Note biografiche
Epicuro
(Samo, 342 a.C. – Atene, 270 a.C.) fu il fondatore di una della
maggiori scuole filosofiche dell’età ellenistica: l’epicureismo.
Figlio
di Neocle, un maestro di scuola, e di Cherestrata, una maga, Epicuro
(in greco antico: Ἐπίκουρος, Epíkouros, che significa
“alleato”, “compagno” o “soccorritore”) venne alla luce,
e trascorse la sua giovinezza, a Samo.
Cominciò
ad interessarsi alla filosofia già all’età di quattordici anni
ascoltando le lezioni di Pànfilo, un filosofo platonico che instillò
nell’animo di Epicuro una profonda avversione per il platonismo.
Successivamente
divenne scolaro di Nausifane, un pensatore democriteo che impartiva i
suoi insegnamenti in una città dell'Asia Minore di nome Teo.
Questa
volta, però, le tesi del nuovo maestro fecero breccia nello spirito
dell’allievo e lo trasformarono in un convito atomista.
A 18
anni Epicuro dovette recarsi ad Atene per compiere il servizio di
efebato richiesto ai giovani della sua età: si trattava di un
periodo di addestramento fisico e militare della durata di due anni.
Alcuni
ritengono che, in questa fase della sua vita, Epicuro abbia
avuto modo di ascoltare le lezioni di Aristotele, il fondatore del
Liceo, e di Senocrate, un filosofo platonico che, all’epoca, era a
capo dell’Accademia di Platone, ma questi fatti non sono
storicamente appurati.
Con
il trascorrere del tempo, il pensiero di Epicuro maturò e così,
dopo aver elaborato un sistema filosofico originale, divenne egli
stesso un maestro di filosofia.
La
sua nuova attività cominciò all’età di trentadue anni tenendo
personalmente delle lezioni e fondando delle piccole comunità di
filosofi, dapprima a Mitilene e poi a Lampsaco.
Qualche
anno più tardi Epicuro si ritrasferì, per l’ultima volta, ad
Atene, dove acquistò una casa con un grande giardino, adibito ad
orto, e vi fondò una scuola sui generis, dando il via ad una sorta
di rivoluzione spirituale laica.
Il resto della sua esistenza la trascorse animando una comunità
filosofica e tollerando, con grande forza d’animo, i problemi
dovuti ad una salute malferma, fin quando, all’età di 71 anni,
morì dopo due settimane di sofferenze causate (pare) da dei calcoli
renali.
Egli
fu il primo pensatore a sostenere che un uomo può esser felice anche
in mezzo alle torture. E ne diede testimonianza con due sue lettere,
scritte proprio nei giorni di fase acuta della malattia che lo colpì
così duramente da sottrargli la vita.
Al
loro interno, oltre a comunicare la propria serenità
d’animo dovuta all’imminente fine delle sue sofferenze, Epicuro si
preoccupò che, dopo la sua dipartita, i discepoli più fedeli
avessero cura dei figli di Metrodoro, suo intimo amico, nonché il
filosofo più illustre tra gli epicurei, il quale era a sua volta
deceduto da circa sette anni.
Secondo
lo storico Diogene Laerzio, negli ultimi istanti della sua esistenza,
Epicuro s’immerse in una tinozza di bronzo piena d’acqua calda e
con il medesimo sorso con cui ingurgitò tutto d’un fiato del vino
puro, bevve anche il freddo della morte.
Il Giardino di Epicuro
Siccome
Epicuro teneva lezione, e conduceva vita comune con i suoi discepoli,
nell’orto della propria abitazione, il termine “Giardino”
finì per indicare la sua scuola e le espressioni “quelli del
Giardino”, o anche “i filosofi del Giardino”,
identificavano gli stessi epicurei.
Avvolto
dai dolci suoni della campagna, e tenendosi ben lontano dalla vita
politica, Epicuro accolse nella propria abitazione un gran numero di
seguaci, tra cui vi erano anche donne, prostitute, meteci e schiavi.
Ricchi
o poveri, cittadini o stranieri, il Giardino era aperto a tutti
coloro che intendevano sposare la concezione epicurea. Null’altro
era richiesto.
Nacque
così una comunità filosofica di amici, incentrata sulla figura di
Epicuro, dove si viveva nella semplicità e nell’uguaglianza, ed
ogni compagno veniva rispettato, prescindendo dalla sua estrazione
sociale.
La
nobiltà dell’amicizia degli epicurei era così grande da esser
nota in tutto il mondo antico. Si consideri anche che Epicuro fu uno
dei primi pensatori a teorizzare ed applicare un egualitarismo
sostanziale tra gli esseri umani.
La
frugalità dei filosofi del Giardino era dovuta, da un lato, alla
concezione filosofica di Epicuro, e dall’altro, alla mancanza di
denaro.
Gli
epicurei vivevano essenzialmente di pane, acqua, frutta ed ortaggi, e
la loro comunità si sosteneva, in una certa misura, grazie alle
donazioni.
Ciò
può essere dedotto dalle stesse parole di Epicuro: «Tutto
trabocca il mio corpo di dolcezza, quando vivo a pane e acqua, e
sputo sui piaceri di vita sontuosa, non per loro medesimi, ma per gli
incomodi che vi si accompagnano».
Egli,
infatti, osservava un regime dietetico vegetariano e consigliava a
tutti di astenersi dal consumo di carne, iniziando i suoi discepoli
al rispetto degli animali, i quali, essendo dotati di sensibilità,
ricercano il piacere e rifuggono dal dolore, proprio come gli esseri
umani.
È
noto, inoltre, che Epicuro intrattenesse dei rapporti epistolari con
amici e discepoli, nei quali, oltre a compendiare la propria
dottrina, avanzava delle richieste di aiuto economico da
corrispondere in natura: «Mandami un po’ di formaggio
conservato, tanto mi piace che per me sarà una festa!».
Altre
volte, invece, richiedeva esplicitamente delle modeste somme di
denaro: «Mandaci offerte per il sostentamento della nostra
santa comunità nell’interesse tuo e dei suoi figli».
Anche
il Giardino, così come accadde con molte altre scuole dell’antica
Grecia, aveva il carattere di un’associazione religiosa. In questo
caso, però, vi era una differenza sostanziale: il culto degli
epicurei non era rivolto a qualche divinità, bensì allo stesso
Epicuro, in carne ed ossa.
