
comando né per la servitù, ma per la libertà, ed è quella che
meglio porta alla felicità».
Dai
sofisti Aristippo non mutuò soltanto il relativismo culturale, ma
prese anche ispirazione, in particolar modo dalle tesi di Protagora,
per concludere che per ogni individuo è vero soltanto ciò che egli
è in grado di percepire.
Una
conoscenza assoluta e completa della realtà è impossibile, perché
non siamo in grado di dire nulla di certo in relazione a ciò che
produce le sensazioni. In altri termini, per Aristippo l’esperienza
sensoriale è conoscibile, mentre la natura delle “cose” che
causano le sensazioni è insondabile.
Ad
esempio, ciascun essere umano può sostenere con certezza di
osservare un oggetto rosso, ma nessuno di essi riuscirà a dimostrare
che la cosa che produce quella sensazione sia effettivamente rossa,
ammesso che questo concetto abbia un senso ed il tutto non si riduca
soltanto all’attribuire un nome ad un fenomeno.
Si
osservi come da un simile riduzionismo sensistico ed individualistico
possa conseguire in modo naturale uno schietto fenomenismo, giacché
se soltanto le sensazioni sono veraci, allora i fenomeni
rappresentano la vera realtà.
Di
conseguenza anche per Aristippo, così come per i Cinici ed i
Megarici, ma per motivazioni differenti, la ricerca teoretica e
quella scientifica passavano in secondo piano, a meno che da esse non
fosse conseguito un qualche vantaggio pratico ai fini del piacere.
Egli
non rinnegò affatto né la cultura né la filosofia, ma a suo avviso
bisognava dare una maggiore importanza allo studio della condotta
morale, così da poter risolvere il problema della felicità
dell’individuo.
Le
conclusioni a cui Aristippo pervenne sono qui di seguito
sintetizzate: la felicità è l’insieme dei piaceri particolari,
passati, presenti e futuri, di cui si è goduto, si sta godendo e
(forse) si potrà godere nella vita; essa però non viene desiderata
di per sé, ma per le singole sensazioni piacevoli di cui è tessuta.
Infatti,
a ben pensare, ogni singolo piacere particolare di cui si compone la
felicità, non può che esser puntuale, ovvero è sempre un qualcosa
che vive nell’attimo presente. Anche per questo, secondo Aristippo,
il piacere fisico, inteso come sensazione corporea immediata, è da
preferire rispetto a quello intellettuale.
Di
conseguenza egli suggeriva di pensare al qui ed ora, cioè al luogo e
all’attimo in cui ciascuno opera e pensa, giacché: «solo il
presente è nostro, non il momento passato né quello che attendiamo,
perché l’uno è già distrutto e dell’altro non sappiano se ci
sarà».
La vita quindi, secondo Aristippo, va affrontata attimo per attimo, godendo del presente, senza desiderare nulla in più rispetto a ciò che ogni istante ha da offrire, evitando di dare valore al ricordo dei piaceri passati e alla speranza rispetto a quelli futuri, senza rimpiangere ciò che è stato, né tormentarsi nell’attesa di ciò che (forse) sarà.
Ma questo significa anche imparare ad accontentarsi del poco ed evitare di lasciarsi trasportare dai desideri, non preoccuparsi per ciò che è avvenuto nel passato e per un possibile futuro che non è neanche detto che si realizzerà.
La via della virtù, dunque, è segnata e consiste nell’imparare a cogliere ed apprezzare il piacere dell’attimo.
Ma
l’indagine filosofica per Aristippo aveva anche un altro importante
compito: quello di aiutare l’individuo a districarsi tra i
possibili piaceri di cui poter godere, consentendogli d’individuare
e gustare i piaceri migliori.
Egli
paragonava quelli che coltivano le scienze, trascurando la filosofia
morale, ai Proci dell’Odissea, che possono avere Melanto, Polidora
e le altre ancelle, ma non la regina Penelope.
Questo
era, in estrema sintesi, il suo pensiero. Ma per comprendere appieno
la filosofia di Aristippo bisogna guardare agli aneddoti riguardanti
la sua condotta di vita.
Non
a caso, più che la sua dottrina, la tradizione ha avuto cura di
tramandare delle storielle dalle quali si evince il rapporto che
Aristippo aveva con le donne, il denaro, i potenti e la povertà.
Egli
viene descritto come un uomo sicuro di sé, dall’umore
costantemente sereno, impavido difronte al dolore e distaccato dalle
proprie ricchezze, freddo ma al tempo stesso umano.
A
proposito di se stesso, Aristippo sosteneva di possedere un
equilibrio interiore tale da poter superare imperturbato le tempeste
della fama, del potere, della ricchezza e dell’eros, senza che esse
alterassero il suo vero essere.
Egli
era anche un gran donnaiolo, nonché un assiduo frequentatore di
etere; si dice che la sua favorita fosse Laide di Corinto, una donna
che, a detta dello scrittore egizio Ateneo, era la più bella della
sua epoca.
Nell’antica Grecia le etere furono una ristretta e ricercata categorie di prostitute formata da donne di grande bellezza, eleganti, cordiali e raffinate, che vantavano anche una formazione artistico-culturale assai elevata.
Oltre che nelle qualità fisiche ed intellettuali, le etere eccellevano anche nella danza, nell’arte e nella musica.
Ciò gli consentiva di offrire sia prestazioni di tipo sessuale che altre tipologie d’intrattenimento, a seconda delle richieste avanzate dai clienti.
Le etere potevano erogare i loro servizi sia in modo occasionale che prolungato nel tempo, fino ad arrivare ad instaurare delle relazioni di concubinaggio stabili negli anni.
Si
trattava a tutti gli effetti di donne libere, che gestivano in
autonomia i propri affari, pagando persino delle tasse calcolate in
base ai proventi realizzati. Molte di esse si arricchirono e misero
in piedi delle specie di agenzie di accompagnatrici.
