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sabato 15 febbraio 2020

L’edonismo di Epicuro. Vita e pensiero del fondatore dell’Epicureismo.



Note biografiche

Epicuro (Samo, 342 a.C. – Atene, 270 a.C.) fu il fondatore di una della maggiori scuole filosofiche dell’età ellenistica: l’epicureismo.

Figlio di Neocle, un maestro di scuola, e di Cherestrata, una maga, Epicuro (in greco antico: Ἐπίκουρος, Epíkouros, che significa “alleato”, “compagno” o “soccorritore”) venne alla luce, e trascorse la sua giovinezza, a Samo.

Cominciò ad interessarsi alla filosofia già all’età di quattordici anni ascoltando le lezioni di Pànfilo, un filosofo platonico che instillò nell’animo di Epicuro una profonda avversione per il platonismo.

Successivamente divenne scolaro di Nausifane, un pensatore democriteo che impartiva i suoi insegnamenti in una città dell'Asia Minore di nome Teo.

Questa volta, però, le tesi del nuovo maestro fecero breccia nello spirito dell’allievo e lo trasformarono in un convito atomista.

A 18 anni Epicuro dovette recarsi ad Atene per compiere il servizio di efebato richiesto ai giovani della sua età: si trattava di un periodo di addestramento fisico e militare della durata di due anni.

Alcuni ritengono che, in questa fase della sua vita, Epicuro abbia avuto modo di ascoltare le lezioni di Aristotele, il fondatore del Liceo, e di Senocrate, un filosofo platonico che, all’epoca, era a capo dell’Accademia di Platone, ma questi fatti non sono storicamente appurati.

Con il trascorrere del tempo, il pensiero di Epicuro maturò e così, dopo aver elaborato un sistema filosofico originale, divenne egli stesso un maestro di filosofia.

La sua nuova attività cominciò all’età di trentadue anni tenendo personalmente delle lezioni e fondando delle piccole comunità di filosofi, dapprima a Mitilene e poi a Lampsaco.

Qualche anno più tardi Epicuro si ritrasferì, per l’ultima volta, ad Atene, dove acquistò una casa con un grande giardino, adibito ad orto, e vi fondò una scuola sui generis, dando il via ad una sorta di rivoluzione spirituale laica.

Il resto della sua esistenza la trascorse animando una comunità filosofica e tollerando, con grande forza d’animo, i problemi dovuti ad una salute malferma, fin quando, all’età di 71 anni, morì dopo due settimane di sofferenze causate (pare) da dei calcoli renali.

Egli fu il primo pensatore a sostenere che un uomo può esser felice anche in mezzo alle torture. E ne diede testimonianza con due sue lettere, scritte proprio nei giorni di fase acuta della malattia che lo colpì così duramente da sottrargli la vita.

Al loro interno, oltre a comunicare la propria serenità d’animo dovuta all’imminente fine delle sue sofferenze, Epicuro si preoccupò che, dopo la sua dipartita, i discepoli più fedeli avessero cura dei figli di Metrodoro, suo intimo amico, nonché il filosofo più illustre tra gli epicurei, il quale era a sua volta deceduto da circa sette anni.

Secondo lo storico Diogene Laerzio, negli ultimi istanti della sua esistenza, Epicuro s’immerse in una tinozza di bronzo piena d’acqua calda e con il medesimo sorso con cui ingurgitò tutto d’un fiato del vino puro, bevve anche il freddo della morte.

Il Giardino di Epicuro

Siccome Epicuro teneva lezione, e conduceva vita comune con i suoi discepoli, nell’orto della propria abitazione, il termine “Giardino” finì per indicare la sua scuola e le espressioni “quelli del Giardino”, o anche “i filosofi del Giardino”, identificavano gli stessi epicurei.

Avvolto dai dolci suoni della campagna, e tenendosi ben lontano dalla vita politica, Epicuro accolse nella propria abitazione un gran numero di seguaci, tra cui vi erano anche donne, prostitute, meteci e schiavi.

Ricchi o poveri, cittadini o stranieri, il Giardino era aperto a tutti coloro che intendevano sposare la concezione epicurea. Null’altro era richiesto.

Nacque così una comunità filosofica di amici, incentrata sulla figura di Epicuro, dove si viveva nella semplicità e nell’uguaglianza, ed ogni compagno veniva rispettato, prescindendo dalla sua estrazione sociale.

La nobiltà dell’amicizia degli epicurei era così grande da esser nota in tutto il mondo antico. Si consideri anche che Epicuro fu uno dei primi pensatori a teorizzare ed applicare un egualitarismo sostanziale tra gli esseri umani.

La frugalità dei filosofi del Giardino era dovuta, da un lato, alla concezione filosofica di Epicuro, e dall’altro, alla mancanza di denaro.

Gli epicurei vivevano essenzialmente di pane, acqua, frutta ed ortaggi, e la loro comunità si sosteneva, in una certa misura, grazie alle donazioni.

Ciò può essere dedotto dalle stesse parole di Epicuro: «Tutto trabocca il mio corpo di dolcezza, quando vivo a pane e acqua, e sputo sui piaceri di vita sontuosa, non per loro medesimi, ma per gli incomodi che vi si accompagnano».

Egli, infatti, osservava un regime dietetico vegetariano e consigliava a tutti di astenersi dal consumo di carne, iniziando i suoi discepoli al rispetto degli animali, i quali, essendo dotati di sensibilità, ricercano il piacere e rifuggono dal dolore, proprio come gli esseri umani.

È noto, inoltre, che Epicuro intrattenesse dei rapporti epistolari con amici e discepoli, nei quali, oltre a compendiare la propria dottrina, avanzava delle richieste di aiuto economico da corrispondere in natura: «Mandami un po’ di formaggio conservato, tanto mi piace che per me sarà una festa!».

Altre volte, invece, richiedeva esplicitamente delle modeste somme di denaro: «Mandaci offerte per il sostentamento della nostra santa comunità nell’interesse tuo e dei suoi figli».

Anche il Giardino, così come accadde con molte altre scuole dell’antica Grecia, aveva il carattere di un’associazione religiosa. In questo caso, però, vi era una differenza sostanziale: il culto degli epicurei non era rivolto a qualche divinità, bensì allo stesso Epicuro, in carne ed ossa.

Egli esercitava sui propri discepoli una grande autorità, che si traduceva nella stretta osservanza della dottrina epicurea ed in un rigido dogmatismo reverenziale.

Basti sapere che le tesi degli epicurei furono dettate, una volta per tutte, dallo stesso Epicuro e col passare dei secoli rimasero pressoché inalterate.

La riconoscenza nei confronti del maestro era così grande, che i suoi discepoli gli tributarono onori e glorie sin da quando egli era ancora in vita.

Dopo la sua morte, la figura di Epicuro sfumò nel mito a tal punto che per i discepoli degli anni a venire egli non era più soltanto una grande guida spirituale, ma una sorta di divinità scesa sulla terra, la cui memoria veniva celebrata il ventesimo giorno di ogni mese.

In estrema sintesi, il compito degli epicurei consisteva nel leggere, nello studiare e nel mettere in pratica, gli scritti e la filosofia di Epicuro, modellando la propria condotta di vita sulla base dell’esempio del loro mentore.

I seguaci apprendevano una sorta di credo e lo applicavano senza rimetterlo in discussione. Il precetto fondamentale della scuola era il seguente: «Comportati sempre come se Epicuro ti vedesse» anche quando egli è assente.

Per questo motivo Seneca sostenne che le grandi anime epicuree non le fece tanto la dottrina di Epicuro, bensì l’assidua frequentazione del loro maestro.

Caratteristiche dell’epicureismo

Nel corso della sua vita Epicuro riuscì a redigere una vastissima produzione letteraria composta da oltre 300 scritti.

Disgraziatamente, dei numerosi testi epicurei soltanto una piccola parte è giunta fino a noi: si tratta di tre lettere, un Testamento, due raccolte di citazioni (le Massime Capitali e le Sentenze Vaticane), pervenuteci per intero grazie all’opera dello storico Diogene Laerzio, e un certo numero di frammenti, in parte provenienti da un’opera intitolata Sulla Natura.

Al loro interno, Epicuro si occupò delle tematiche più disparate. Ad esempio, nelle lettere indirizzate a Erodoto, Meneceo e Pitocle egli fece rispettivamente una trattazione riassuntiva del suo pensiero in relazione alla fisica, all’etica e all’astronomia, mentre nelle Sentenze Vaticane i temi affrontati sono prevalentemente di tipo etico. Le Massime, invece, compendiano la dottrina epicurea in forma aforismatica.

Nonostante ciò, la maggior parte dell’attuale conoscenza della filosofia epicurea è dovuta alle fonti indirette, tra le quali le più significative sono quelle di Cicerone, che nel suo De finibus bonorum et malorum espose in modo sistematico il pensiero di Epicuro con un intento polemico, e di Tito Lucrezio Caro, un poeta e filosofo romano, tra i più illustri seguaci dell'epicureismo, che nel suo impareggiabile poema De rerum natura si fece portavoce delle teorie epicuree mettendole in versi con un intento celebrativo.

La filosofia del Giardino sviluppata da Epicuro era in aperto contrasto sia con le dottrine socratico-platoniche che con la visione aristotelica, ma polemizzava pure con le correnti filosofiche minori dell’epoca, come quelle dei cinici, dei megarici e dei cirenaici, e per giunta si opponeva anche all’altra grande scuola ellenistica, che si stava formando proprio in quel tempo: lo stoicismo.

Di conseguenza Epicuro dovette concepire un sistema filosofico sufficientemente ampio e sofisticato da reggere il confronto con le altre visioni del mondo.

Per questo motivo egli si occupò di logica, fisica ed etica, concependo una cosmogonia ed una gnoseologia, fornendo una spiegazione sia per la formazione dell'universo che della conoscenza, ma trattò anche questioni teologiche e sociologiche, potendo così suggerire all’umanità quale fosse la via regia da seguire nel corso dell’esistenza.