Egli
esercitava sui propri discepoli una grande autorità, che si
traduceva nella stretta osservanza della dottrina epicurea ed in un
rigido dogmatismo reverenziale.
Basti
sapere che le tesi degli epicurei furono dettate, una volta per
tutte, dallo stesso Epicuro e col passare dei secoli rimasero pressoché
inalterate.
La
riconoscenza nei confronti del maestro era così grande, che i suoi
discepoli gli tributarono onori e glorie sin da quando egli era
ancora in vita.
Dopo
la sua morte, la figura di Epicuro sfumò nel mito a tal punto che
per i discepoli degli anni a venire egli non era più soltanto una
grande guida spirituale, ma una sorta di divinità scesa sulla terra,
la cui memoria veniva celebrata il ventesimo giorno di ogni mese.
In
estrema sintesi, il compito degli epicurei consisteva nel leggere,
nello studiare e nel mettere in pratica, gli scritti e la filosofia
di Epicuro, modellando la propria condotta di vita sulla base
dell’esempio del loro mentore.
I
seguaci apprendevano una sorta di credo e lo applicavano senza
rimetterlo in discussione. Il precetto fondamentale della scuola era
il seguente: «Comportati sempre come se Epicuro ti
vedesse» anche quando egli è
assente.
Per
questo motivo Seneca sostenne che le grandi anime epicuree non le
fece tanto la dottrina di Epicuro, bensì l’assidua frequentazione
del loro maestro.
Caratteristiche
dell’epicureismo
Nel
corso della sua vita Epicuro riuscì a redigere una vastissima
produzione letteraria composta da oltre 300 scritti.
Disgraziatamente,
dei numerosi testi epicurei soltanto una piccola parte è giunta fino
a noi: si tratta di tre lettere, un Testamento, due raccolte di
citazioni (le Massime Capitali e le Sentenze Vaticane),
pervenuteci per intero grazie all’opera dello storico Diogene
Laerzio, e un certo numero di frammenti, in parte provenienti da
un’opera intitolata Sulla Natura.
Al
loro interno, Epicuro si occupò delle tematiche più disparate. Ad
esempio, nelle lettere indirizzate a Erodoto, Meneceo e Pitocle egli
fece rispettivamente una trattazione riassuntiva del suo pensiero in
relazione alla fisica, all’etica e all’astronomia, mentre nelle
Sentenze Vaticane i temi affrontati sono prevalentemente di tipo
etico. Le Massime, invece, compendiano la dottrina epicurea in forma
aforismatica.
Nonostante
ciò, la maggior parte dell’attuale conoscenza della filosofia
epicurea è dovuta alle fonti indirette, tra le quali le più
significative sono quelle di Cicerone, che nel suo De finibus
bonorum et malorum espose in
modo sistematico il pensiero di Epicuro con un intento polemico, e di
Tito Lucrezio Caro, un poeta e filosofo romano, tra i più illustri
seguaci dell'epicureismo, che nel suo impareggiabile poema De
rerum natura si fece portavoce
delle teorie epicuree mettendole in versi con un intento celebrativo.
La
filosofia del Giardino sviluppata da Epicuro era in aperto contrasto
sia con le dottrine socratico-platoniche che con la visione
aristotelica, ma polemizzava pure con le correnti filosofiche minori
dell’epoca, come quelle dei cinici, dei megarici e dei cirenaici, e
per giunta si opponeva anche all’altra grande scuola ellenistica,
che si stava formando proprio in quel tempo: lo stoicismo.
Di
conseguenza Epicuro dovette
concepire un sistema filosofico sufficientemente ampio e sofisticato
da reggere il confronto con le altre visioni del mondo.
Per
questo motivo egli si occupò di logica, fisica ed etica, concependo
una cosmogonia ed una gnoseologia, fornendo una spiegazione sia per
la formazione dell'universo che della conoscenza, ma trattò anche
questioni teologiche e sociologiche, potendo così suggerire
all’umanità quale fosse la via regia da seguire nel corso
dell’esistenza.
Egli,
infatti, voleva insegnare come vivere serenamente,
liberando gli esseri umani da una serie di paure infondate che impediscono di essere felici.
Per
Epicuro, quindi, il valore della filosofia è puramente strumentale;
il suo compito consiste nel trovare un modo per essere felici, qui,
sulla Terra: «Chi dice che l'età per filosofare non è ancora
giunta, o è già trascorsa, è come se dicesse che non è ancora
giunta, o è già trascorsa, l'età per essere felici».
La
stessa cosa vale anche per la scienza che intende indagare le cause
del mondo naturale; grazie ad essa, infatti, l’essere umano avrebbe
potuto comprendere la realtà, dissolvendo così delle paura
illusorie.
Ciò
è talmente vero per Epicuro, che egli arrivò addirittura a
sostenere che: «Se non fossimo turbati dalla paura dei
fenomeni celesti e della morte, ch'essa possa essere qualcosa che ci
tocchi da vicino, e dal non conoscere il limite dei piaceri e dei
dolori, non avremmo bisogno della scienza della natura».
Pertanto,
nella dottrina epicurea la ricerca speculativa non rappresentava un
fine in sé, come invece avevano sostenuto alcuni tra i più
autorevoli filosofi del periodo classico, ma era subordinata ad un
obiettivo pratico (l’ottenimento della felicità) a cui veniva
riconosciuto valore indipendentemente dalla ricerca stessa.
Così
come fecero anche gli stoici, Epicuro tripartì la propria concezione
filosofica in logica, fisica ed etica.
La
logica epicurea riguarda le forme della conoscenza ottenibili
dall’essere umano; il suo compito consiste nell’elaborazione dei
canoni, ovvero dei criteri, grazie ai quali si può conoscere la
verità.
Per
questo motivo essa passò alla storia con il nome di Canonica,
che sta a significare la dottrina del canone della verità sviluppata
da Epicuro.
La
fisica epicurea concerne la natura della realtà in cui l’essere
umano è immerso; il suo obiettivo è di studiare la costituzione di
ciò che esiste effettivamente.
L’etica
epicurea, invece, s’interessa del modo in cui è più conveniente
agire all’interno della realtà; il suo proposito è di stabilire
quale sia il fine ultimo per l’essere umano e di individuare i
mezzi per perseguire concretamente tale fine.
Come
avremo modo di comprendere, Epicuro sviluppò la sua logica in
termini strettamente fisici, tanto che si potrebbe sostenere che, in
realtà, l’epicureismo si componga soltanto di due parti: la fisica
e l’etica.