Le
etere vestivano con abiti ricercati e avevano una gran cura del
proprio corpo. È noto che si depilassero completamente e che
facessero ricorso alla cosmesi.
Alcuni
aspetti della loro cultura divennero popolari e si diffusero nella
vita quotidiana determinando delle mode. Si dice che, ad un certo
punto, le donne ateniesi presero ad imitare lo stile e la cura del
corpo delle etere.
La
loro grande sapienza gli consentiva di dialogare con i potenti ed i
filosofi dell’epoca, con cui venivano in contatto, riuscendo
talvolta ad esercitare una notevole influenza nei loro confronti.
Come abbiamo già anticipato, tra di essi vi era anche il nostro
Aristippo.
A
coloro che lo biasimavano perché frequentava Laide, rispondeva: «Io
posseggo Laide, ma non ne sono posseduto» e aggiungeva: «poiché
la cosa migliore è dominare i piaceri e non lasciarsene vincere, non
il non soddisfarli».
Mentre
con chi gli rimproverava di vivere assieme ad un’etera, si
giustificava così: «Non è forse vero che non ci sarebbe alcuna
differenza tra il prendere una casa in cui abbiano già abitato molte
persone o una in cui non ne sia abitata neppure una? E poi, ci
sarebbe differenza tra il navigare su un’imbarcazione a bordo della
quale innumerevoli persone abbiano già navigato, oppure nessuno?
Allora non fa nessuna differenza nemmeno stare con una donna con la
quale molti abbiano avuto a che fare oppure con una con cui non abbia
avuto a che fare nessuno».
Capitò
anche che un’etera lo assillasse sostenendo di esser certa di aver
avuto un figlio da lui, ma Aristippo le disse: «Puoi affermare
che lo hai avuto da me con quella stessa sicurezza con cui,
passeggiando per una macchia di spini, sapresti indicare proprio
quello che t'ha punta».
Anche
senza farsi carico del mantenimento d’un figlio, la frequentazione
delle etere rappresentava un godimento decisamente dispendioso.
Si
consideri che per trascorrere alcune ore in compagnia di una di esse,
un comune lavoratore dell’epoca avrebbe dovuto accantonare tutto il
suo salario per 4-8 anni di fila. In alternativa, con una cifra
analoga, si sarebbero potuti acquistare 3-6 schiavi.
Una
volta Socrate, stupito per la grande ricchezza di Aristippo, gli
domandò: «Com'è che hai tanto denaro?» ed egli replicò:
«E com'è che tu ne hai tanto poco?».
Uno
dei metodi che Aristippo utilizzava per arricchirsi consisteva nel
tenere lezioni di filosofia a pagamento, proprio come facevano i
sofisti. Ad onor del vero, egli fu il primo tra i socratici a
pretendere un prezzo a coloro che gli chiedevano di ricevere i suoi
insegnamenti.
Ciò
scandalizzò il buon Socrate che, in altre occasioni, aveva già
condannato duramente i sofisti per questo genere di attività,
etichettandoli come “prostituti della cultura”, poiché
professavano la loro arte in modo opportunistico, a scopo di lucro, e
non per amor del sapere e della verità.
Si
dice che Aristippo praticasse un tariffario differenziato con un
prezzo inversamente proporzionale all’intelligenza dello scolaro;
gli allievi più brillanti avevano diritto ad uno sconto, mentre per
i meno dotati la parcella aumentava vertiginosamente.
Un
giorno un tale voleva affidargli il figlio per farlo educare a
dovere. Ma non appena Aristippo gli chiese l’esorbitante cifra di
500 dracme come compenso, quell’uomo iniziò a protestare
ardentemente, sostenendo che con quel denaro avrebbe potuto
acquistare uno schiavo. Al che Aristippo gli rispose di procedere
pure con l’acquisto, dato che, in quel modo, avrebbe potuto avere
due schiavi al prezzo di uno: il nuovo schiavo e suo figlio.
Nonostante
fosse ricchissimo, Aristippo non dava troppa importanza ai soldi e
non era affatto avido.
Un
giorno inviò una certa somma di denaro al suo maestro, forse per
ricompensalo per gli insegnamenti ricevuti e sostenerlo
economicamente, ma Socrate glielo restituì perché il suo daimon non
gli permetteva di accettarlo.
A
volte sciupava le sue ricchezze per comprarsi delle leccornie, come
quando, ad esempio, pagò una pernice cinquanta dracme, sbalordendo
un tale che assistette alla scena: «E tu non l'avresti comprata
per un obolo?», disse Aristippo a quell’uomo. E siccome il
tale rispose di sì, egli replicò: «Ebbene, per me cinquanta
dracme non valgono più di un obolo».
Un
giorno, mentre viaggiava in Africa, Aristippo si rese conto che il
suo schiavo era molto affaticato a causa del peso dovuto alla mole di
denaro che stava trasportando. E allora gli disse: «Getta via
quel che è di troppo, e porta soltanto quel che puoi».
Un’altra
volta si accorse che l’imbarcazione su cui stava navigando era
governata da un gruppo di pirati. E così, fingendosi sbadato,
cominciò a contare il suo oro e lo gettò in mare, disperandosi.
A
chi gli chiese il perché di quella messa in scena, rispose: «Meglio
che quel denaro andasse perduto a causa di Aristippo, piuttosto che
fosse Aristippo ad andare perduto a causa di quel denaro».
Teneva
invece in gran considerazione se stesso ed era assai attaccato alla
vita.
Un
giorno, mentre stava navigando, si scatenò una tempesta e Aristippo
ebbe così tanta paura di morire che un compagno di viaggio prese a
deriderlo: «È strano che un filosofo tema a tal punto la morte,
laddove io, che non sono un saggio, non provo alcun timore». Ed
egli gli rispose: «Non puoi paragonare la mia vita alla tua: io
tremo per la vita di Aristippo, tu per quella di un buono a nulla!».