Egli, infatti, voleva insegnare come vivere serenamente, liberando gli esseri umani da una serie di paure infondate che impediscono di essere felici.

Per Epicuro, quindi, il valore della filosofia è puramente strumentale; il suo compito consiste nel trovare un modo per essere felici, qui, sulla Terra: «Chi dice che l'età per filosofare non è ancora giunta, o è già trascorsa, è come se dicesse che non è ancora giunta, o è già trascorsa, l'età per essere felici».

La stessa cosa vale anche per la scienza che intende indagare le cause del mondo naturale; grazie ad essa, infatti, l’essere umano avrebbe potuto comprendere la realtà, dissolvendo così delle paura illusorie.

Ciò è talmente vero per Epicuro, che egli arrivò addirittura a sostenere che: «Se non fossimo turbati dalla paura dei fenomeni celesti e della morte, ch'essa possa essere qualcosa che ci tocchi da vicino, e dal non conoscere il limite dei piaceri e dei dolori, non avremmo bisogno della scienza della natura».

Pertanto, nella dottrina epicurea la ricerca speculativa non rappresentava un fine in sé, come invece avevano sostenuto alcuni tra i più autorevoli filosofi del periodo classico, ma era subordinata ad un obiettivo pratico (l’ottenimento della felicità) a cui veniva riconosciuto valore indipendentemente dalla ricerca stessa.

Così come fecero anche gli stoici, Epicuro tripartì la propria concezione filosofica in logica, fisica ed etica.

La logica epicurea riguarda le forme della conoscenza ottenibili dall’essere umano; il suo compito consiste nell’elaborazione dei canoni, ovvero dei criteri, grazie ai quali si può conoscere la verità.

Per questo motivo essa passò alla storia con il nome di Canonica, che sta a significare la dottrina del canone della verità sviluppata da Epicuro.

La fisica epicurea concerne la natura della realtà in cui l’essere umano è immerso; il suo obiettivo è di studiare la costituzione di ciò che esiste effettivamente.

L’etica epicurea, invece, s’interessa del modo in cui è più conveniente agire all’interno della realtà; il suo proposito è di stabilire quale sia il fine ultimo per l’essere umano e di individuare i mezzi per perseguire concretamente tale fine.

Come avremo modo di comprendere, Epicuro sviluppò la sua logica in termini strettamente fisici, tanto che si potrebbe sostenere che, in realtà, l’epicureismo si componga soltanto di due parti: la fisica e l’etica.

Inoltre, come abbiamo già anticipato, la stessa fisica era a sua volta subordinata all’etica, ancor più di quanto la logica lo fosse rispetto alla fisica.

La vetta di pensiero più elevata raggiunta dalla filosofia di Epicuro consiste nell’elaborazione di un tetrafarmaco (quadrifarmaco), vale a dire una sorta di medicina spirituale in grado di guarire l’essere umano dalle quattro paure fondamentali che, secondo Epicuro, impediscono all’individuo di condurre un’esistenza serena e felice.

I quattro mali a cui bisogna assolutamente porre rimedio sono i seguenti:

1) la paura degli dei;
2) la paura della morte e dell’aldilà;
3) la paura rispetto al dolore fisico e quello mentale;
4) la paura di non riuscire ad essere felici.

Per comprendere come Epicuro liberò l’umanità da queste grandi paure, bisogna addentrasi nei meandri della filosofia del Giardino...

La fisica

Ad onor del vero, bisogna dire che per quanto riguarda la fisica Epicuro, nonostante rivendicasse l’originalità delle proprie tesi, non fu poi così innovativo: egli riprese, in sostanza, le teorie atomistiche di Leucippo e Democrito introducendo alcune modificazioni di secondaria importanza.

In questo modo ottenne una teoria materialistica e meccanicistica che non lasciava alcuno spazio ad interventi divini e principi spirituali di carattere metafisico: la realtà è costituita unicamente da corpuscoli indivisibili in movimento entro il vuoto, e tutto ciò è più che sufficiente per spiegare il funzionamento del mondo, escludendo qualsiasi finalismo.

Epicuro sosteneva che ognuno avrebbe potuto ricavare, e giustificare, la sua fisica combinando i sensi con la ragione, ma in realtà, per rendere il suo sistema filosofico completo e coerente rispetto alla propria visione etica, non esitò ad introdurre dei postulati arbitrari.

Cerchiamo quindi di dedurre la fisica epicurea ragionando proprio come avrebbe potuto fare lo stesso Epicuro.

Per prima cosa osserviamo che nulla nasce dal non essere, e nessuna cosa si dissolve nel nulla.

Questa tesi è giustificata sia dall’esperienza che dal ragionamento. Nessuno, infatti, ha mai visto qualcosa apparire dal nulla o dissolversi nel non essere.

Del resto, se ciò fosse possibile, ogni cosa, anche la più assurda, potrebbe generarsi comparendo dal nulla, senza che vi sia un qualche seme generatore.

Se poi fosse vero che le cose potessero svanire nel nulla, a quest’ora tutto si sarebbe dissolto e non esisterebbe più niente.

Dunque, siccome ciò che esiste non compare, né svanisce, dal, e nel, nulla, allora la stessa cosa può dirsi per il Tutto. Sicché la realtà, qualunque essa sia, è eterna ed increata.

In secondo luogo si può osservare come il Tutto sia composto soltanto da due tipologie di costitutivi essenziali: i corpi ed il vuoto.

Per provare l’esistenza dei corpi è sufficiente l’esperienza diretta che ciascun essere umano ha con essi. L’esistenza del vuoto, invece, dev’essere inferita osservando che i corpi possono muoversi.

Infatti, se non esistesse il vuoto, sostiene Epicuro, il moto sarebbe impossibile, perché i corpi non riuscirebbero a spostarsi. Ma il moto viene quotidianamente osservato, dunque il vuoto esiste.

Per Epicuro il vuoto non è “non essere”, ma è “spazio” caratterizzato da una natura intangibile entro cui ha luogo il moto.

Al di fuori del vuoto non esiste null’altro d’incorporeo e, a differenza dei corpi, che possono agire o subire un’azione, il vuoto non può far altro che permettere alle cose corporee di spostarsi attraverso di sé.

A proposito della natura dei corpi si possono aggiungere ancora degli ulteriori dettagli di fondamentale importanza.

L’esperienza c’insegna che ogni cosa è soggetta alla disgregazione. Partendo da questo dato di fatto si possono dedurre due cose:

la prima, è che i corpi sono formati da altri corpi di più piccole dimensioni, giacché se così non fosse le cose non potrebbero disgregarsi;

la seconda, è che ogni corpo non è altro che l’unione di corpuscoli indivisibili, ovvero gli atomi. Infatti, se da un lato è vero che i corpi possono disgregarsi, dall’altro è altrettanto vero che nulla svanisce nel nulla.

Quindi, ad un certo punto, il processo di disgregazione deve arrestarsi e ciò che rimane sono i costituenti ultimi dei corpi, ovvero gli atomi, che per loro natura non possono essere ulteriormente disgregati.

Alla medesima conclusione si può arrivare osservando che se non esistessero dei corpuscoli indivisibili assemblati tra loro così da formare i corpi, allora la degradazione delle cose potrebbe andare avanti senza limite.

Ma così facendo, iterando all’infinito una progressiva suddivisione dei corpuscoli che formano i corpi, si giungerebbe alla conclusione paradossale che quest’ultimi siano formati dal nulla e, di conseguenza, tutte le cose si dissolverebbero nel non essere. Il che è assurdo.

A differenza di Aristotele, Epicuro non ammetteva un quinto elemento per spiegare la natura del mondo celeste, giacché, a suo avviso, tutto è fatto di atomi che si muovono nel vuoto.

Egli polemizzò anche con Platone, che riteneva di aver individuato la composizione degli elementi fondamentali del cosmo associandoli ai cinque solidi regolari (il tetraedro al fuoco, il cubo alla terra, l'ottaedro all'aria, l'icosaedro all'acqua ed il dodecaedro all’etere).

Ma se Platone non è nemmeno riuscito a dimostrare che questi solidi non sono indivisibili, come si può accettare che essi siano i costituenti ultimi della realtà?

Per Epicuro le cose del mondo sono formate soltanto da atomi e, in ultima analisi, l’ordine del cosmo è determinato dalle leggi che regolano il moto di questi corpuscoli indivisibili.

I concetti di “nascita” e “morte”, di ciò che esiste nella realtà, possono essere spiegati come aggregazione e disgregazione di corpi e corpuscoli.

Lo spazio entro cui si muovono i corpi non ha confini; di conseguenza, anche gli atomi esistono in quantità infinita, perché altrimenti un numero finito di atomi si sarebbe disperso in un vuoto infinito e così, a causa della reciproca lontananza, non vi sarebbe aggregazione e non esisterebbe alcun corpo.

Per bilanciare l’immensità di uno spazio infinito, per Epicuro, è quindi necessario che vi sia un’infinità di atomi. Quest’ultimi, però, pur esistendo in quantità illimitata, non presentano infinite forme.

Le geometrie atomiche sono diversissime e assai numerose, ma esistono in quantità finita: ciò è sufficiente per spiegare la variabilità delle cose che popolano la realtà.

Alcune delle conseguenze dovute alla teoria fisica epicurea fin qui esposta sono a dir poco entusiasmanti.

Se Epicuro ha ragione allora la realtà è infinita e al suo interno vi sono infiniti mondi. Alcuni sono del tutto simili al nostro, altri sono diversissimi.

È dunque necessario che altrove nell’universo esistano altri esseri viventi, tra cui vi sono sia esseri umani che animali come quelli presenti sulla terra, che creature dissimili rispetto ad essi.