Inoltre,
come abbiamo già anticipato, la stessa fisica era a sua volta
subordinata all’etica, ancor più di quanto la logica lo fosse
rispetto alla fisica.
La
vetta di pensiero più elevata raggiunta dalla filosofia di Epicuro
consiste nell’elaborazione di un tetrafarmaco
(quadrifarmaco), vale a dire una sorta di medicina spirituale in
grado di guarire l’essere umano dalle quattro paure
fondamentali che, secondo Epicuro, impediscono all’individuo di
condurre un’esistenza serena e felice.
I
quattro mali a cui bisogna assolutamente porre rimedio sono i
seguenti:
1)
la paura degli dei;
2)
la paura della morte e dell’aldilà;
3)
la paura rispetto al dolore fisico e quello mentale;
4)
la paura di non riuscire ad essere felici.
Per
comprendere come Epicuro liberò l’umanità da queste grandi paure,
bisogna addentrasi nei meandri della filosofia del Giardino...
La fisica
Ad
onor del vero, bisogna dire che per quanto riguarda la fisica
Epicuro, nonostante rivendicasse l’originalità delle proprie tesi,
non fu poi così innovativo: egli riprese, in sostanza, le teorie
atomistiche di Leucippo e Democrito introducendo alcune modificazioni
di secondaria importanza.
In
questo modo ottenne una teoria materialistica e meccanicistica che
non lasciava alcuno spazio ad interventi divini e principi spirituali
di carattere metafisico: la realtà è costituita unicamente da
corpuscoli indivisibili in movimento entro il vuoto, e tutto ciò è
più che sufficiente per spiegare il funzionamento del mondo,
escludendo qualsiasi finalismo.
Epicuro sosteneva che ognuno avrebbe potuto ricavare, e giustificare, la sua fisica combinando i sensi con la ragione, ma in realtà, per rendere il suo sistema filosofico completo e coerente rispetto alla propria visione etica, non esitò ad introdurre dei postulati arbitrari.
Cerchiamo
quindi di dedurre la fisica epicurea ragionando proprio come avrebbe
potuto fare lo stesso Epicuro.
Per
prima cosa osserviamo che nulla nasce dal non essere, e nessuna cosa
si dissolve nel nulla.
Questa
tesi è giustificata sia dall’esperienza che dal ragionamento.
Nessuno, infatti, ha mai visto qualcosa apparire dal nulla o
dissolversi nel non essere.
Del
resto, se ciò fosse possibile, ogni cosa, anche la più assurda,
potrebbe generarsi comparendo dal nulla, senza che vi sia un qualche
seme generatore.
Se
poi fosse vero che le cose potessero svanire nel nulla, a quest’ora
tutto si sarebbe dissolto e non esisterebbe più niente.
Dunque,
siccome ciò che esiste non compare, né svanisce, dal, e nel, nulla,
allora la stessa cosa può dirsi per il Tutto. Sicché la realtà,
qualunque essa sia, è eterna ed increata.
In
secondo luogo si può osservare come il Tutto sia composto soltanto
da due tipologie di costitutivi essenziali: i corpi ed il vuoto.
Per
provare l’esistenza dei corpi è sufficiente l’esperienza diretta
che ciascun essere umano ha con essi. L’esistenza del vuoto,
invece, dev’essere inferita osservando che i corpi possono
muoversi.
Infatti,
se non esistesse il vuoto, sostiene Epicuro, il moto sarebbe
impossibile, perché i corpi non riuscirebbero a spostarsi. Ma il
moto viene quotidianamente osservato, dunque il vuoto esiste.
Per
Epicuro il vuoto non è “non essere”, ma è “spazio”
caratterizzato da una natura intangibile entro cui ha luogo il moto.
Al di
fuori del vuoto non esiste null’altro d’incorporeo e, a differenza
dei corpi, che possono agire o subire un’azione, il vuoto non può
far altro che permettere alle cose corporee di spostarsi attraverso
di sé.
A
proposito della natura dei corpi si possono aggiungere ancora degli
ulteriori dettagli di fondamentale importanza.
L’esperienza
c’insegna che ogni cosa è soggetta alla disgregazione. Partendo da
questo dato di fatto si possono dedurre due cose:
la
prima, è che i corpi sono formati da altri corpi di più piccole
dimensioni, giacché se così non fosse le cose non potrebbero
disgregarsi;
la
seconda, è che ogni corpo non è altro che l’unione di corpuscoli
indivisibili, ovvero gli atomi. Infatti, se da un lato è vero che i
corpi possono disgregarsi, dall’altro è altrettanto vero che nulla
svanisce nel nulla.
Quindi,
ad un certo punto, il processo di disgregazione deve arrestarsi e ciò
che rimane sono i costituenti ultimi dei corpi, ovvero gli atomi,
che per loro natura non possono essere ulteriormente disgregati.
Alla
medesima conclusione si può arrivare osservando che se non
esistessero dei corpuscoli indivisibili assemblati tra loro così da
formare i corpi, allora la degradazione delle cose potrebbe andare
avanti senza limite.
Ma
così facendo, iterando all’infinito una progressiva suddivisione
dei corpuscoli che formano i corpi, si giungerebbe alla conclusione
paradossale che quest’ultimi siano formati dal nulla e, di
conseguenza, tutte le cose si dissolverebbero nel non essere. Il che
è assurdo.
A differenza di Aristotele, Epicuro non ammetteva un quinto elemento
per spiegare la natura del mondo celeste, giacché, a suo avviso,
tutto è fatto di atomi che si muovono nel vuoto.
Egli polemizzò anche con Platone, che riteneva di aver individuato
la composizione degli elementi fondamentali del cosmo associandoli ai
cinque solidi regolari (il tetraedro al fuoco, il cubo alla terra,
l'ottaedro all'aria, l'icosaedro all'acqua ed il dodecaedro
all’etere).
Ma se Platone non è nemmeno riuscito a dimostrare che questi solidi
non sono indivisibili, come si può accettare che essi siano i
costituenti ultimi della realtà?
Per
Epicuro le cose del mondo sono formate soltanto da atomi e, in ultima
analisi, l’ordine del cosmo è determinato dalle leggi che regolano
il moto di questi corpuscoli indivisibili.
I
concetti di “nascita” e “morte”, di ciò che esiste nella
realtà, possono essere spiegati come aggregazione e disgregazione di
corpi e corpuscoli.