Quando
non si trovava in balia delle tempeste, Aristippo si adattava con
disinvoltura ad ogni situazione, recitando il ruolo più opportuno, a
seconda dei casi.
Aveva
la grande capacità far apparire accettabile ogni condizione e di
conseguenza si sentiva a suo agio sia alle corti dei re, che nei
luoghi più squallidi, godendo di tutto ciò di cui poteva disporre,
in ogni istante, senza affannarsi per procurarsi ciò che non era
presente.
In
uno dei suoi viaggi incontrò Diogene il cinico, che non perse
occasione per rinfacciare al filosofo di Cirene la sua condotta di
vita. Infatti, oltre a tenere delle lezioni a pagamento, un altro
metodo utilizzato da Aristippo per procurarsi il denaro consisteva
nello sfruttare abilmente i potenti, compiacendoli.
I
due s’incontrarono ad ora di cena, mentre Diogene stava mangiando
una porzione di lenticchie. Così Aristippo, che pur di trascorrere
una vita negli agi delle corti era disposto ad adulare i re, decise
di dargli un consiglio di vita: «Caro Diogene, se tu imparassi ad
essere ossequioso con il re, non saresti costretto a dover vivere
mangiando robaccia come quelle lenticchie». Al che Diogene
rispose: «E se tu avessi imparato a vivere mangiando lenticchie,
ora non saresti costretto ad adulare il re».
Ad
onor del vero, bisogna dire che talvolta l’aneddoto è raccontato
invertendo l’ordine delle battute e sostituendo le lenticchie con
dei cavoli o con delle cime di rapa.
Seconda
questa versione, il Cinico si trovava nei pressi di una fontana
intento a lavare la sua cena a base vegetale. «Se tu sapessi
vivere di cavoli, non dovresti corteggiare i tiranni» disse
Diogene, vedendo passare Aristippo. E quest’ultimo replicò: «Se
tu sapessi vivere con i Re, non dovresti lavare i cavoli».
Comunque
sia andata la storia, Aristippo trascorse molti anni a Siracusa,
prima alla corte di Dionisio il Vecchio poi a quella di Dionisio il
Giovane, conservando però la propria autonomia rispetto ai due
tiranni.
Ci
sono molti aneddoti in merito, ma dalle fonti a nostra disposizione
non è ben chiaro a quale dei due governanti si riferiscano. Li
riportiamo qui di seguito.
Giunto
a Siracusa, Dionisio volle sapere perché Aristippo si fosse recato
alla sua corte: «Per dare ciò che possiedo e prendere in cambio
ciò che mi manca», rispose.
Altri riferiscono che Aristippo fu più esplicito e disse: «Quando
necessitavo di sapienza andavo da Socrate, ora che ho bisogno di
denaro vengo da te».
Dionisio
però lo mise in guardia: «Chi bazzica col tiranno finisce per
divenire suo servo, anche se arriva libero». Ma Aristippo
replicò: «non può esser servo chi arriva libero».
Interrogando
Aristippo sul motivo per il quale i filosofi si recano alle porte dei
ricchi, mentre i ricchi non si recano a quelle dei filosofi, Dionisio
si sentì dire: «Perché gli uni sanno ciò di cui hanno bisogno,
gli altri, invece, non lo sanno».
Una
volta il filosofo di Cirene fu costretto dal tiranno di Siracusa ad
improvvisare un discorso filosofico, ma Aristippo si oppose con le
seguenti parole: «Sarebbe ridicolo se tu, che vuoi imparare da
me l’arte del vivere, volessi insegnarmi quando bisogna farlo».
Dionisio
s’offese per questa battuta e lo relegò all’ultimo posto del
banchetto. Al che Aristippo osservò: «Bene, hai voluto
nobilitare l’ultimo posto» e così il tiranno ricevette la lezione filosofica che aveva richiesto.
Un’altra
volta, invece, Aristippo stava chiedendo a Dionisio un favore per un
suo amico, ma non riusciva ad ottenerlo. Allora si gettò ai piedi
del tiranno e così riuscì a convincerlo.
Più
tardi qualcuno lo schernì per questo gesto, e lui disse: «Che ci
posso fare se Dionisio ha le orecchie nei piedi?» lasciando
intendere che egli stesse manipolando il tiranno per i propri fini.
Una
cosa analoga accadde anche quando Dionisio sputò addosso ad
Aristippo, senza che quest’ultimo si offendesse. A chi gli
rimproverava di non aver reagito, diceva: «I pescatori si fanno
bagnare dall’acqua di mare per pescare un ghiozzo, ed io non dovrei
sopportare un po’ di saliva per catturare una balena?».
Una
volta, per compiacere il tiranno di Siracusa, Aristippo non esitò a vestirsi
da donna per danzare davanti ai commensali. Dionisio, infatti, nel corso
di un banchetto, aveva ordinato d’indossare una veste color porpora
e di mettersi a ballare.
Platone, che era presente in quell’occasione, si rifiutò di obbedire e, per salvare la sua dignità, citò il verso: «non potrei indossare un abito da donna». Aristippo invece eseguì la volontà di Dionisio, con leggerezza ed allegria, giustificandosi con il seguente verso: «anche nelle feste di Dioniso, chi è pura non si corromperà!».
Non
a caso Diogene da Sinope, con la sua acuta ironia, prese a chiamare
Aristippo “cinico regale”. Ma forse, per sottolineare la
sua capacità d’ingraziarsi la simpatia dei potenti, così da
ottenere dei vantaggi, egli avrebbe più correttamente dovuto
accostare la figura del filosofo di Cirene a quella di un gatto.