Un mondo non è altro che un pezzo di cielo ritagliato nel vuoto infinito che al suo interno comprende astri, terre e fenomeni fisici.

Tra un mondo e l’altro vi è un grande vuoto di separazione che, complessivamente, va a formare un metacosmo (in greco antico: μετακόσμια, metakósmia), un termine che verrà in seguito tradotto in latino da Lucrezio come “intermundia”, con il significato letterale di “fra i mondi”.

Anche i mondi sono soggetti a nascita e morte; la loro trasformazione, così come quella dei corpi, avviene in virtù del moto degli atomi nel vuoto.

Siccome lo spazio e gli atomi sono infiniti, ma le forme di quest’ultimi sono limitate, tutte le possibilità sono sempre rappresentate, ovvero esse esistono simultaneamente nell’universo.

Il Tutto, considerato nel suo complesso, è sempre stato, e sempre sarà, così come è ora, giacché non vi è nulla in cui il Tutto possa trasformarsi che sia diverso da se stesso.

Ci potranno essere delle trasformazioni locali, ma globalmente il Tutto continuerà sempre a mantenersi così com’è, perché ciò che "svanisce" in un luogo, disgregandosi, viene necessariamente a formarsi in un altro, aggregandosi.

Per completare l’esposizione della fisica di Epicuro non resta che illustrare la sua cosmogonia.

Immaginiamo che nel vuoto infinito vi siano soltanto degli atomi tutti separati gli uni dagli altri.

Essi, secondo Epicuro, proprio come i corpi, sono dotati di peso. Infatti, se così non fosse, neanche le cose costituite da atomi avrebbero un peso.

Se questi sono i presupposti, allora, proprio come i corpi dotati di peso cadono in verticale, anche gli atomi nello spazio, lasciati a se stessi, si muovono concordemente ed in linea retta, secondo la medesima direzione.

In questo modo, però, si verrebbe a creare una sorta di pioggia di atomi, in cui quest’ultimi, procedendo su percorsi paralleli, non riuscirebbero a scontrarsi. Ma senza scontro, e aggregazione di atomi, non vi sarebbe alcuna generazione di mondi.

Per superare questo genere d’impasse, Democrito e Leucippo postularono l’esistenza di una sorta di vortice primordiale, che impresse agli atomi un moto caotico ed incessante.

Epicuro, invece, introdusse il concetto di “parenclisi” (παρέγκλισις, parénklisis, che significa “declinazione”, “inclinazione”), un termine successivamente tradotto in latino da Lucrezio come “clinamen”.

Secondo la dottrina epicurea del clinamen, gli atomi avrebbero il potere di deviare dalla traiettoria rettilinea di caduta, e questo scostamento avverrebbe in modo casuale, sia rispetto al tempo che allo spazio.

Pertanto, non è a causa di un misterioso vortice che gli atomi possono incontrarsi, andando così a far nascere gli infiniti mondi, ma è in forza della loro intrinseca ed aleatoria capacità di abbandonare la direzione di moto impressa dal peso.

Questa deviazione è l’unico tipo di evento naturale che non è sottoposto alla necessità. Tutto il resto, è dovuto alle leggi che regolano gli scontri tra corpi e atomi.

Il postulato del clinamen aveva due grandi vantaggi: da un lato, salvava la teoria di Epicuro dalla contraddizione che abbiamo or ora illustrato, rendendo possibile e spiegando lo scontro tra gli atomi e quindi la generazione dei mondi;

dall’altro, rompeva il rigido determinismo dell’atomismo di Democrito e Leucippo, «spezzando», volendo usare le parole di Lucrezio, «le leggi del fato», e tutto ciò, come avremo modo di comprendere più avanti, ben si conciliava con l’etica epicurea, che rivendica per l’essere umano la libertà di poter scegliere di condurre una vita morale.

«Sarebbe stato meglio», sostiene Epicuro, «credere ai miti sugli dei che non rendersi schiavi di quel fato che predicano i fisici; quel mito, infatti, offre una speranza con la possibilità di placare gli dei con onori, mentre nel fato vi è una necessità implacabile».

Epicuro si occupò anche di astronomia e di meteorologia, ma il suo contributo, più che ad individuare quali fossero la vere cause dei fenomeni celesti e atmosferici, era volto a tranquillizzare le anime dei filosofi del Giardino.

Egli, infatti, sosteneva che i moti degli astri, i lampi, i tuoni, i terremoti e il vento, avessero tutti un’origine di tipo fisico e che per ciascuno di questi fenomeni vi fossero, non una, ma una molteplicità di spiegazioni, tutte plausibili, in quanto nessuna di esse era contraddetta dall’esperienza.

Il volersi ostinare a cercare di stabilire quale tra esse sia la teoria vera, è un’inutile curiosità. Non a caso i discepoli di Epicuro non diedero alcun contribuito alla scienza della natura.

La canonica

La logica epicurea è una teoria della conoscenza che si pone due obiettivi fondamentali:

1) individuare un criterio per cogliere la verità;
2) fornire una regola per discerne il bene dal male.
Secondo Epicuro, l’applicazione dei suoi canoni avrebbe consentito all’essere umano di conoscere il vero e di orientarsi verso la felicità.

Ben si comprende, dunque, il motivo per cui la logica epicurea sia nota come Canonica, ovvero come “dottrina del canone”. Ed è altrettanto evidente, anche senza aggiungere null’altro, come tale dottrina sia subordinata all’etica, con l’intento d’offrire all’umanità una “logica” da applicare concretamente alla morale.

Da buon materialista-meccanicista quale era, l'approccio di Epicuro alla teoria della conoscenza non poteva che fondarsi sull’evidenza empirica immediata.

E che cosa c’è di più certo e diretto, per ogni essere umano, se non ciò che scaturisce dai sensi?

La fiducia nella verità che Epicuro riponeva rispetto alla conoscenza generata dall’esperienza sensibile era così elevata che egli arrivò a definire i sensi «i nunzi del vero».

A Platone, che aveva sostenuto che le sensazioni confondono l’anima distogliendo lo spirito dall’essere, Epicuro replicò capovolgendo quella tesi, affermando che soltanto attraverso i sensi è possibile cogliere l’essere in modo infallibile.

Mentre ad Aristotele che, secondo Epicuro, aveva elaborato una logica composta da parole che, di per sé, non erano d’aiuto a chi volesse elaborare una fisica ancorata alla realtà, egli suggerì che invece di ragionare sulla natura con enunciati privi di riscontro oggettivo e formulazioni di principi teorici, bisognasse operare in base a ciò che proviene dall'esperienza sensibile.

Questa posizione non fu assunta in modo arbitrario, ma venne sostenuta con delle argomentazione fisiche, di carattere atomistico.

Nella sua essenza, il canone epicureo è fondato sulla seguente tripartizione: sensazioni, anticipazioni (o prolessi) ed emozioni (o sentimenti).

Le sensazioni per Epicuro sono affezioni, ovvero fenomeni passivi della coscienza, prodotti automaticamente dalla stessa struttura atomica della realtà.

Ogni cosa emana continuamente dei flussi di atomi che si allontanano dalla superficie dei corpi viaggiando in ogni direzione e trasportando con sé l’informazione relativa alle caratteristiche dell’oggetto da cui essi si sono allontanati.

Questi effluvi di atomi, sono una sorta di pellicole atomiche, dette éidola, ovvero “immagini” o anche “simulacri”, che pur distaccandosi dalle cose ne conservano una sorta d’impronta intangibile.

Viaggiando per lo spazio, può accadere che questi simulacri materiali delle cose collidano con gli organi di senso degli esseri umani e, attraverso di essi, giungano al cuore, dove, secondo Epicuro, ha origine la sensazione.

Si comprende quindi il perché le sensazioni siano sempre vere, oggettive ed infallibili: esse sono dei fenomeni meccanici a-razionali, che avvengono in modo meccanico e rispetto ai quali lo spirito dell’uomo non ha modo d’interferire.

In altre parole, le sensazioni sono degli effetti fisici prodotti da un automatismo che l’essere umano non può né distorcere né manipolare.

Inoltre, una sensazione non può essere confutata da un’altra sensazione ad essa omogenea, perché in quanto tale quest’ultima non potrebbe far altro che confermare l’informazione contenuta nella sensazione in esame; né può essere contraddetta da una sensazione che proviene da un altro oggetto, perché essa, essendo generata da un corpo differente, sarebbe per forza di cose diversa e la comparazione non avrebbe alcun valore.

Ciò garantisce la verità e l’effettiva aderenza delle sensazioni alla realtà fisica da cui esse sono generate.

Tuttavia, durante il suo tragitto, un simulacro può deformarsi per varie ragioni, trasportando così un’immagine non più fedele rispetto alla cosa da cui esso è stato emanato.

Ciò può avvenire, ad esempio, perché nel frattempo la cosa stessa si è modificata, oppure a causa dello scontro con altri simulacri che si verifica durante il percorso compiuto dalle éidola, dando luogo così ad una sorta d’interferenza.

Ma quello che per alcuni costituirebbe la prova dell’illusorietà dei sensi, per Epicuro, invece, non è altro che l’ennesima conferma della loro veridicità.

Infatti, quando ad esempio si osserva sia da vicino che a grande distanza la medesima torre, ottenendo due sue immagini visive profondamente diverse, non si può dire che i sensi ci stiano ingannando, giacché il simulacro di un oggetto vicino è effettivamente diverso rispetto a quello di uno lontano.

In tal caso la vista è verace, sia quando l'oggetto appare piccolo, a grande distanza, poiché veramente è tale essendosi consunti i contorni dei simulacri durante il loro spostamento attraverso l'aria, sia quando invece esso appare grande, a beve distanza, poiché anche in questo caso quell’oggetto possiede effettivamente tali caratteri. 