Lo
spazio entro cui si muovono i corpi non ha confini; di conseguenza,
anche gli atomi esistono in quantità infinita, perché altrimenti un
numero finito di atomi si sarebbe disperso in un vuoto infinito e
così, a causa della reciproca lontananza, non vi sarebbe
aggregazione e non esisterebbe alcun corpo.
Per
bilanciare l’immensità di uno spazio infinito, per Epicuro, è
quindi necessario che vi sia un’infinità di atomi. Quest’ultimi,
però, pur esistendo in quantità illimitata, non presentano infinite
forme.
Le
geometrie atomiche sono diversissime e assai numerose, ma esistono in
quantità finita: ciò è sufficiente per spiegare la variabilità
delle cose che popolano la realtà.
Alcune
delle conseguenze dovute alla teoria fisica epicurea fin qui esposta
sono a dir poco entusiasmanti.
Se
Epicuro ha ragione allora la realtà è infinita e al suo interno vi
sono infiniti mondi. Alcuni sono del tutto simili al nostro, altri
sono diversissimi.
È
dunque necessario che altrove nell’universo esistano altri esseri
viventi, tra cui vi sono sia esseri umani che animali come quelli
presenti sulla terra, che creature dissimili rispetto ad essi.
Un
mondo non è altro che un pezzo di cielo ritagliato nel vuoto
infinito che al suo interno comprende astri, terre e fenomeni fisici.
Tra un mondo e l’altro vi è un grande vuoto di separazione che, complessivamente, va a formare un metacosmo (in greco antico: μετακόσμια, metakósmia), un termine che verrà in seguito tradotto in latino da Lucrezio come “intermundia”, con il significato letterale di “fra i mondi”.
Anche
i mondi sono soggetti a nascita e morte; la loro trasformazione, così
come quella dei corpi, avviene in virtù del moto degli atomi nel
vuoto.
Siccome
lo spazio e gli atomi sono infiniti, ma le forme di quest’ultimi
sono limitate, tutte le possibilità sono sempre rappresentate,
ovvero esse esistono simultaneamente nell’universo.
Il
Tutto, considerato nel suo complesso, è sempre stato, e sempre sarà,
così come è ora, giacché non vi è nulla in cui il Tutto possa
trasformarsi che sia diverso da se stesso.
Ci
potranno essere delle trasformazioni locali, ma globalmente il Tutto
continuerà sempre a mantenersi così com’è, perché ciò che "svanisce" in un luogo, disgregandosi, viene necessariamente a formarsi in un altro, aggregandosi.
Per
completare l’esposizione della fisica di Epicuro non resta che
illustrare la sua cosmogonia.
Immaginiamo
che nel vuoto infinito vi siano soltanto degli atomi tutti separati
gli uni dagli altri.
Essi,
secondo Epicuro, proprio come i corpi, sono dotati di peso. Infatti,
se così non fosse, neanche le cose costituite da atomi avrebbero un peso.
Se
questi sono i presupposti, allora, proprio come i corpi dotati di
peso cadono in verticale, anche gli atomi nello spazio, lasciati a se
stessi, si muovono concordemente ed in linea retta, secondo la
medesima direzione.
In
questo modo, però, si verrebbe a creare una sorta di pioggia di
atomi, in cui quest’ultimi, procedendo su percorsi paralleli, non
riuscirebbero a scontrarsi. Ma senza scontro, e aggregazione di
atomi, non vi sarebbe alcuna generazione di mondi.
Per
superare questo genere d’impasse, Democrito e Leucippo postularono
l’esistenza di una sorta di vortice primordiale, che impresse agli
atomi un moto caotico ed incessante.
Epicuro,
invece, introdusse il concetto di “parenclisi” (παρέγκλισις,
parénklisis, che significa “declinazione”, “inclinazione”),
un termine successivamente tradotto in latino da Lucrezio come
“clinamen”.
Secondo
la dottrina epicurea del clinamen, gli atomi avrebbero il potere di
deviare dalla traiettoria rettilinea di caduta, e questo scostamento
avverrebbe in modo casuale, sia rispetto al tempo che allo spazio.
Pertanto,
non è a causa di un misterioso vortice che gli atomi possono
incontrarsi, andando così a far nascere gli infiniti mondi, ma è in
forza della loro intrinseca ed aleatoria capacità di abbandonare la
direzione di moto impressa dal peso.
Questa
deviazione è l’unico tipo di evento naturale che non è sottoposto
alla necessità. Tutto il resto, è dovuto alle leggi che regolano
gli scontri tra corpi e atomi.
Il
postulato del clinamen aveva due grandi vantaggi: da un lato, salvava
la teoria di Epicuro dalla contraddizione che abbiamo or ora
illustrato, rendendo possibile e spiegando lo scontro tra gli atomi e
quindi la generazione dei mondi;
dall’altro,
rompeva il rigido determinismo dell’atomismo di Democrito e
Leucippo, «spezzando», volendo usare le parole di Lucrezio,
«le leggi del fato», e tutto ciò, come avremo modo di
comprendere più avanti, ben si conciliava con l’etica epicurea,
che rivendica per l’essere umano la libertà di poter scegliere
di condurre una vita morale.
«Sarebbe
stato meglio», sostiene Epicuro, «credere ai miti sugli dei
che non rendersi schiavi di quel fato che predicano i fisici; quel
mito, infatti, offre una speranza con la possibilità di placare gli
dei con onori, mentre nel fato vi è una necessità implacabile».
Epicuro si occupò anche di astronomia e di meteorologia, ma il suo
contributo, più che ad individuare quali fossero la vere cause dei
fenomeni celesti e atmosferici, era volto a tranquillizzare le anime
dei filosofi del Giardino.
Egli, infatti, sosteneva che i moti degli astri, i lampi, i tuoni, i
terremoti e il vento, avessero tutti un’origine di tipo fisico e
che per ciascuno di questi fenomeni vi fossero, non una, ma una
molteplicità di spiegazioni, tutte plausibili, in quanto nessuna di
esse era contraddetta dall’esperienza.
Il
volersi ostinare a cercare di stabilire quale tra esse sia la teoria
vera, è un’inutile curiosità. Non a caso i discepoli di Epicuro
non diedero alcun contribuito alla scienza della natura.
La canonica
La
logica epicurea è una teoria della conoscenza che si pone due
obiettivi fondamentali:
1)
individuare un criterio per cogliere la verità;
2)
fornire una regola per discerne il bene dal male.