In
ogni modo, la strategia di Aristippo portò i suoi frutti, e quando
un giorno alcuni gli rinfacciarono di aver preso del denaro da
Dionisio, mentre Platone aveva ricevuto un semplice libro, egli
rispose con ironia che ciascuno aveva ricevuto ciò di cui aveva
bisogno.
Platone
si vendicò scrivendo nel Fedone che il giorno della morte di
Socrate, Aristippo, invece di esser lì presente con gli altri suoi
condiscepoli, si trovava in Egina, un’isoletta rinomata per esser
luogo di piaceri e dissolutezze.
Il
fatto che Aristippo non disdegnasse i godimenti e la ricchezza,
infastidì non pochi e gli venne rinfacciato in molte altre
occasioni, costringendolo ad inventare delle giustificazioni.
A
chi lo redarguiva per la sua vita lussuosa, diceva: «Se il lusso
fosse un male non sarebbe presente nella festa degli dei». Ma
questa battuta non sempre era sufficiente.
Una
volta il sofista Polisseno rimproverò Aristippo perché a casa sua
aveva visto donne bellissime e cibi prelibati. Dopo un po’ di
giorni i due s’incrociarono di nuovo e Aristippo gli disse: «Vuoi
essere nostro ospite oggi?». E siccome Polisseno accettò,
aggiunse: «Perché allora mi rimproveravi? Mi sembra che tu
disapprovi la spesa, non il lusso!».
Un
tale, invece, gli fece notare che egli aveva l’abitudine di
incontrare i filosofi sempre nelle case dei ricchi. E Aristippo gli
rispose argomentando che «anche i medici vanno nelle case degli
ammalati, ma non per questo è meglio essere ammalati piuttosto che
medici».
In uno di questi incontri un
uomo incominciò a vantarsi della vastità della sua erudizione. Al
che Aristippo sgonfiò il suo ego con le seguenti parole: «Chi
mangia moltissimo non è più sano di chi porta alla bocca lo stretto
necessario; allo stesso modo non serve leggere molto ma fare letture
utili».
In
verità Aristippo, in caso di necessità, riusciva ad adattarsi, e ad
essere felice, anche quando si trovava lontano dai godimenti lussuosi
e ricercati.
Un
giorno si concesse un momento di relax in un bagno pubblico assieme
al mitico Diogene da Sinope. Quando i due uscirono dalla vasca,
Aristippo indossò per scherzo il mantello sporco e sudicio del
Cinico, lasciandogli la propria clamide purpurea.
Ovviamente
quando quest’ultimo si accorse che avrebbe dovuto indossare
quell’indumento così sfarzoso e pregiato, preferì andarsene via
completamente nudo!
Questa
vicenda però fece guadagnare ad Aristippo l’ammirazione di
Stratone che, riferendosi al filosofo di Cirene, disse: «Tu solo
hai il dono d’indossare l’elegante clamide e un misero straccio»,
e di Orazio che, del cirenaico,
apprezzava la capacità d’indossare con disinvoltura entrambi i
mantelli.
A
chi voleva sapere cosa avesse guadagnato dalla filosofia, Aristippo
diceva: «La possibilità di trovarmi bene con tutti». E
quando gli chiesero come morì Socrate, rispose: «Come avrei
voluto morire io stesso».
Il
luogo della morte di Aristippo non è noto con certezza: c’è chi
sostiene che spirò a Lipari, nelle Isole Eolie, a causa di una
malattia, e chi invece afferma che infine, dopo un lungo soggiorno in
Sicilia ed una sosta a Lipari, fece ritorno nella sua città natale.
È
noto invece che dopo la morte di Aristippo il Vecchio, la sua
filosofia di vita fu ripresa, ampliata e organizzata in modo
sistematico dai filosofi Arete di Cirene e Aristippo il Giovane:
nacque così la scuola cirenaica.
Arete
di Cirene e Aristippo il Giovane
Nel
corso della sua esistenza, Aristippo ebbe una figlia bellissima:
Arete di Cirene.
Suo
padre si premurò di fornirle un’istruzione adeguata trasferendole
la propria eredità spirituale e facendola studiare, come allieva di
Platone, nella scuola filosofica di Cirene fondata dallo stesso
Aristippo.
Da
grande, Arete divenne lo splendore dell’antica Grecia: a proposito
di lei si dice che abbia posseduto la bellezza di Elena di Troia, la
virtù di Penelope, la penna di Aristippo, l'anima di Socrate e la
lingua di Omero.
Ella si
occupò di filosofia morale, scrivendo una quarantina di libri, che
purtroppo sono andati persi, ed infine, dopo aver insegnato per
trentacinque anni ad Attica, assunse la direzione della scuola
filosofica fondata dal padre.
A
sua volta, Arete ebbe un figlio, che con gran fantasia chiamò
Aristippo, e si occupò personalmente della sua educazione,
trasferendogli la propria eredità culturale.
Una
volta iniziato alle dottrine del nonno, anche Aristippo il Giovane,
anche noto come Aristippo Metrodidatta, divenne un filosofo di
talento e diede degli importanti contributi alla definizione del
pensiero filosofico della scuola cirenaica.
Ad
onor del vero, bisogna dire che non siamo in grado di
discernere con precisione quali tra le dottrine filosofiche che ci
sono state tramandate come patrimonio dei cirenaici siano da
attribuire ad Aristippo il Vecchio, Arete di Cirene e Aristippo il
Giovane.
A
detta di Aristocle di Messene, fu proprio il nipote di Aristippo ad
elaborare la filosofia di suo nonno, fino a renderla un sistema
completo, ma le testimonianze dovute a Platone, Aristotele e
Speusippo, suggeriscono di dover attribuire ad Aristippo il Vecchio
almeno le dottrine fondanti della scuola cirenaica.
Così
come accadde con la scuola dei megarici e con gli esponenti del cinismo,
anche i cirenaici posero l’approccio teoretico e la ricerca
scientifica in secondo piano rispetto alla filosofia morale.