La teoria della conoscenza di Epicuro rende conto anche della formazione dei concetti e dell’immaginazione.

Infatti, nel processo d’interazione tra le éidola ed i sensi viene coinvolta anche la memoria dell’essere umano, che provvede a produrre e immagazzinare delle rappresentazioni mentali delle cose che hanno generato le rispettive sensazioni.

I concetti, dunque, derivano dalla serie di sensazioni, ripetute e conservate nella memoria, di cui si è avuto esperienza nel corso della vita.

Siccome i concetti sono prodotti dalle sensazioni, le quali sono sempre veraci, il processo della loro formazione è del tutto automatico ed il corretto funzionamento di questo meccanismo è garantito dalla stessa struttura atomica della realtà, allora anche i concetti sono sempre veri e costituiscono, assieme alle sensazioni, un criterio di verità.

I concetti, così come intesi da Epicuro, servono ad anticipare le sensazioni future, giacché, in forza dell’esperienza, un essere umano può disporre del fedele ricordo delle sensazioni prodotte dalle cose con cui ha già interagito in passato, e quindi, grazie ad esse, può conoscere in anticipo i caratteri delle cose analoghe a quelle di cui ha già avuto esperienza, senza il bisogno di interagire direttamente con esse.

In altre parole, i concetti permettono all’essere umano di anticipare i caratteri che le cose avranno, e le sensazioni che esse produrranno, quando si verrà nuovamente in contatto con cose analoghe a quelle con cui si è già interagito. Per questi motivi Epicuro chiamò i concetti anticipazioni.

Andando a recuperare e a combinare diverse immagini mentali impresse nella memoria, è anche possibile produrre rappresentazioni fantasiose, come quando, ad esempio, ci si raffigura mentalmente un centauro ottenuto dall’unione del busto superiore d’un uomo con il corpo di un cavallo. Questo rende conto dei processi immaginativi.

È quindi chiaro come per Epicuro la fonte di ogni sapere, in ultima analisi, sia da individuarsi nella conoscenza sensibile.

Persino le idee più astratte, stando alla canonica epicurea, sono un prodotto secondario dovuto alla sensazione, alla memoria di ciò che è stato percepito e alle previsioni rispetto a ciò che è percepibile.

Mediante i concetti e l’uso del linguaggio si possono anche nominare le cose, sia in loro presenza che in loro assenza, ma per poter dire “questo è un tavolo”, è evidente che si debba già essere in possesso dell’immagine mentale di un tavolo, acquisita attraverso un’esperienza pregressa avuta con un oggetto reale.

Per Epicuro anche i nomi attribuiti alle cose costituiscono una manifestazione dovuta all’azione fisica che esse hanno esercitato sui sensi dell’essere umano.

Un linguaggio, dunque, è da considerarsi come un prodotto naturale scaturito dall’espressione sonora associata alle emozioni umane che si sono verificate in determinate condizioni.

Si formano così inizialmente diversi suoni che poi, per convenzione, formano dei nomi; quest’ultimi però, pur potendo variare da cultura a cultura, provengono dalle medesime sensazioni.

Quindi, pur essendosi sviluppati diversi linguaggi, ciascuno di essi è una rappresentazione della medesima razionalità che è alla base dei modi di esprimersi degli esseri umani.

A questa prima fase naturale, segue, secondo Epicuro, una seconda fase di tipo culturale, grazie alla quale il linguaggio adottato da una certa comunità d’individui viene via via affinato e ampliato, razionalizzando forme linguistiche che risultano ambigue, o eccessivamente lunghe, ed introducendo, in caso di necessità, anche nomi associati a concetti astratti.

Così facendo, la teoria sull’origine del linguaggio di Epicuro risultava sufficientemente complessa da riuscire sia a sostenere la genesi naturale della lingua, che a giustificare la diversità linguistica su base culturale.


Il terzo, e ultimo, componente del canone epicureo è costituito dalle emozioni, che Epicuro riduce alla concezione dualistica composta dal piacere e dal dolore.

Così come le sensazioni e le anticipazioni, anche le emozioni sono oggettive e vere, giacché esse possono essere considerate come una sorta di risonanza interiore, legata alle sensazioni, direttamente regolata dalla fisica della realtà.

Tuttavia il piacere ed il dolore svolgono un ruolo particolare nella canonica di Epicuro: oltre a distinguere il vero dal falso, esse possono essere impiegate per discernere il bene dal male, e quindi costituiscono un criterio pratico per regolare la condotta morale degli individui, indirizzando correttamente l’azione.

Si comprende quindi come, in realtà, la logica epicurea sia orientata alla prassi e risulti subordinata all’etica.

Per completare la descrizione dei tratti fondamentali della teoria della conoscenza di Epicuro, non resta che affrontare quello che potremmo sinteticamente definire come il problema dell’induzione.

La questione può essere posta nei seguenti termini: è possibile estendere la conoscenza umana, rispetto alla verità dovuta all’evidenza oggettiva ed immediata assicurata dai sensi, senza incorrere nell’errore?

La risposta secondo Epicuro è positiva, ma il sentiero per ampliare l’episteme, ossia il sapere certo ed universale, utilizzando l’intelletto, è insidioso.

Sensazioni, anticipazioni ed emozioni sono sempre vere, in quanto esse sono delle evidenze immediate, ed è proprio questa loro caratteristica comune a garantirne la rispettiva veridicità, senza alcun bisogno di ricorrere ad un ulteriore criterio estrinseco.

La situazione però cambia profondamente quando un individuo elabora una propria opinione ragionando sulle verità scaturite dai sensi. In tal caso, infatti, è possibile introdurre un errore dovuto all’operazione di mediazione effettuata con il pensiero.

In estrema sintesi, secondo Epicuro, l’errore può derivare soltanto da ciò che l’opinione aggiunge alla sensazione.

Sicché mentre l’evidenza immediata e diretta dei sensi è sempre vera, l’opinione mediata ed indiretta del pensiero può correre il rischio di esser falsa. Pertanto si rende indispensabile un ulteriore criterio per discernere le opinioni vere da quelle false.

Anche in questo caso, il parametro rispetto al quale misurare la verità resta l’evidenza empirica, con l’indicazione fondamentale di ricercare mediante la ragione e l’esperienza il più stretto accordo con i fenomeni percepiti.

In questo modo, dice Epicuro, è possibile estendere la conoscenza passando dalle cose evidenti a quelle che sono nascoste alla sensazione, conservando il grado di verità.

La stessa fisica epicurea, infatti, è stata elaborata tentando di risalire da ciò che è evidente ai sensi, ossia i corpi ed il movimento, a principi che tali non sono, cioè gli atomi ed il vuoto, operando così, attraverso l’intelletto, una estensione della conoscenza dal visibile all’invisibile.

Purtroppo, però, quando si tenta di estendere il sapere attraverso dei processi induttivi, la situazione diviene oltremodo complicata, tanto è vero che la soluzione avanzata da Epicuro non fu del tutto soddisfacente e gli stessi Stoici, che erano dei fini logici, non persero occasione per criticarla duramente.

Epicuro sostenne che possono essere considerate “vere” le opinioni che sono confermate, o che non vengono confutate, dalle evidenze empiriche e dalle esperienze pregresse dovute ai sensi;

debbono invece esser considerate “false” le opinioni che sono confutate, o che non vengono confermate, dalle evidenze empiriche e dalle esperienze pregresse dovute ai sensi.

Il problema è che, a rigor di logica, una opinione confermata dall’evidenza non è detto che sia vera, ed il massimo che si può dire da un’assenza di confutazione, è che essa possa esser vera; inoltre, mentre una sola confutazione empirica, se ben congegnata, è sufficiente per stabilire la falsità di una opinione, la stessa cosa non vale per un’assenza di conferma.

Non a torto gli stoici fecero notare agli epicurei che per provare che in ogni luogo ed in ogni tempo tutti gli uomini sono mortali, non basta constatare empiricamente la morte degli uomini che ci stanno attorno: bisognerebbe, invece, dimostrare che gli uomini sono mortali in quanto uomini, ovvero a causa della loro natura. Ciò renderebbe necessaria l’inferenza or ora illustrata.

Ma gli epicurei replicarono, in modo altrettanto acuto, che fin quando non vi è nulla che si opponga ad un’inferenza fondata sull’analogia, essa debba essere ritenuta valida.

Siccome gli uomini che cadono sotto la nostra esperienza si comportano in modo simile rispetto al fenomeno della morte, senza alcuna eccezione, allora si deve ritenere corretto sostenere che anche gli individui al di fuori della nostra esperienza siano mortali.

In altri termini, per Epicuro ciò che garantisce la validità del processo induttivo per analogia è l’uniformità delle leggi di natura che regolano il funzionamento della realtà.

Sicché una volta che si è constatato, in base alla nostra esperienza e con sufficiente accuratezza, che una certa qualità si accompagna costantemente con altre qualità, allora è lecito inferire che tale rapporto si mantenga invariato anche in quei luoghi ed in quei tempi dove non giunge la nostra esperienza sensibile.

Inutile dire che, in assenza di dimostrazioni, non c’è nulla che assicuri che, al variare del tempo e del luogo, vi sia l’uniformità richiesta da Epicuro per giustificare la sua tesi.

A discolpa di quest’ultimo, si sappia che l’argomento dell’analogia sopra esposto è tutt’altro che banale e il problema dell’induzione rappresenta una questione di centrale interesse nell’epistemologia, tanto da essere ancora oggi ampiamente dibattuto dai filosofi, in particolar modo in relazione alla filosofia della scienza.

Tenuto conto di tutti questi aspetti, non è esagerato sostenere che, con la sua visione empirica ed induttiva della scienza, Epicuro abbia anticipato, con ben 19 secoli d’anticipo, alcuni dei principi fondamentali di quella che in tempi moderni sarebbe stata chiamata scienza sperimentale.