Secondo
Epicuro, l’applicazione dei suoi canoni avrebbe consentito
all’essere umano di conoscere il vero e di orientarsi verso la
felicità.
Ben
si comprende, dunque, il motivo per cui la logica epicurea sia nota
come Canonica, ovvero come “dottrina del canone”. Ed è
altrettanto evidente, anche senza aggiungere null’altro, come tale
dottrina sia subordinata all’etica, con l’intento d’offrire
all’umanità una “logica” da applicare concretamente alla
morale.
Da
buon materialista-meccanicista quale era, l'approccio di Epicuro alla teoria della conoscenza non poteva che fondarsi sull’evidenza
empirica immediata.
E che
cosa c’è di più certo e diretto, per ogni essere umano, se non
ciò che scaturisce dai sensi?
La
fiducia nella verità che Epicuro riponeva rispetto alla conoscenza
generata dall’esperienza sensibile era così elevata che egli
arrivò a definire i sensi «i nunzi del vero».
A
Platone, che aveva sostenuto che le sensazioni confondono l’anima
distogliendo lo spirito dall’essere, Epicuro replicò capovolgendo
quella tesi, affermando che soltanto attraverso i sensi è possibile
cogliere l’essere in modo infallibile.
Mentre
ad Aristotele che, secondo Epicuro, aveva elaborato una logica
composta da parole che, di per sé, non erano d’aiuto a chi volesse
elaborare una fisica ancorata alla realtà, egli suggerì che invece
di ragionare sulla natura con enunciati privi di riscontro oggettivo
e formulazioni di principi teorici, bisognasse operare in base a ciò
che proviene dall'esperienza sensibile.
Questa
posizione non fu assunta in modo arbitrario, ma venne sostenuta con
delle argomentazione fisiche, di carattere atomistico.
Nella
sua essenza, il canone epicureo è fondato sulla seguente
tripartizione: sensazioni, anticipazioni (o prolessi) ed emozioni (o
sentimenti).
Le
sensazioni per Epicuro sono affezioni, ovvero fenomeni passivi della
coscienza, prodotti automaticamente dalla stessa struttura atomica
della realtà.
Ogni
cosa emana continuamente dei flussi di atomi che si allontanano dalla
superficie dei corpi viaggiando in ogni direzione e trasportando con
sé l’informazione relativa alle caratteristiche dell’oggetto da
cui essi si sono allontanati.
Questi
effluvi di atomi, sono una sorta di pellicole atomiche, dette éidola,
ovvero “immagini” o anche “simulacri”, che pur distaccandosi
dalle cose ne conservano una sorta d’impronta intangibile.
Viaggiando
per lo spazio, può accadere che questi simulacri materiali delle
cose collidano con gli organi di senso degli esseri umani e,
attraverso di essi, giungano al cuore, dove, secondo Epicuro, ha
origine la sensazione.
Si
comprende quindi il perché le sensazioni siano sempre vere,
oggettive ed infallibili: esse sono dei fenomeni meccanici
a-razionali, che avvengono in modo meccanico e rispetto ai quali lo
spirito dell’uomo non ha modo d’interferire.
In
altre parole, le sensazioni sono degli effetti fisici prodotti da un
automatismo che l’essere umano non può né distorcere né
manipolare.
Inoltre,
una sensazione non può essere confutata da un’altra sensazione ad
essa omogenea, perché in quanto tale quest’ultima non potrebbe far
altro che confermare l’informazione contenuta nella sensazione in
esame; né può essere contraddetta da una sensazione che proviene da
un altro oggetto, perché essa, essendo generata da un corpo
differente, sarebbe per forza di cose diversa e la comparazione non
avrebbe alcun valore.
Ciò
garantisce la verità e l’effettiva aderenza delle sensazioni alla
realtà fisica da cui esse sono generate.
Tuttavia,
durante il suo tragitto, un simulacro può deformarsi per varie
ragioni, trasportando così un’immagine non più fedele rispetto
alla cosa da cui esso è stato emanato.
Ciò
può avvenire, ad esempio, perché nel frattempo la cosa stessa si è
modificata, oppure a causa dello scontro con altri simulacri che si
verifica durante il percorso compiuto dalle éidola, dando luogo così
ad una sorta d’interferenza.
Ma
quello che per alcuni costituirebbe la prova dell’illusorietà dei
sensi, per Epicuro, invece, non è altro che l’ennesima conferma
della loro veridicità.
Infatti,
quando ad esempio si osserva sia da vicino che a grande distanza la
medesima torre, ottenendo due sue immagini visive profondamente
diverse, non si può dire che i sensi ci stiano ingannando, giacché
il simulacro di un oggetto vicino è effettivamente diverso rispetto
a quello di uno lontano.
In
tal caso la vista è verace, sia quando l'oggetto appare piccolo, a
grande distanza, poiché veramente è tale essendosi consunti i
contorni dei simulacri durante il loro spostamento attraverso l'aria,
sia quando invece esso appare grande, a beve distanza, poiché anche
in questo caso quell’oggetto possiede effettivamente tali
caratteri.
La
teoria della conoscenza di Epicuro rende conto anche della formazione
dei concetti e dell’immaginazione.
Infatti,
nel processo d’interazione tra le éidola ed i sensi viene
coinvolta anche la memoria dell’essere umano, che provvede a
produrre e immagazzinare delle rappresentazioni mentali delle cose
che hanno generato le rispettive sensazioni.
I
concetti, dunque, derivano dalla serie di sensazioni, ripetute e
conservate nella memoria, di cui si è avuto esperienza nel corso
della vita.
Siccome
i concetti sono prodotti dalle sensazioni, le quali sono sempre
veraci, il processo della loro formazione è del tutto automatico ed
il corretto funzionamento di questo meccanismo è garantito dalla
stessa struttura atomica della realtà, allora anche i concetti sono
sempre veri e costituiscono, assieme alle sensazioni, un criterio di
verità.
I
concetti, così come intesi da Epicuro, servono ad anticipare le
sensazioni future, giacché, in forza dell’esperienza, un essere
umano può disporre del fedele ricordo delle sensazioni prodotte
dalle cose con cui ha già interagito in passato, e quindi, grazie ad
esse, può conoscere in anticipo i caratteri delle cose analoghe a
quelle di cui ha già avuto esperienza, senza il bisogno di
interagire direttamente con esse.