Il
loro interesse principale era prevalentemente di tipo etico, ma a
differenza dei megarici e dei cinici, i membri della scuola di Cirene
svilupparono un’etica piuttosto sofisticata che, stando alle
testimonianze di Sesto Empirico e di Seneca, era suddivisa in cinque
parti e prevedeva rispettivamente:
una fisica, che indagava le cause dei fenomeni naturali; una logica, che si occupava d’individuare un criterio di verità; una gnoseologia, ovvero una teoria della conoscenza; un’analisi intorno alle cose da desiderare e da fuggire, ovvero rispetto al bene e al male; ed infine un’indagine attorno alle passioni, alle sensazioni ed ai sentimenti.
una fisica, che indagava le cause dei fenomeni naturali; una logica, che si occupava d’individuare un criterio di verità; una gnoseologia, ovvero una teoria della conoscenza; un’analisi intorno alle cose da desiderare e da fuggire, ovvero rispetto al bene e al male; ed infine un’indagine attorno alle passioni, alle sensazioni ed ai sentimenti.
La
teoria della conoscenza dei cirenaici rifletteva il pensiero di
Protagora sintetizzato nel suo celebre aforisma: «L'uomo è la
misura di tutte le cose, di quelle che sono per ciò che sono, e di
quelle che non sono per ciò che non sono».
Così
essi ritennero che l’unico modo per cogliere la verità fosse
quello d’affidarsi alla sensazione, e in questo modo ridussero la
logica all’essenziale, finendo per trasformarla in una dottrina che
aveva lo scopo d’individuare un metodo concreto per intercettare la
verità.
Tutta
la conoscenza, dunque, è sensazione immediata ed individuale. Ma la
sensazione, sebbene sia sempre vera per ogni individuo, non può
essere utilizzata per accedere ad una conoscenza oggettiva e assoluta
che sia universalmente valida, ed inoltre non è in grado di dire
nulla in merito alla cosa da cui essa è generata.
L’uomo
può conoscere soltanto le proprie sensazioni, ma esse non possono
che essere degli stati soggettivi che di conseguenza danno luogo ad
una conoscenza intersoggettivamente incomunicabile.
Al
di là della certezza individuale dovuta al fenomeno della
sensazione, non è possibile affermare nulla di certo. La vera natura
di ciò che causa le sensazioni è preclusa alla conoscenza
dell’uomo.
Gli stessi nomi comuni,
che si è soliti attribuire alle cose, sono delle convenzioni, e non
è detto che riflettano la vera caratteristica delle cose,
giacché essi sono associati da ciascuno in base alle proprie
affezioni personali, le quali, però, non sono confrontabili con
quelle degli altri individui ed inoltre non c'è nulla che ci assicuri che
corrispondano alla vera realtà.
Ad esempio, che un
individuo percepisca un cibo come dolce, egli può asserirlo con certezza,
ma che quell’alimento sia effettivamente dolce, non può
saperlo, perché magari ciò che a lui appare come dolce in realtà è
salato.
Ed ancora, che due
soggetti sostengano di percepire il colore rosso osservando un
oggetto, è senz’altro vero, ma magari ciò che uno di essi chiama
rosso, in realtà, nella sua mente appare colorato di verde... e così
via.
Ma che cos’è la
sensazione? Secondo la dottrina dei cirenaici la sensazione è ciò
che emerge da un particolare tipo di “moto”.
Esistono due forme di
movimento: la prima riguarda l’oggetto, ed esercita una potenza
attiva; la seconda concerne il soggetto, ed ha potenza passiva.
L’oggetto dunque agisce
sul soggetto e dall’incontro di queste due forme di moto hanno
origine, da un lato, l’oggetto sensibile e, dall’altro, la
sensazione dell’oggetto.
Per i cirenaici nulla è,
ma tutto si genera, giacché né gli oggetti sensibili, né le
sensazioni ad essi associati, sussistono prima che avvenga l’incontro
dei “moti” responsabili della loro generazione; né essi possono
continuare ad esistere una volta che quell’incontro abbia avuto
termine.
È
interessante osservare come queste tesi, portate alle estreme
conseguenze, conducano ad una sorta di solipsismo ante litteram (dal
latino solus, "solo" e ipse, "stesso", cioè
"solo se stesso"), secondo cui l’universo non sarebbe
altro che una rappresentazione della propria, particolare coscienza.
Inoltre, a detta dei
cirenaici, queste forme di moto, responsabili della generazione degli
oggetti e delle sensazioni, sono numericamente infinite e possono
assumere un’infinità di gradazioni. Ciò spiega la molteplicità
delle cose e delle affezioni che possono essere provate.
In particolare, anche gli
stati emotivi dell’essere umano non sono altro che particolari
tipologie di sensazioni che possono sostanzialmente essere
racchiuse in tre categorie, sebbene ciascuna di esse si distingua
dalle altre soltanto per l’intensità del moto che le caratterizza.
Vi è il piacere, che è
generato da un movimento lieve, paragonabile all’ondeggiare d’un
mare quieto o ad una brezza fresca e leggera in una giornata
assolata;
vi è il dolore, che è
prodotto da un movimento violento, paragonabile ad una potente
tempesta o ad una vorticosa tromba d’aria;
ed infine vi è uno stato
di quiete, in cui non si prova né dolore né piacere, che è
prodotto dalla stasi, ovvero dall’assenza di movimento, ed è
paragonabile ad un mare completamente piatto o all’assenza di
vento.
In altre parole, il moto
che produce la sensazione fa sì che quest’ultima muti in qualità,
all’aumentare della quantità: in assenza di moto non si prova né
piacere né dolore; se il movimento è lieve e dolce, esso produce
piacere; e quando invece il moto si fa eccessivo, divenendo rude e
violento, si ha il dolore.