Lo stesso termine “canonica” deriva dalla parola "canone" (dal greco κανών -όνος, derivato di κάννα "canna") che, anticamente, indicava la canna, cioè il regolo usato concretamente per eseguire calcoli e misure, rimarcando così l’attinenza all’evidenza empirica diretta, riscontrata attraverso i sensi, richiesta dalla fisica epicurea.

Alla canonica mancavano però il mezzo e lo scopo per dare alla luce una vera scienza sperimentale, ovvero la matematica, da impiegare per formalizzare in modo rigoroso le leggi della natura, ed un’autentica volontà di scoprire quali fossero tali leggi.

Per Epicuro, invece, il vero fine della scienza, più che scoprire come funzionasse l’ordine naturale, descrivendone le leggi, consisteva nel liberare l’umanità dalla paura che l’ignoranza rispetto alla realtà causava nell’animo degli individui.

Tra le paure infondate da cui bisognava assolutamente liberare gli esseri umani vi erano quelle rispetto agli dei ed alla morte. Per questi motivi Epicuro si occupò anche di teologia.

La teologia

Secondo Epicuro la religione tradizionale aveva finito col degenerare in superstizione ed aveva assunto degli atteggiamenti ridicoli, sostanzialmente dovuti al timore che gli esseri umani nutrivano nei confronti delle divinità: «Non è irreligioso chi rinnega gli dei del volgo, ma chi le opinioni del volgo applica agli dei».

Sicché per recuperare la serenità d’animo bisognava liberare la teologia dall’influenza negativa delle idee del volgo.

Tra le argomentazioni teologiche di Epicuro, la più celebre è quella espressa nel seguente aforisma:

«La divinità o vuol togliere i mali e non può, o può e non vuole, o non vuole né può, o vuole e può. Se vuole e non può, è impotente, e la divinità non può esserlo. Se può e non vuole è invidiosa, e la divinità non può esserlo. Se non vuole e non può, è invidiosa e impotente, quindi non è la divinità. Se vuole e può (che è la sola cosa che le è conforme), donde viene l'esistenza dei mali e perché non li toglie?».

La risposta al precedente quesito non può che essere duplice: o la divinità non esiste, e dunque ecco spiegati sia la persistenza del male che il motivo per cui gli dei non intervengono ad eliminarlo, o la divinità esiste, ma non si cura affatto delle vicende umane, essendo completamente indifferente rispetto ad esse.

Considerando che Epicuro era un materialista convinto, chiunque sarebbe pronto a scommettere che egli abbia sposato la prima tesi, utilizzando quindi il precedente aforisma come un’argomentazione a supporto dell’inesistenza delle divinità concepite con i classici attributi di perfezione, bellezza e bontà: se il male persiste sulla Terra, è perché gli dei non esistono.

Egli invece, forse per evitare un’accusa di empietà, non esitò a sostenere la seconda tesi, quella dell’esistenza degli dei, e lo fece avvalendosi di ulteriori argomentazioni, che però risultano tutt’altro che convincenti.

In primo luogo, per tentare di dimostrare che gli dei esistono, Epicuro ricorse agli strumenti della sua teoria della conoscenza.

Siccome ogni essere umano possiede delle immagini mentali delle divinità, e questi concetti, così come tutti gli altri, non possono che derivare da simulacri atomici staccatisi da corpi reali, allora non si può che concludere che gli dei esistano.

In secondo luogo, per argomentare in favore della completa indifferenza delle divinità rispetto alle vicende umane, Epicuro si avvalse della più classica delle tesi formulate nell’antica Grecia, secondo la quale “ciò che è perfetto non manca di nulla” e quindi non ha bisogno di nulla, ancor meno d’occuparsi di ciò che riguarda gli esseri umani.

Ciò autorizzò Epicuro a concludere che: «Quel che è sopra di noi, non ha nulla a che fare con noi».

Le divinità hanno una forma antropomorfa (che è la più perfetta in natura), parlano una lingua simile al greco (che è la lingua dei sapienti) e trascorrono la loro esistenza beata e perfetta alimentandosi della propria saggezza e della reciproca compagnia.

Sicché, per Epicuro, le divinità esistono, possiedono gli attributi classici che si è soliti associare agli dei, ma gli esseri umani non devono nutrire alcun timore nei loro confronti, perché essi conducono un’esistenza libera, gioiosa ed autoreferenziale, negli spazi vuoti che separano i mondi (intermundia), senza interferire in alcun modo con ciò che accade sulla Terra.

Del resto un simile onere, sarebbe incompatibile con la loro condizione di perfetta beatitudine e completa libertà, scevra da ogni obbligo.

Chissà perché Epicuro evitò di prendere in considerazione una terza via, rispetto a quelle precedentemente esposte, ossia che gli dei esistano e siano malvagi; forse egli riteneva che ciò che è perfetto non può esser malvagio, scartando così questa possibilità. Ma in realtà non c’è nulla che ci assicuri che gli dei siano perfetti.

Comunque sia, a cosa servivano delle divinità perfette e beate, dal momento che Epicuro riteneva che esse non interagissero in alcun mondo con gli esseri umani?

Gli dei sono dei modelli che rappresentano la perfezione; il saggio gli rende onore, non perché ne ha timore, ma per l’ammirazione che prova nei confronti della loro eccellenza.

Il ruolo degli dei, quindi, è d’ispirare gli uomini, affinché essi, imitandoli, possano condurre un’esistenza beata. L’essere umano, infatti, potrebbe essere felice al pari degli dei, se solo si assimilasse ad essi.

La differenza incolmabile tra gli esseri umani e le divinità, è che queste ultime hanno la vita eterna, e quindi possono godere della felicità eterna, mentre gli umani, essendo mortali, possono sperimentare tale condizione soltanto per un periodo di tempo limitato.

In merito a ciò Epicuro sosteneva che: «Non è infatti per me cosa piccola o priva di importanza ciò che rende la mia disposizione d’animo simile a quella degli dei e indica che non siamo inferiori alla natura incorruttibile e beata, nonostante la nostra condizione mortale. Perché da vivi possiamo godere di una felicità pari a quella degli dei, anche se si sia ricevuta una diminuzione» in termini di durata.

Infatti: «Un tempo infinito contiene la stessa quantità di piacere che uno finito, quando i confini dei piaceri si misurino col raziocinio».

Il voler includere gli dei nella realtà, pur confinandoli in una sorta di paradiso ozioso separato dai mondi terreni, non fu una scelta indolore.

In verità, sia la negazione, che l’ammissione, dell’esistenza degli dei, avrebbero comunque condotto Epicuro in un cul-de-sac, dal quale sarebbe stato impossibile liberarsi, senza rivedere, in una certa misura, alcuni spetti del suo impianto filosofico.

Egli, infatti, da un lato, non poteva negare l’esistenza degli dei, perché altrimenti il criterio di verità basato sulle anticipazioni sarebbe risultato fallace, e dall’altro, se avesse ammesso l’esistenza degli dei, non avrebbe potuto sostenere l’immortalità delle divinità, perché altrimenti avrebbe dovuto spiegare come mai gli dei immortali, a differenza degli altri corpi, non siano soggetti alla dissoluzione, pur essendo formati da atomi, proprio come ogni altra cosa che esiste nella realtà.

La soluzione ideata da Epicuro per tentare di rimediare a questa aporia, è ancor più rovinosa del danno che si sarebbe potuto facilmente riparare, se solo si fosse scelto di negare l’esistenza degli dei e di rivedere il criterio delle anticipazioni, ottenendo così un’apprezzabile coerenza interna rispetto al proprio sistema filosofico.

Gli dei esistono, dice Epicuro, e sono immortali, perché gli atomi che formano i loro corpi hanno una natura differente rispetto a quella delle altre cose, sicché la loro natura non è corporea, ma è “quasi-corpo”, così come la loro anima che è “quasi-anima”.

Sicché Epicuro, per evitare l’accusa di empietà e salvare il proprio impianto filosofico, è costretto ad introdurre in modo superfluo ed arbitrario una ulteriore ipotesi ad hoc.

È inutile sottolineare come il risultato ottenuto appaia tutt’altro che soddisfacente per l’intelletto di ogni essere pensante.

Per Epicuro anche gli esseri umani, al pari degli dei, sono dotati di un’anima: essa, proprio come ogni altra cosa, è composta da un’aggregato di atomi.

Gli atomi dell’anima hanno una grande mobilità, essendo particelle più rotonde e sottili rispetto a quelle che compongono le altre cose, e sono diffusi in tutto il corpo, come una sorta di soffio caldo.

L’anima è formata da una parte razionale e da una parte irrazionale, ed è proprio grazie ad esse che l’essere umano è in grado di provare sensazioni, d’immaginare, ovvero di produrre rappresentazioni fantastiche, di ragionare, cioè di esprimere giudizi e formare opinioni, nonché di sperimentare le emozioni di piacere e dolore, così da potersi regolare praticamente nella condotta di vita.

L’anima, inoltre, in particolar modo la parte irrazionale, è il principio della vita ed è ciò che vivifica il corpo.

Essendo composta da un aggregato di atomi, anche l’anima è soggetta a corruzione. Pertanto essa non è eterna, ma mortale, proprio come i corpi.

Quando sopraggiunge la morte, gli atomi dell’anima si disperdono, così come quelli del corpo, ma con una maggiore velocità, e, di conseguenza, con la loro disgregazione, viene meno ogni possibilità di sperimentare le sensazioni, perché l’allontanamento degli atomi animici non consente più all’anima di esercitare le sue facoltà. La dissoluzione dell’anima priva l’essere umano anche dell’auto-coscienza.

Questa tesi fisica, di carattere materialistico, crea i presupposti per liberare l’umanità dal timore della morte, consentendo ad Epicuro di sostenere che: «Il più terribile dei mali, la morte, non è nulla per noi, perché quando ci siamo noi non c'è la morte, e quando c'è la morte noi non siamo più».