In
altre parole, i concetti permettono all’essere umano di anticipare
i caratteri che le cose avranno, e le sensazioni che esse
produrranno, quando si verrà nuovamente in contatto con cose
analoghe a quelle con cui si è già interagito. Per questi motivi
Epicuro chiamò i concetti anticipazioni.
Andando
a recuperare e a combinare diverse immagini mentali impresse nella
memoria, è anche possibile produrre rappresentazioni fantasiose,
come quando, ad esempio, ci si raffigura mentalmente un centauro
ottenuto dall’unione del busto superiore d’un uomo con il corpo
di un cavallo. Questo rende conto dei processi immaginativi.
È
quindi chiaro come per Epicuro la fonte di ogni sapere, in ultima
analisi, sia da individuarsi nella conoscenza sensibile.
Persino
le idee più astratte, stando alla canonica epicurea, sono un
prodotto secondario dovuto alla sensazione, alla memoria di ciò che
è stato percepito e alle previsioni rispetto a ciò che è
percepibile.
Mediante
i concetti e l’uso del linguaggio si possono anche nominare le
cose, sia in loro presenza che in loro assenza, ma per poter dire
“questo è un tavolo”, è evidente che si debba già essere in
possesso dell’immagine mentale di un tavolo, acquisita attraverso
un’esperienza pregressa avuta con un oggetto reale.
Per
Epicuro anche i nomi attribuiti alle cose costituiscono una
manifestazione dovuta all’azione fisica che esse hanno esercitato
sui sensi dell’essere umano.
Un
linguaggio, dunque, è da considerarsi come un prodotto naturale
scaturito dall’espressione sonora associata alle emozioni umane che
si sono verificate in determinate condizioni.
Si
formano così inizialmente diversi suoni che poi, per convenzione,
formano dei nomi; quest’ultimi però, pur potendo variare da
cultura a cultura, provengono dalle medesime sensazioni.
Quindi,
pur essendosi sviluppati diversi linguaggi, ciascuno di essi è una
rappresentazione della medesima razionalità che è alla base dei
modi di esprimersi degli esseri umani.
A
questa prima fase naturale, segue, secondo Epicuro, una seconda
fase di tipo culturale, grazie alla quale il linguaggio adottato da
una certa comunità d’individui viene via via affinato e ampliato,
razionalizzando forme linguistiche che risultano ambigue, o
eccessivamente lunghe, ed introducendo, in caso di necessità, anche
nomi associati a concetti astratti.
Così
facendo, la teoria sull’origine del linguaggio di Epicuro risultava
sufficientemente complessa da riuscire sia a sostenere la genesi
naturale della lingua, che a giustificare la diversità linguistica
su base culturale.
Il
terzo, e ultimo, componente del canone epicureo è costituito dalle
emozioni, che Epicuro riduce alla concezione dualistica composta dal
piacere e dal dolore.
Così
come le sensazioni e le anticipazioni, anche le emozioni sono
oggettive e vere, giacché esse possono essere considerate come una
sorta di risonanza interiore, legata alle sensazioni, direttamente
regolata dalla fisica della realtà.
Tuttavia
il piacere ed il dolore svolgono un ruolo particolare nella canonica
di Epicuro: oltre a distinguere il vero dal falso, esse possono
essere impiegate per discernere il bene dal male, e quindi
costituiscono un criterio pratico per regolare la condotta morale
degli individui, indirizzando correttamente l’azione.
Si
comprende quindi come, in realtà, la logica epicurea sia orientata
alla prassi e risulti subordinata all’etica.
Per
completare la descrizione dei tratti fondamentali della teoria della
conoscenza di Epicuro, non resta che affrontare quello che potremmo
sinteticamente definire come il problema dell’induzione.
La
questione può essere posta nei seguenti termini: è possibile
estendere la conoscenza umana, rispetto alla verità dovuta
all’evidenza oggettiva ed immediata assicurata dai sensi, senza
incorrere nell’errore?
La
risposta secondo Epicuro è positiva, ma il sentiero per ampliare
l’episteme, ossia il sapere certo ed universale, utilizzando
l’intelletto, è insidioso.
Sensazioni,
anticipazioni ed emozioni sono sempre vere, in quanto esse sono delle
evidenze immediate, ed è proprio questa loro caratteristica comune a
garantirne la rispettiva veridicità, senza alcun bisogno di
ricorrere ad un ulteriore criterio estrinseco.
La
situazione però cambia profondamente quando un individuo elabora una
propria opinione ragionando sulle verità scaturite dai sensi. In tal
caso, infatti, è possibile introdurre un errore dovuto
all’operazione di mediazione effettuata con il pensiero.
In
estrema sintesi, secondo Epicuro, l’errore può derivare soltanto
da ciò che l’opinione aggiunge alla sensazione.
Sicché
mentre l’evidenza immediata e diretta dei sensi è sempre vera,
l’opinione mediata ed indiretta del pensiero può correre il
rischio di esser falsa. Pertanto si rende indispensabile un ulteriore
criterio per discernere le opinioni vere da quelle false.
Anche
in questo caso, il parametro rispetto al quale misurare la verità
resta l’evidenza empirica, con l’indicazione fondamentale di
ricercare mediante la ragione e l’esperienza il più stretto
accordo con i fenomeni percepiti.
In
questo modo, dice Epicuro, è possibile estendere la conoscenza
passando dalle cose evidenti a quelle che sono nascoste alla
sensazione, conservando il grado di verità.
La
stessa fisica epicurea, infatti, è stata elaborata tentando di
risalire da ciò che è evidente ai sensi, ossia i corpi ed il
movimento, a principi che tali non sono, cioè gli atomi ed il vuoto,
operando così, attraverso l’intelletto, una estensione della
conoscenza dal visibile all’invisibile.
Purtroppo,
però, quando si tenta di estendere il sapere attraverso dei processi
induttivi, la situazione diviene oltremodo complicata, tanto è vero
che la soluzione avanzata da Epicuro non fu del tutto soddisfacente e
gli stessi Stoici, che erano dei fini logici, non persero occasione
per criticarla duramente.
Epicuro sostenne che possono essere considerate
“vere” le opinioni che sono confermate, o che non vengono
confutate, dalle evidenze empiriche e dalle esperienze pregresse
dovute ai sensi;
debbono
invece esser considerate “false” le opinioni che sono confutate,
o che non vengono confermate, dalle evidenze empiriche e dalle esperienze pregresse dovute ai sensi.