Siccome
l’unico criterio di verità è da ricercarsi nella sensazione, per
i cirenaici essa è da considerarsi anche come unico criterio
d’azione e di condotta morale. E dovendo decidere tra assenza di
passioni, piacere e dolore, essi non esitarono a scegliere il
piacere, elevandolo ad unico ed universale obiettivo, comune a tutti
gli esseri umani.
Il fine dell’esistenza,
dunque, risiede nella ricerca del piacere. Non a caso l’essere
umano, così come anche gli altri animali, tende spontaneamente ad
esso e rifugge dal suo contrario, cercando di evitare il dolore.
I
cirenaici sostenevano anche che ogni piacere in sé fosse un bene e
che non esistesse una distinzione tra piaceri buoni e cattivi, in
quanto essi si differenziano soltanto in base alla loro gradazione
d’intensità.
Socrate
aveva sostenuto che i piaceri dell’intelletto fossero i più
elevati tra quelli che un essere umano avrebbe potuto sperimentare
nel corso della vita.
I
cirenaici negarono questa tesi ritenendo che le sensazioni fisiche,
piacevoli o spiacevoli, siano decisamente più intense rispetto a
quelle psichiche; per questo motivo i malvagi venivano puniti
procurandogli dei dolori fisici e non mentali. Di conseguenza i
piaceri fisici sono da preferire rispetto a quelli spirituali.
Ma
il piacere fisico ha un’altra caratteristica: esso è sempre
puntuale e si presenta soltanto nel momento presente.
Il godimento
fisico vissuto nel passato non c’è più, e quello di cui si potrà
godere nel futuro non è detto che giungerà.
Per giunta, esso, oltre ad essere particolare e circostanziato, è sempre un piacere “attivo”, che scaturisce dalla sensazione prodotta dall’incontro tra soggetto e oggetto.
Tenuto
conto di questi aspetti si può concludere che la felicità non è
altro che la risultante di tutti i singoli istanti di piacere di cui
si ha modo di godere.
Il
vero fine, dunque, è il godimento particolare, mentre la felicità è
ciò che consegue da essi. Pertanto la felicità non va ricercata in quanto
tale, ma sopraggiunge come effetto secondario dovuto al corretto modo
di vivere, orientato ad un piacere ricercato istante per istante, nel
qui ed ora.
Si comprende quindi la
netta distanza tra le posizioni dei cirenaici e quelle che, circa un
secolo più tardi, sarebbero state sostenute da Epicuro, secondo cui
il miglior piacere da ricercare non è quello attivo, bensì quello
statico, associato alla mancanza di movimento, prodotto dall’assenza
di dolore e dall’eliminazione del turbamento dell’animo, che
consente all’essere umano di evitare d’affannarsi con una
continua ed effimera ricerca del godimento.
Ai cirenaici queste tesi
non sarebbero affatto piaciute, perché, a loro avviso, evitando il
dolore e la ricerca del piacere fisico, l’essere umano si sarebbe
trovato a sperimentare una sorta di stato di sonno e, di conseguenza,
non avrebbe potuto vivere con pienezza la propria esistenza.
A loro avviso la virtù
non consisteva nell’essere in grado di allontanare le passioni, ma
nello sviluppare un grado di autodominio tale da riuscire a
sperimentarle senza esserne dominati.
Ciò che è turpe non è
il piacere, ma il restarne vittima. Soddisfare le passioni non è un
male, lo è il lasciarsi travolgere a causa di un eccessivo
coinvolgimento. Il godimento non è da condannare, ma bisogna stare
molto attenti alle insidie che esso sottende.
A volte, infatti, le cose
che producono piacere hanno una natura dolorosa. Di conseguenza, la
ricerca dei godimenti richiede saggezza ed intelligenza. Per questo
motivo, in generale, il sapiente riesce ad avere un’esistenza
migliore rispetto all’ignorante.
Così come suggerito da
Aristippo, anche i cirenaici ritennero che le leggi, l’organizzazione
politica, la famiglia e la religione, fossero delle convenzioni
sociali e non avessero valore di per sé, ma soltanto in relazione
alla possibilità di sfruttarle a proprio egoistico vantaggio.
Ciò che per i membri
delle civiltà con cui si veniva in contatto aveva valore, andava
conosciuto e talvolta addirittura rispettato, perché ciò avrebbe
consentito al sapiente di evitare di ritrovarsi in situazioni
dolorose e di procurarsi qualche forma di piacere.
Questo era, in estrema
sintesi, il pensiero dei cirenaici nel periodo in cui essi
raggiunsero la loro acme.
Ciò che avvenne da lì in
avanti è presto detto: nonostante il grande lavoro di
sistematizzazione, probabilmente effettuato da Aristippo il Giovane,
la scuola di Cirene non ebbe lunga vita.
Essa, infatti, si
frammentò per opera dei suoi stessi seguaci, dando origine ad una
moltitudine di sottocorrenti minoritarie.
Successivamente anche
queste nuove concezioni finirono per dissolversi e vennero superate
dall’edonismo epicureo, assai più complesso e ricercato rispetto
ad esse.
Tra i più importanti
esponenti responsabili della frammentazione della scuola cirenaica,
citiamo: Teodoro, Egesia ed Anniceride.
Teodoro di Cirene
Teodoro
di Cirene (340 a.C. - 250 a.C. circa) fu uno di quegli esponenti
della scuola di Cirene che cominciarono a discostarsi dalla corrente
di pensiero avviata da Aristippo.
Il
principale motivo di rottura riguardò l’individuazione del fine
dell’essere umano. I cirenaici si erano convinti che il fine fosse
il piacere, riferendosi in particolar modo al godimento fisico ed
immediato circostanziato nell’istante presente.