Vano è dunque anche il timore per la vita dopo la morte, giacché con la disgregazione degli atomi che formano l’anima ed il corpo di un essere umano termina anche l’esistenza di ogni individuo.

A chi obiettava di non aver tanto paura della morte, ma piuttosto della sofferenza sperimentabile in vita, Epicuro faceva notare che il dolore è inversamente proporzionale alla sua intensità.

Così, se il dolore è lungo significa che esso è lieve, e dunque è facilmente sopportabile, mentre invece se esso è intenso, la sua durata non può che essere breve, risolvendosi, talvolta, nella morte, la quale è assenza di sensazioni e quindi di dolore.

E per quanto riguarda i turbamenti dell’anima? Per quelli è sufficiente conoscere e mettere in pratica i precetti dell’etica epicurea.

L’etica

Per sviluppare la sua etica, Epicuro riprese la concezione edonistica dei cirenaici, rovesciando completamente il loro punto di vista:

il vero piacere da perseguire, il sommo bene, che è in grado di per sé di assicurare all’essere umano la felicità, non è il piacere cinetico, come suggerito da Aristippo, ovvero un piacere positivo, attivo e dinamico, ma è il piacere catastematico, vale a dire un piacere negativo, passivo e stabile.

Secondo Epicuro, la desiderabile condizione di eudaimonia (dal greco εὐδαιμονία, derivato da εὐδαίμων “felice”, a sua volta composto da εὖ “bene” e δαίμων “demone” o “sorte”), vale a dire la serenità, può essere ottenuta soltanto coniugando sapientemente l’aponia, cioè l’assenza di dolore fisico del corpo, con l’atarassia, ovvero con la mancanza di turbamento dell’anima.

La vera felicità consiste: «nel non soffrire e nel non agitarti», mentre: «il culmine del piacere è la pura e semplice distruzione del dolore».

Epicuro concordava con i filosofi di Cirene che il bene fosse il piacere: «Noi riteniamo il piacere principio e fine della vita felice, perché lo abbiamo riconosciuto bene primo e a noi congenito».

E a supporto di questa tesi poneva la stessa evidenza empirica: tutti gli animali, non solo gli esseri umani, tendono naturalmente al piacere e fuggono dal dolore.

Sicché il piacere, oltre ad essere un bene, rappresenta anche il criterio rispetto al quale si valuta il bene e ci si regola nelle scelte comportamentali.

Ma mentre per i cirenaici questa naturale tendenza andava assecondata, per Epicuro doveva essere limitata attraverso un accurato calcolo: «Ad ogni desiderio bisogna porre la domanda: che cosa avverrà, se esso viene appagato? Che cosa avverrà, se non viene appagato?».

E ancora: «Soltanto l’accorto calcolo dei piaceri può far sì che l’uomo basti a se stesso e non divenga schiavo dei bisogni e della preoccupazione per l’indomani. Ma questo calcolo può essere dovuto soltanto alla frònesis (saggezza). La saggezza è anche più preziosa della filosofia, perché da essa nascono tutte le altre virtù, e senza di essa la vita non ha né dolcezza, né bellezza, né giustizia».

Ciò che regola la condotta morale non è l’inseguimento del piacere in quanto tale, ma la ragione che analizza e giudica i piaceri da perseguire, avendo cura di scartare i godimenti che portano con sé dolori e turbamenti futuri.

Infatti: «Se le cose che danno luogo ai piaceri propri dei dissoluti fossero anche tali da liberarci dai timori dell'animo circa i fenomeni celesti, la morte, il dolore, e ci insegnassero quale sia il limite dei desideri, non avremmo niente da rimproverare a quelli: essi sarebbero infatti ricolmi di ogni piacere e non avrebbero mai da soffrire fisicamente o da affliggersi, nel che consiste appunto il male». Ma siccome così non è, il calcolo limitativo dei piaceri diviene indispensabile.

Per Epicuro: «Non è possibile vivere felicemente senza anche vivere saggiamente, bene e giustamente, né saggiamente e bene e giustamente senza anche vivere felicemente. A chi manchi ciò da cui deriva la possibilità di vivere saggiamente, bene, giustamente, manca anche la possibilità di una vita felice».

La saggezza, dunque, è una condizione necessaria per raggiungere la felicità. Senza di essa, infatti, sarebbe impossibile operare un efficace calcolo dei piaceri, riuscendo a scegliere e limitare correttamente i bisogni in funzione dell’obiettivo del mantenimento del duplice stato di atarassia e aponia.

Di conseguenza nell’epicureismo, saggezza, virtù e felicità tendono ad identificarsi: «La saggezza è principio di tutte le altre virtù e ci insegna che non si può essere felici, senza essere saggi, onesti e giusti. Le virtù in realtà sono un'unica cosa con la vita felice e questa è inseparabile da esse».

In forza della sua teoria della conoscenza, che poneva i sensi alla base del canone fondamentale dell’umana esistenza, Epicuro sostenne anche che tutti i piaceri hanno un carattere sensibile: «Io non so che cos’è il bene, se prescindo dai piaceri del gusto, dell’amore, dell’udito e da quelli che derivano dalle belle immagini percepite dagli occhi e, in generale, da tutti i piacere che gli uomini hanno dai sensi. Non è vero che solo la gioia della mente è un bene; giacché la mente si rallegra nella speranza dei piaceri sensibili, nel cui godimento la natura umana può liberarsi dal dolore».

Il bene, dunque, viene a coincidere con il piacere sensibile, entro cui sono racchiusi anche il piacere della musica (interpretato come godimento dell’ascolto dei suoni), della contemplazione della bellezza (spiegato come il piacere dovuto alla vista di belle immagini) e persino il piacere spirituale (che veniva ridotto al ricordo dei godimenti passati e alla speranza di poter sperimentare nuovamente il piacere sensibile).

In questo modo Epicuro, a differenza dei cirenaici, che reputavano i piaceri ed i dolori fisici nettamente superiori rispetto a quelli mentali, seppe dare la dovuta considerazione alle risonanze interiori e ai moti della psiche, nella consapevolezza che le questioni mentali, a differenza di quelle fisiche, che sono circoscritte al tempo in cui vengono sperimentate, perdurano a lungo e talvolta si protraggono per tutto il corso dell’esistenza.

Per indirizzare i filosofi del Giardino sulla corretta via da seguire, in relazione al calcolo limitativo dei piaceri, Epicuro catalogò i bisogni, ripartendoli in tre gruppi, ed indicò l’atteggiamento che si dovrebbe tenere rispetto a ciascuno di essi:

1) bisogni naturali e necessari; si tratta dei bisogni strettamente legati alla conservazione in vita degli esseri umani, come ad esempio il bere, il mangiare ed il riposare, quando si ha sete, fame e sonno.

2) bisogni naturali ma non necessari; si tratta delle varianti superflue rispettivamente associabili ai bisogni naturali e necessari, come ad esempio il mangiare ed il bere in modo sofisticato e smisurato, ed il vestire con indumenti costosi e alla moda.

3) bisogni non naturali e non necessari; si tratta di tutti quei falsi bisogni scaturiti dalle vane opinioni degli uomini, come ad esempio il piacere legato al desiderio di ricchezza, potere e fama.

Secondo Epicuro, i piaceri legati ai bisogni naturali e necessari, sono gli unici che vanno pienamente soddisfatti. La loro natura è limitata e quindi il loro completo appagamento è facilmente ottenibile.

Se un individuo evitasse di soddisfare appieno questo genere di bisogni, si provocherebbe insensatamente dolori e sofferenze.

Il confine che sancisce la transizione da un bisogno naturale necessario ad uno non necessario, è proprio la cessazione del dolore: «Il limite estremo della grandezza dei piaceri è la rimozione di tutto il dolore».

Quando la fame si è placata, eccedere con l’alimentazione non solo non è necessario, ma non apporta alcun giovamento. E qualora questo comportamento venisse reiterato nel tempo, produrrebbe addirittura un danno.

Pertanto il giusto atteggiamento da assumere nei confronti dei bisogni naturali non necessari, è quello di cercare di limitare al massimo l’appagamento del piacere ad essi associato, concedendosi, tutt’al più, qualche sporadica e limitata eccezione.

Questo genere di bisogni, infatti, non ha un limite fisiologico superiore, segnalato dalla scomparsa del dolore, come accadeva nel caso dei bisogni naturali e necessari; essi variano soltanto nella grandezza del piacere che producono, il cui appagamento, però, può dare origine a dei problemi.

Per quanto riguarda i piaceri legati ai bisogni non naturali e non necessari, la sentenza di Epicuro è nettissima: essi vanno assolutamente evitati, sempre e comunque.

Questa tipologia di falsi bisogni non toglie dolore, arreca sempre turbamento all’anima e, non per ultimo in ordine d’importanza, è impossibile da appagare completamente.

«La ricchezza secondo natura è tutta compresa in pane, acqua e un riparo qualsiasi per il corpo», sostiene Epicuro, mentre: «la ricchezza superflua procura all’anima una illimitata prova dei desideri».

Mettendo in pratica queste indicazioni, chiunque avrebbe potuto conseguire l’aponia e l’atarassia, che a loro volta avrebbero assicurato agli esseri umani un’esistenza beata, libera dal dolore e dai turbamenti: «Il grido della carne è: non aver fame, non aver sete, non aver freddo. Colui che abbia soddisfatto questi bisogni, o che si aspetti di poterli soddisfare, può gareggiare in felicità anche con Zeus».

Talvolta, però, la classificazione dei bisogni di Epicuro non risultava del tutto immediata e di conseguenza poteva dar adito a dei fraintendimenti.