Il
problema è che, a rigor di logica, una opinione confermata
dall’evidenza non è detto che sia vera, ed il massimo che si può
dire da un’assenza di confutazione, è che essa possa esser vera;
inoltre, mentre una sola confutazione empirica, se ben congegnata, è
sufficiente per stabilire la falsità di una opinione, la stessa cosa
non vale per un’assenza di conferma.
Non a
torto gli stoici fecero notare agli epicurei che per provare che in
ogni luogo ed in ogni tempo tutti gli uomini sono mortali, non basta
constatare empiricamente la morte degli uomini che ci stanno attorno:
bisognerebbe, invece, dimostrare che gli uomini sono mortali in
quanto uomini, ovvero a causa della loro natura. Ciò renderebbe
necessaria l’inferenza or ora illustrata.
Ma
gli epicurei replicarono, in modo altrettanto acuto, che fin quando
non vi è nulla che si opponga ad un’inferenza fondata
sull’analogia, essa debba essere ritenuta valida.
Siccome
gli uomini che cadono sotto la nostra esperienza si comportano in
modo simile rispetto al fenomeno della morte, senza alcuna eccezione,
allora si deve ritenere corretto sostenere che anche gli individui al
di fuori della nostra esperienza siano mortali.
In
altri termini, per Epicuro ciò che garantisce la validità del
processo induttivo per analogia è l’uniformità delle leggi di
natura che regolano il funzionamento della realtà.
Sicché
una volta che si è constatato, in base alla nostra esperienza e con
sufficiente accuratezza, che una certa qualità si accompagna
costantemente con altre qualità, allora è lecito inferire che tale
rapporto si mantenga invariato anche in quei luoghi ed in quei tempi
dove non giunge la nostra esperienza sensibile.
Inutile
dire che, in assenza di dimostrazioni, non c’è nulla che assicuri
che, al variare del tempo e del luogo, vi sia l’uniformità
richiesta da Epicuro per giustificare la sua tesi.
A
discolpa di quest’ultimo, si sappia che l’argomento dell’analogia
sopra esposto è tutt’altro che banale e il problema dell’induzione
rappresenta una questione di centrale interesse nell’epistemologia,
tanto da essere ancora oggi ampiamente dibattuto dai filosofi, in
particolar modo in relazione alla filosofia della scienza.
Tenuto
conto di tutti questi aspetti, non è esagerato sostenere che, con la
sua visione empirica ed induttiva della scienza, Epicuro abbia
anticipato, con ben 19 secoli d’anticipo, alcuni dei principi
fondamentali di quella che in tempi moderni sarebbe stata chiamata
scienza sperimentale.
Lo
stesso termine “canonica” deriva dalla parola "canone"
(dal greco κανών -όνος, derivato di κάννα "canna")
che, anticamente, indicava la canna, cioè il regolo usato
concretamente per eseguire calcoli e misure, rimarcando così
l’attinenza all’evidenza empirica diretta, riscontrata attraverso
i sensi, richiesta dalla fisica epicurea.
Alla
canonica mancavano però il mezzo e lo scopo per dare alla luce una
vera scienza sperimentale, ovvero la matematica, da impiegare per
formalizzare in modo rigoroso le leggi della natura, ed un’autentica
volontà di scoprire quali fossero tali leggi.
Per
Epicuro, invece, il vero fine della scienza, più che scoprire come
funzionasse l’ordine naturale, descrivendone le leggi, consisteva
nel liberare l’umanità dalla paura che l’ignoranza rispetto alla
realtà causava nell’animo degli individui.
Tra
le paure infondate da cui bisognava assolutamente liberare gli esseri
umani vi erano quelle rispetto agli dei ed alla morte. Per questi
motivi Epicuro si occupò anche di teologia.
La teologia
Secondo
Epicuro la religione tradizionale aveva finito col degenerare in
superstizione ed aveva assunto degli atteggiamenti ridicoli,
sostanzialmente dovuti al timore che gli esseri umani nutrivano nei
confronti delle divinità: «Non è irreligioso chi rinnega gli
dei del volgo, ma chi le opinioni del volgo applica agli dei».
Sicché
per recuperare la serenità d’animo bisognava liberare la teologia
dall’influenza negativa delle idee del volgo.
Tra
le argomentazioni teologiche di Epicuro, la più celebre è quella
espressa nel seguente aforisma:
«La
divinità o vuol togliere i mali e non può, o può e non vuole, o
non vuole né può, o vuole e può. Se vuole e non può, è
impotente, e la divinità non può esserlo. Se può e non vuole è
invidiosa, e la divinità non può esserlo. Se non vuole e non può,
è invidiosa e impotente, quindi non è la divinità. Se vuole e può
(che è la sola cosa che le è conforme), donde viene l'esistenza dei
mali e perché non li toglie?».
La risposta al precedente quesito non può che essere duplice: o la
divinità non esiste, e dunque ecco spiegati sia la persistenza del male che il motivo per cui gli dei non intervengono ad eliminarlo, o la
divinità esiste, ma non si cura affatto delle vicende umane, essendo
completamente indifferente rispetto ad esse.
Considerando
che Epicuro era un materialista convinto, chiunque sarebbe pronto a
scommettere che egli abbia sposato la prima tesi, utilizzando quindi
il precedente aforisma come un’argomentazione a supporto
dell’inesistenza delle divinità concepite con i classici attributi
di perfezione, bellezza e bontà: se il male persiste sulla
Terra, è perché gli dei non esistono.
Egli
invece, forse per evitare un’accusa di empietà, non esitò a
sostenere la seconda tesi, quella dell’esistenza degli dei, e lo
fece avvalendosi di ulteriori argomentazioni, che però risultano
tutt’altro che convincenti.
In
primo luogo, per tentare di dimostrare che gli dei esistono, Epicuro
ricorse agli strumenti della sua teoria della conoscenza.
Siccome
ogni essere umano possiede delle immagini mentali delle divinità, e
questi concetti, così come tutti gli altri, non possono che derivare
da simulacri atomici staccatisi da corpi reali, allora non si può
che concludere che gli dei esistano.
In
secondo luogo, per argomentare in favore della completa indifferenza
delle divinità rispetto alle vicende umane, Epicuro si avvalse della
più classica delle tesi formulate nell’antica Grecia, secondo la
quale “ciò che è perfetto non manca di nulla” e quindi non ha
bisogno di nulla, ancor meno d’occuparsi di ciò che riguarda gli
esseri umani.