Teodoro
invece riteneva che il vero fine fosse la gioia, spostando così
l’ideale edonistico dal piacere istantaneo corporeo ad uno stato di
soddisfazione duratura dell’animo. Inoltre aggiunse che questo
sentimento di costante, pieno e vivo appagamento spirituale, non
poteva essere raggiunto senza coltivare la sapienza: così come la
gioia è posta nella saggezza, la tristezza è posta
nell’insensatezza.
Il
piacere ed il dolore non sono né beni né mali: presi di per sé
essi sono indifferenti. I veri beni sono la saggezza e la giustizia,
mentre i mali sono l’insensatezza e l’ingiustizia.
Si
dice che Teodoro coltivò la sapienza fino al punto d’arrivare a
demolire tutte le opinioni espresse dagli antichi greci attorno alle
divinità.
Stando
alla testimonianza di Cicerone, la sua polemica antireligiosa non si
arrestò alla negazione dell’esistenza degli dei del culto
popolare: egli sosteneva l’inesistenza di ogni divinità.
A
causa del suo ateismo fu soprannominato l’Ateo e venne cacciato in
malo modo da Atene; non che a Teodoro importasse più di tanto di
quella città, dal momento che egli sosteneva che per il sapiente
l’unica vera patria è l’universo.
E
siccome è da sconsiderati gettar via la propria saggezza per
l’utilità degli insensati, allora è anche ragionevole che l’uomo
di valore non si sacrifichi per ciò che i più chiamano, a torto,
patria.
Teodoro
parlava in modo franco con chiunque ed aveva una gran considerazione
di sé. Quando il re Lisimaco gli chiese: «Non te ne andasti
dalla tua patria spinto anche dall’invidia?», egli rispose:
«Non dall’invidia, ma dai pregi della mia natura, ai quali la
mia patria non faceva posto sufficiente».
Oltre
agli dei ed alla patria, Teodoro rifiutò anche il valore
dell’amicizia in quanto essa era insussistente sia per gli
insensati che per i saggi.
Per i
primi, infatti, l’amicizia si risolve in un rapporto d’utilità,
tanto è vero che quando l’uno non ha più bisogno dell’altro,
anche l’amicizia sfuma; i secondi, invece, non ne hanno affatto
bisogno, perché sono autosufficienti e bastano a se stessi.
Qual
è, dunque, il comportamento che si addice al saggio?
Quello
di far uso di ciò che egli brama apertamente e senza alcuna
esitazione, ma soltanto al momento opportuno.
Si
può rubare, commettere adulterio e perfino compiere sacrilegi,
perché nessuna di queste cose è turpe per natura, ma è giudicata
tale a causa dell’opinione che sussiste per accordo degli stolti.
Di
conseguenza il saggio potrà fare tutto ciò che egli ritiene utile e
desiderabile per se stesso, violando le leggi e le convenzioni
sociali, qualora fosse necessario.
Egesia di Cirene
Egesia
di Cirene fu un filosofo greco antico vissuto nel IV secolo a.C. al
tempo del sovrano macedone Tolomeo I.
Fu un
allievo della scuola cirenaica e ne abbracciò la concezione
edonistica, ma ben presto si discostò dalle tesi di quell’indirizzo
filosofico traendo delle conclusioni decisamente pessimistiche: la
felicità è un’illusione ed è concretamente impossibile da
conseguire; vivere o morire è indifferente.
Com’è
possibile che Egesia finì per sostenere delle posizioni così
negative?
Egli
ribadì il principio fondamentale dei cirenaici, secondo cui il fine
della vita è da individuarsi nel piacere, ma pose l’accento
sull’analisi della sua effettiva realizzazione.
In
questo modo si convinse che il piacere fosse sì qualcosa di
raggiungibile, ma soltanto in modo sporadico ed aleatorio, mentre il
suo contrario, il dolore, riusciva sempre ad avere il sopravvento.
Il
corpo, infatti, è destinato a subire mille turbamenti e l'anima a
soffrire con il corpo, ma anche se per assurdo tutto ciò non
avvenisse, l’essere umano sarebbe comunque tormentato da sentimenti
e pensieri.
Come
se ciò già non bastasse, nel corso della vita bisogna scontrarsi
anche con la cattiva sorte, che ha il potere di rendere vane le cose
ambite e desiderate.
Di
fatto, l’individuo è impotente rispetto al proprio destino, perché
in realtà gli eventi sono determinati, più che dai propri sforzi,
da Tyche, la dea della fortuna.
Chiunque
può constatare che i casi favorevoli sono di gran lunga inferiori
rispetto a quelli sfavorevoli. Di conseguenza, i piaceri della vita
sono quasi sempre irraggiungibili, mentre i dolori e i dispiaceri
sono praticamente certi.
Egesia
relativizzò anche il concetto di piacere, sostenendo che esso non
sia un qualcosa di oggettivo o di naturalmente determinato, ma che vari da persona a persona e da situazione a situazione.
Così
può accadere che ciò che per alcuni è considerato piacevole, sia
giudicato spiacevole da altri, e persino lo stesso individuo, in
un’altra situazione, potrebbe reputare spiacevole ciò che in
passato aveva giudicato piacevole.
A
causa della novità, della rarità o della sazietà, può verificarsi
che taluni godano della medesima cosa che altri evitano ben
volentieri.
Egesia svalutò anche le sensazioni, che invece i cirenaici aveva elevato a criterio di verità, perché si rese conto che da esse non consegue una conoscenza certa. Sicché vi è incertezza, non solo rispetto ai piaceri, ma anche rispetto alle cose che ciascuno reputa esser vere sulla base delle proprie sensazioni.
A suo
avviso, il piacere e l’utilità esauriscono i valori dell’essere
umano: gratitudine, amicizia e beneficenza non sono nulla di per sé,
esse sussistono fin quando vi è un rapporto d’utilità, senza il
quale anch’esse decadono.