Ad esempio, non è ben chiaro se i rapporti amorosi siano beni naturali necessari o non necessari, perché se da un lato essi sono indispensabili per la riproduzione della specie, dall’altro possono essere fonte di turbamento e di attaccamento, non esistendo un limite netto che sancisca il loro pieno appagamento.

Una volta accadde che, nel Giardino, un giovane epicureo si dedicasse agli amplessi con una maggior dedizione rispetto alla media.

Quando Epicuro lo venne a sapere, lo prese in disparte ed espresse il seguente parere: «Mi dicono della eccessiva inclinazione della tua carne verso i piaceri del sesso.

Ebbene, se non violi le leggi ed i buoni costumi, né offendi il tuo prossimo, né debiliti la tua carne, né dissipi le tue sostanze, fa come vuoi.

Bada però che non è possibile non essere ridotto in alcuna di queste necessità; amplesso venereo non giovò mai, è già molto se non nuoce».

Si comprende quindi come il discernimento rispetto a quali piaceri bisognasse appagare, oppure no, era in parte lasciato alla discrezionalità dei discepoli, che avrebbero dovuto valutare autonomamente, caso per caso, cosa fosse compatibile con la loro particolare natura, senza mai perdere di vista l’obiettivo del mantenimento della serenità.

L’insieme dei bisogni naturali e necessari poteva così estendersi e personalizzarsi in base all’essere di ogni individuo; un’operazione che era demandata alla ragione umana.

Ma nel far ciò bisogna fare molta attenzione, perché il rischio di confondere ciò che è veramente naturale per se stessi con ciò che in realtà non lo è, non dev’essere sottovalutato.

«Alcuni vollero divenire famosi e rinomati ritenendo così di procurarsi sicurezza nei riguardi degli altri uomini», osserva Epicuro, «Ammesso che in tal modo la loro vita sia diventata veramente sicura, essi hanno acquistato un bene secondo natura; ma se la loro vita non lo è divenuta, non hanno raggiunto quel bene secondo natura sotto il cui impulso hanno agito fin dall'inizio».

In quest’ultimo caso, il prezzo da pagare è l’aver dissipato l’esistenza per inseguire una chimera, procurandosi dolori e turbamenti, allontanandosi dalla felicità.

La società

Per quanto riguarda il rapporto degli individui con la società, il pensiero di Epicuro si pone in netta rottura con il sentimento comune dell’antica Grecia, che attribuiva grande importanza alla vita pubblica condotta nella polis.

Il suo invito non lascia spazio alle interpretazioni: «Liberiamoci, una buona volta, dal carcere delle occupazioni quotidiane e della politica».

Per il fondatore del Giardino l’ambizione politica non può che esser fonte di dolore e turbamenti, rappresentando, pertanto, un ostacolo che si frappone tra l’essere umano e la felicità.

Quei piaceri che ci si illude di ottenere dalla vita politica, in realtà, sono innaturali e quindi allontanano l’individuo dall’aponia e dall’atarassia.

Per spiegare l’origine e la funzione della società, Epicuro elabora una dottrina che ricorda da vicino la teoria del contratto sociale di Jean-Jacques Rousseau.

Lo Stato e le leggi sono stati costituiti in vista dell’utile reciproco; lo scopo del patto sociale è di evitare che gli individui si danneggino gli uni con gli altri.

«La giustizia non esiste di per sé, ma solo nei rapporti reciproci, e in quei luoghi nei quali si sia stretto un patto circa il non recare né ricevere danno». La giustizia, dunque, è una convezione subordinata all’utilità comune.

Sebbene Epicuro riconoscesse la funzione sociale svolta dalle leggi, in relazione al contenimento dei danni vicendevolmente causati dai membri delle società, egli sottolineava anche come il saggio non avrebbe comunque commesso ingiustizia, anche nel caso limite in cui fosse stato assolutamente certo che il suo atto sarebbe rimasto nascosto: «Chi ha raggiunto il fine dell’uomo, anche se nessuno è presente, sarà ugualmente onesto».

Ciascuno deve operare il bene nei confronti degli altri, perché: «È non solo più bello, ma anche più piacevole fare il bene anziché riceverlo». In tal senso Epicuro arrivò addirittura a porre il piacere a fondamento e giustificazione dell’umana solidarietà.

Sicché, in una ipotetica società di saggi, verrebbe meno anche l’utilità delle leggi, perché ciascun individuo si autoregolerebbe da sé, comportandosi in modo giusto e retto nei confronti degli altri, senza che vi sia alcun vincolo esterno ad indirizzare e limitare l’azione.

Visto e considerato che la vita pubblica, non solo non aggiunge nulla all’essere umano, ma addirittura lo allontana dalla serenità, il consiglio che Epicuro dava ai suoi discepoli è di estraniarsi dalla politica, appartarsi e condurre un’esistenza serena, in disparte: «La corona dell’atarassia è incomparabilmente superiore alla corona dei grandi imperi».

Infatti, se da un lato: «la sicurezza nei riguardi degli altri uomini deriva, fino a un certo punto, da una ben fondata situazione di potenza e ricchezza», dall’altro: «la sicurezza più pura proviene dalla vita serena e dall'appartarsi dalla folla».

«Vivi nascosto!» è questo il precetto di Epicuro. E ancora: «Ritirati in te stesso, soprattutto quando sei costretto a stare tra la folla», perché è soltanto mediante la centratura interiore che si può raggiungere la serenità.

In questo modo l’essere umano cessava d’essere un cittadino e si trasformava in un individuo. Ma la svalutazione della politica veniva super-compensata con l’esaltazione del valore all’amicizia: «Di tutte le cose che la sapienza procura in vista della vita felice, il bene più grande è l'acquisto dell'amicizia».

L’amicizia, per Epicuro, è un legame libero che si instaura tra individui accomunati dal modo di sentire, pensare e vivere. Essa non viene imposta dall’esterno, in forza dell’autorità, come accade invece con le leggi, ma è un rapporto naturale tra pari, che avviene nel rispetto della mutua volontà.

L’amicizia ha origine dall’utile, ma essa è un bene in sé. Infatti, una volta sbocciata, sublimando il rapporto d’utilità, l’amicizia stessa diviene una fonte di piacere. Pertanto essa è un bene da perseguire in quanto tale.

Il vero amico non è né chi dal rapporto d’amicizia ricerca sempre l’utilità, né chi esclude a priori questa possibilità, perché nel primo caso l’amicizia si ridurrebbe ad un traffico di vantaggi, mentre nel secondo verrebbe meno la fiduciosa speranza d’un possibile aiuto reciproco che, invece, rappresenta una parte di fondamentale importanza in una vera amicizia.

«Non è tanto dell’aiuto degli amici che noi abbiamo bisogno, quanto della fiducia che essi ci aiuterebbero nel caso ne avessimo bisogno». Il vantaggio dovuto all’amicizia, quindi, non è soltanto di tipo materiale, ma anche spirituale.

Emerge con forza il carattere mutualistico dell’amicizia, così come intesa da Epicuro, grazie al quale gli esseri umani possono supportarsi vicendevolmente, migliorando la propria esistenza, sopperendo così alle funzioni sociali svolte dalla polis.

«L'amicizia trascorre per la terra annunziando a tutti noi di destarci per darci gioia l'un con l'altro». Essa è addirittura da considerarsi superiore all’amore, perché è in grado di garantire una serenità più profonda e duratura rispetto a quest’ultimo sentimento, essendo meno esposta alle sofferenze dovute al distacco, alla gelosia e al timore di non esser corrisposti.

Non a caso il Giardino era un luogo dove l’amicizia giocava un ruolo centrale nei rapporti sociali: essa era il sentimento che più si accordava con la concezione filosofica epicurea.

Tutto ciò significa che, per Epicuro, il luogo adatto alla completa realizzazione dei fini umani, la migliore organizzazione sociale entro cui è effettivamente possibile perseguire e conseguire il piacere e la felicità, non è la polis, ma una piccola cerchia di amici, che conducono una vita semplice in comune, immersi nella grande bellezza della natura, limitando i bisogni all’indispensabile ed evitando di nutrire timore nei confronti della vita, del dolore, della morte e degli dei.

Il tetrafarmaco

Ora che abbiamo esposto in maniera ampia e approfondita la filosofia di Epicuro, possiamo somministrare al lettore il tetrafarmaco epicureo, proprio come avrebbe fatto il fondatore del Giardino.

Per guarire gli esseri umani dalle quattro paure fondamentali, che impediscono agli individui di essere felici, turbando le loro anime, è sufficiente sapere che:

1) sono vani i timori nei confronti degli dei; sia che si ritenga che le divinità non esistano, sia nel caso contrario, si può provare che esse non si intromettono nelle vicende umane.

Infatti, se gli dei non esistono, non v’è nulla da temere, se invece esistono basta riflettere sul problema della persistenza del male, per rendersi facilmente conto che l’unica possibilità che non dà adito a contraddizioni, è che le divinità siano completamente indifferenti rispetto a ciò che accade sulla Terra.

Che gli dei:
a) possano togliere il male, ma non vogliano farlo;
b) non possano togliere il male, pur volendolo fare;
c) non possano togliere il male e non vogliano farlo; rappresentano ipotesi incompatibili con la perfezione delle divinità.

Nel primo caso, infatti, esse sarebbero malvagie, nel secondo risulterebbero impotenti e nel terzo sarebbero sia impotenti che malvagie.

È quindi evidente che gli dei possano togliere il male e vogliano farlo, ma siccome il male persiste sulla Terra, allora si deve concludere che le divinità siano totalmente estranee rispetto al mondo degli esseri umani.

Gli dei sono perfetti e conducono un’esistenza beata e libera da ogni gravame negli intermundia; l’occuparsi dell’umanità è un’attività incompatibile con la loro natura.

«L'essere beato e immortale non ha affanni, né ad altri ne arreca; è quindi immune da ira e da benevolenza, perché simili cose sono proprie di un essere debole». Pertanto non si deve neanche avere timore del giudizio degli dei.