Tutto
ciò autorizzava Egesia a sostenere l’impossibilità del
conseguimento di una felicità intessuta da tanti piccoli godimenti,
che difficilmente si sarebbero potuti sperimentare nel corso
dell’esistenza e in ogni caso sarebbero stati sovrastati dagli
eventi avversi, dolorosi e spiacevoli.
Pertanto,
il modo corretto di vivere, secondo Egesia, non consiste
nell’affannarsi avventurandosi in una vana ed illusoria ricerca
della felicità, ma nel tentare, per quanto possibile, di scansare i
dolori, restando indifferenti ai piaceri.
Perciò
il sapiente non spenderà le proprie energie per procurarsi i beni ma
per evitare i mali, scegliendo per sé una vita che non risulti né
faticosa, né dolorosa.
In
questo modo egli operò per primo una inversione dell'edonismo
positivo di Aristippo, volto alla ricerca attiva dei piaceri,
trasformandolo in un edonismo negativo, il cui scopo ultimo consiste
nell’allontanare il dolore, attraverso un’etica fondata sulla
rinuncia e l'indifferenza.
Ma
tutto ciò poteva essere conseguito soltanto coltivando uno stato
d’animo distaccato rispetto alle cose, ai piaceri ed alla stessa
vita, perché
se non è possibile essere felici, allora vita e morte sono da
scegliersi senza alcuna preferenza.
Soltanto l’individuo insensato può considerare il vivere come un qualcosa di vantaggioso, l’uomo saggio lo reputa indifferente.
Soltanto l’individuo insensato può considerare il vivere come un qualcosa di vantaggioso, l’uomo saggio lo reputa indifferente.
Anzi,
se si riflette con attenzione, prosegue Egesia, ci si accorge che la
morte non dev’essere in alcun modo temuta, perché essa non ci
allontana dai beni della vita, ma dai mali.
Si
narra che la diffusione di queste tesi provocò delle reazioni
catastrofiche nei cittadini di Alessandria d’Egitto: tale era la
forza del pessimismo di Egesia che alcuni, dopo averlo ascoltato, si
procuravano spontaneamente la morte.
A
causa di ciò Egesia venne soprannominato “persuasore di morte”
(o anche come “avvocato della morte”) ed il re Tolomeo I
dovette intervenire vietando l’insegnamento delle sue dottrine che
istigavano al suicidio.
Anniceride di Cirene
Anniceride di Cirene, da
non confondere con il suo omonimo noto per aver riscattato Platone
dalla schiavitù, fu uno degli ultimi filosofi della scuola
cirenaica.
Visse tra il IV e il III
secolo a.C. e fu il filosofo che più di tutti tra i cirenaici si
discostò dalla spregiudicatezza di Aristippo, e ancor più di
Teodoro l’Ateo, e dal pessimismo di Egesia.
A differenza dei suoi
precedessori, Anniceride si rese conto della grande importanza che le
interazioni sociali rivestono nella ricerca della felicità.
Per questo basò la
propria filosofia morale sulla simpatia verso i propri simili e
rivalutò quei valori che fino ad allora erano stati screditati dai
cirenaici, come ad esempio: l’amicizia, l’altruismo, la
riconoscenza, il sacrificio, i legami familiari e addirittura l’amor
di patria.
Così facendo Anniceride
ruppe il celebre individualismo dei cirenaici, adottando una visione
edonistica che ricerca il piacere assieme agli altri. E non di meno
si discostò dalla tipica visione cosmopolita degli esponenti della
scuola di Cirene.
Egli sosteneva che non si
può ottenere il massimo del piacere senza aprirsi agli altri,
sforzandosi di comprendere i bisogni reciproci, così da tendere
assieme al bene comune. Viceversa, escludendo dalla ricerca della
felicità i propri simili, molte occasioni per conseguire il piacere
sarebbero andate perdute.
L’amicizia non deve
fondarsi sull’utilità, e tanto meno deve dissolversi qualora
quest’ultima venisse meno: essa deve scaturire dalla benevolenza.
L’affetto degli amici è
una forza che consente di sopportare e superare i dolori.
Non si deve attribuire
valore soltanto al piacere fisico, perché se è vero che i godimenti
del corpo possono essere colti soltanto nell'instante in cui vengono
prodotti, quelli spirituali si prolungano nel tempo, possono essere
rievocati e produrre conforto nei momenti di difficoltà.
Ammettendo nella propria
vita l’amicizia, la gratitudine, il rispetto per la famiglia e
l’adoperarsi per la patria, il saggio riuscirà ad esser felice,
anche se nel corso della sua esistenza proverà soltanto piccoli
piaceri e subirà grandi fastidi.
Mirco Mariucci
Fonti
- Il pensiero occidentale, di Giovanni Reale e Dario Antiseri.
- Storia della filosofia, di Luciano De Crescenzo.
- Storia della filosofia, di Nicola Abbagnano.
- Storia del pensiero scientifico e filosofico, di Ludovico Geymonat.
- Vite dei filosofi, Diogene Laerzio.
Scuola cirenaica
- Scuolacirenaica, Wikipedia.
- Cirenaici,Treccani, Enciclopedia Italiana, Guido Calogero, 1931.
- Cirenaica,scuola, Treccani, Dizionario di filosofia 2009.
Aristippo di Cirene
- Aristippo,Wikipedia.
- Aristippodi Cirene, Treccani, Dizionario di Filosofia.
- Aristippo,Filosofico.net.
Arete di Cirene
Teodoro l'Ateo
Egesia di Cirene
- Egesiadi Cirene, Wikipedia.
- Egesiadi Cirene, Treccani, Enciclopedia Italiana (1932).
- Egesia,Filosofico.net.
Anniceride di Cirene
- Anniceridedi Cirene, Wikipedia.
- Anniceride,Filosofico.net.
- Anniceride,Treccani, Enciclopedia Italiana (1929).
Etere
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