Ognuno è artefice del proprio destino e deve adoperarsi per raggiungere la felicità: «È una cosa stolta supplicare gli dei per ottenere ciò che uno è in condizione di procurarsi da sé».

2) non ha senso aver paura della morte e dell’aldilà; siccome l’essere umano è composto dall’unione di un corpo e di un’anima, a loro volta costituiti da aggregati di atomi, allora egli non può avere esperienza né della morte né dell’aldilà.

Infatti, ciò che rende vivo un individuo, e gli consente di provare sensazioni e di avere coscienza rispetto a ciò che fa, è proprio l’aggregazione degli atomi corporei ed animici che costituiscono il suo fisico e la sua anima.

Ma quando sopraggiunge la morte, sia gli atomi del corpo, che quelli dell’anima, si disgregano, ed a causa di questo processo di dissoluzione viene meno sia la sensazione che la coscienza.

3) l’inquietudine rispetto al dolore è infondata; infatti, il male, o è poco intenso, e quindi è facilmente sopportabile, o se è forte, è di breve durata.

In particolare, la morte, qualora dovesse sopraggiungere un dolore lacerante ed irrimediabilmente insanabile, non deve essere vista come un male assoluto o un qualcosa da cui fuggire ad ogni costo, perché in tal caso essa, avendo il potere di privare il corpo della capacità di provare sensazioni, svolgerebbe il ruolo di liberatrice dai mali.

Per quanto riguarda i dolori dell’anima, essi sono causati dalle false opinioni, a cui si può porre rimedio grazie alla saggezza ed alla filosofia. Di conseguenza:

4) tutti possono essere felici nel corso della propria esistenza; infatti, il piacere, che è ciò che assicura la felicità, è a disposizione di tutti, qualora lo si intenda nel modo corretto.

Alcuni durante l’esistenza si affannano per accumulare ricchezze, senza riflettere sul fatto che a ciascun individuo «la bevanda della vita fu versata mortale».

Gli uomini si dannano per cose inutili, avidi di guadagno scatenano risse e guerre; ma «la natura non vuole molta ricchezza», mentre gli stolti tentano di estenderla all'infinito.

In realtà, la vera ricchezza non si ottiene accrescendo gli averi, ma sfrondando i desideri.

I veri bisogni da soddisfare sono quelli naturali e necessari, sebbene talvolta ci si possa concedere la gratificazione di un piacere legato ad un bisogno naturale ma non necessario, senza perdere il controllo.

Ricercando l’apatia e l’atarassia, ancor meglio se in compagnia di una ristretta cerchia d’amici che vivono in comune nella campagna, al riparo dal tumulto della città e dai turbamenti della vita politica, ogni essere umano può condurre un’esistenza beata come quella degli dei, anche qui sulla Terra.

«Non si è mai troppo vecchi o troppo giovani per essere felici. Uomo o donna, ricco o povero, ognuno può essere felice».

Per questi motivi, il saggio non avrà timore neanche della sorte, perché egli sa perfettamente che: «le cose più grandi e importanti sono governate dalla ragione, e cosi continuano e continueranno ad essere per tutto il corso del tempo».

E alla fine, chi sarà riuscito a vivere con saggezza, potrà sostenere con Epicuro: «Ti ho prevenuta, o sorte, e da ogni tua insidia mi sono premunito. Non a te né ad alcun'altra circostanza ci arrenderemo: ma quando sia necessario andarcene, sputando ampiamente sulla vita e su quelli che vanamente ci si attaccano, ce ne andremo con un bel peana, proclamando quanto bene abbiamo vissuto».

«Ricordati che sei nato a sorte mortale ed a finito tempo di vita: ma con i tuoi ragionamenti sulla natura sei sorto all'infinità ed all'eternità, e hai contemplato tutte le cose che sono ora e che saranno, o che furono, nel tempo trascorso».

Alti e bassi dell’epicureismo

Dopo la morte di Epicuro, l’epicureismo ebbe una lunga vita accompagnata però da una sorte alterna.

Nel suo Testamento, il fondatore del Giardino diede precise indicazioni su come comportarsi in merito alla proprietà della scuola: essa si sarebbe dovuta conservare tramandandola da discepolo in discepolo, di generazione in generazione, a condizione che gli ereditieri si fossero impegnati a mantenere sia la filosofia di Epicuro, che il suo giardino, nel modo più integro e sicuro possibile. E così fu.

Il rigido dogmatismo imposto ai suoi seguaci ebbe un duplice effetto: da un lato, impedì che avvennero dei successivi sviluppi della dottrina epicurea che fossero degni di rilievo, dall’altro, conservò la filosofia originaria elaborata dal fondatore del Giardino.

È noto che la scuola di Epicuro era ancora attiva nella prima metà del I secolo a.C., ma si sa anche che nella seconda metà del medesimo secolo il terreno su cui operavano i filosofi del Giardino era stato venduto.

Nel medesimo periodo, in Italia, gli insegnamenti di Epicuro venivano diffusi per opera di Filodemo di Gadara, che costituì un circolo di epicurei aristocratici.

La sede di questa scuola era collocata in una villa di Ercolano, di proprietà di un influente uomo politico dell’epoca. Gli scavi compiuti in quella zona hanno riportato alla luce i resti della biblioteca situata nella villa, che conteneva numerosi scritti di carattere epicureo.

I discepoli di Epicuro gli furono così fedeli, da conservare gli insegnamenti del loro maestro per un periodo di tempo lunghissimo, fino a quando, all’incirca nel IV secolo dopo Cristo, i circoli epicurei scomparvero definitivamente a causa delle pressioni sociali.

La filosofia di Epicuro, infatti, era avversata sia dagli esponenti della Roma imperiale, che la percepivano come una potenziale minaccia in grado di minare i valori tradizionali utili al mantenimento dello status quo, che dalla élite che, di lì a poco, avrebbe strutturato il cattolicesimo, prendendo, rielaborando e imponendo la propria concezione del cristianesimo alle masse, utilizzando la religione come uno instrumentum regni.

Non che il materialismo e l’edonismo degli epicurei risultassero graditi ai primi cristiani (tutt’altro!), ma se la rivoluzione spirituale laica di Epicuro si spense, fu soprattutto per via del cattolicesimo; del resto, la filosofia di un pensatore che intendeva liberare l’umanità dalla paura degli dei, mal si conciliava con gli intenti di una élite di potere che voleva dominare il popolo avvalendosi del timor di Dio.

Fu così che, nel medioevo, il termine “epicureo” divenne un sinonimo di “ateo”, intendendo con ciò ogni individuo con una visione del mondo irreligiosa ed eretica rispetto a quella scelta come “vera” dall’autorità del tempo.

Lo stesso Dante Alighieri collocò all’Inferno tutti gli Epicurei, perché essi sostenevano che l’anima fosse mortale, così come il corpo.

Ma dopo alcuni secoli di oblio, l’epicureismo tornò in auge nel periodo del Rinascimento ed ancor più durante l’Illuminismo.

Per ironia della sorte, uno tra i più illustri personaggi che rivalutarono le tesi di Epicuro, fu un presbitero, nonché filosofo, teologo, matematico, astronomo e astrologo francese: l'abate Pierre Gassendi (Champtercier, 22 gennaio 1592 – Parigi, 24 ottobre 1655).

Tra i numerosi intellettuali che, per i più disparati motivi, apprezzarono la figura e la filosofia di Epicuro, vi furono anche: Lorenzo Valla, il barone d'Holbach, Ugo Foscolo, Giacomo Leopardi, Percy Bysshe Shelley, Karl Marx, Arthur Schopenhauer e Friedrich Nietzsche.

Fonti
  • Il pensiero occidentale, di Giovanni Reale e Dario Antiseri.
  • Storia della filosofia, di Nicola Abbagnano.
  • Storia della filosofia antica, di Giuseppe Cambiano.
  • Storia della filosofia occidentale, di Bertrand Russell.
  • Storia del pensiero scientifico e filosofico, di Ludovico Geymonat.


3 commenti:

  1. Ciao, questo non è un commento, volevo solo dirti che
    questo sarebbe il momento giusto per fare un bel post come
    quelli che facevi tempo addietro sul capitalismo del cazzo che non può fermarsi due mesetti per uno stupido coronavirus
    altrimenti crollano i consumi e si perdono i posti di lavoro , la dittatura del pil ecc ecc grazie.

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    1. La ringrazio. Ci sarebbe tanto altro da dire, ma in questo momento, purtroppo, dopo aver pubblicato un trattato in 4 volumi, non ho la forza d'animo necessaria per ricominciare a scrivere un altro saggio di sociologia... mi dispiace.

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  2. Immagino la fatica ma non occorre un saggio, basterebbe
    qualcosa di semplice ed essenziale per far comprendere a tutti
    che finchè il lavoro sarà un fatto privato e i posti di lavoro
    legati ai consumi andremo incontro a crisi del capitalismo
    sempre più devastanti. E' ora che certe persone, soprattutto
    quelle rincretinite dal falso conflitto politico destra-sinistra
    comincino a capire che tutto ciò che funziona è organizzato
    nei minimi particolari: come in un computer ogni minimo componente
    concorre al risultato finale, anche all'interno di una fabbrica
    ogni passaggio è pianificato per ottenere il miglior risultato
    con minor spreco di tempo ed energia. Quindi non vedo perchè
    l'economia nel suo complesso debba sottrarsi a questo principio
    e lasciata libera nel caos della competizione concorrenza e
    tutti contro tutti. Bisogna che questi rincretiniti comprendano
    che abbiamo un pianeta solo e siamo di fronte a problemi
    epocali: cambiamenti climatici, inquinamento, pandemie,
    sovrapopolazione, disoccupazione di massa dovuta all'automazione.
    Che si sveglino santo dio ! che non se ne può più...

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