Ciò
autorizzò Epicuro a concludere che: «Quel che è sopra di noi,
non ha nulla a che fare con noi».
Le
divinità hanno una forma antropomorfa (che è la più perfetta in
natura), parlano una lingua simile al greco (che è la lingua dei
sapienti) e trascorrono la loro esistenza beata e perfetta
alimentandosi della propria saggezza e della reciproca compagnia.
Sicché,
per Epicuro, le divinità esistono, possiedono gli attributi classici
che si è soliti associare agli dei, ma gli esseri umani non devono
nutrire alcun timore nei loro confronti, perché essi conducono
un’esistenza libera, gioiosa ed autoreferenziale, negli spazi vuoti
che separano i mondi (intermundia), senza interferire in alcun modo
con ciò che accade sulla Terra.
Del
resto un simile onere, sarebbe incompatibile con la loro condizione
di perfetta beatitudine e completa libertà, scevra da ogni obbligo.
Chissà
perché Epicuro evitò di prendere in considerazione una terza via,
rispetto a quelle precedentemente esposte, ossia che gli dei esistano
e siano malvagi; forse egli riteneva che ciò che è perfetto non può
esser malvagio, scartando così questa possibilità. Ma in realtà
non c’è nulla che ci assicuri che gli dei siano perfetti.
Comunque
sia, a cosa servivano delle divinità perfette e beate, dal momento
che Epicuro riteneva che esse non interagissero in alcun mondo con
gli esseri umani?
Gli
dei sono dei modelli che rappresentano la perfezione; il saggio gli
rende onore, non perché ne ha timore, ma per l’ammirazione che
prova nei confronti della loro eccellenza.
Il
ruolo degli dei, quindi, è d’ispirare gli uomini, affinché essi,
imitandoli, possano condurre un’esistenza beata. L’essere umano,
infatti, potrebbe essere felice al pari degli dei, se solo si
assimilasse ad essi.
La
differenza incolmabile tra gli esseri umani e le divinità, è che
queste ultime hanno la vita eterna, e quindi possono godere della
felicità eterna, mentre gli umani, essendo mortali, possono
sperimentare tale condizione soltanto per un periodo di tempo
limitato.
In
merito a ciò Epicuro sosteneva che: «Non è infatti per me cosa
piccola o priva di importanza ciò che rende la mia disposizione
d’animo simile a quella degli dei e indica che non siamo inferiori
alla natura incorruttibile e beata, nonostante la nostra condizione
mortale. Perché da vivi possiamo godere di una felicità pari a
quella degli dei, anche se si sia ricevuta una diminuzione» in
termini di durata.
Infatti:
«Un tempo infinito contiene la stessa quantità di piacere che
uno finito, quando i confini dei piaceri si misurino col raziocinio».
Il voler includere gli dei nella realtà, pur confinandoli in una
sorta di paradiso ozioso separato dai mondi terreni, non fu una
scelta indolore.
In
verità, sia la negazione, che l’ammissione, dell’esistenza degli
dei, avrebbero comunque condotto Epicuro in un cul-de-sac, dal
quale sarebbe stato impossibile liberarsi, senza rivedere, in una
certa misura, alcuni spetti del suo impianto filosofico.
Egli,
infatti, da un lato, non poteva negare l’esistenza degli dei,
perché altrimenti il criterio di verità basato sulle anticipazioni
sarebbe risultato fallace, e dall’altro, se avesse ammesso
l’esistenza degli dei, non avrebbe potuto sostenere l’immortalità
delle divinità, perché altrimenti avrebbe dovuto spiegare come mai
gli dei immortali, a differenza degli altri corpi, non siano soggetti
alla dissoluzione, pur essendo formati da atomi, proprio come ogni
altra cosa che esiste nella realtà.
La
soluzione ideata da Epicuro per tentare di rimediare a questa aporia,
è ancor più rovinosa del danno che si sarebbe potuto facilmente
riparare, se solo si fosse scelto di negare l’esistenza degli dei e
di rivedere il criterio delle anticipazioni, ottenendo così
un’apprezzabile coerenza interna rispetto al proprio sistema
filosofico.
Gli
dei esistono, dice Epicuro, e sono immortali, perché gli atomi che
formano i loro corpi hanno una natura differente rispetto a quella
delle altre cose, sicché la loro natura non è corporea, ma è
“quasi-corpo”, così come la loro anima che è “quasi-anima”.
Sicché
Epicuro, per evitare l’accusa di empietà e salvare il proprio
impianto filosofico, è costretto ad introdurre in modo superfluo ed
arbitrario una ulteriore ipotesi ad hoc.
È
inutile sottolineare come il risultato ottenuto appaia tutt’altro
che soddisfacente per l’intelletto di ogni essere pensante.
Per
Epicuro anche gli esseri umani, al pari degli dei, sono dotati di
un’anima: essa, proprio come ogni altra cosa, è composta da
un’aggregato di atomi.
Gli
atomi dell’anima hanno una grande mobilità, essendo particelle più
rotonde e sottili rispetto a quelle che compongono le altre cose, e
sono diffusi in tutto il corpo, come una sorta di soffio caldo.
L’anima
è formata da una parte razionale e da una parte irrazionale, ed è
proprio grazie ad esse che l’essere umano è in grado di provare
sensazioni, d’immaginare, ovvero di produrre rappresentazioni
fantastiche, di ragionare, cioè di esprimere giudizi e formare
opinioni, nonché di sperimentare le emozioni di piacere e dolore,
così da potersi regolare praticamente nella condotta di vita.
L’anima,
inoltre, in particolar modo la parte irrazionale, è il principio
della vita ed è ciò che vivifica il corpo.
Essendo
composta da un aggregato di atomi, anche l’anima è soggetta a
corruzione. Pertanto essa non è eterna, ma mortale, proprio come i
corpi.
Quando
sopraggiunge la morte, gli atomi dell’anima si disperdono, così
come quelli del corpo, ma con una maggiore velocità, e, di
conseguenza, con la loro disgregazione, viene meno ogni possibilità
di sperimentare le sensazioni, perché l’allontanamento degli atomi
animici non consente più all’anima di esercitare le sue facoltà.
La dissoluzione dell’anima priva l’essere umano anche
dell’auto-coscienza.
Questa
tesi fisica, di carattere materialistico, crea i presupposti per
liberare l’umanità dal timore della morte, consentendo ad Epicuro
di sostenere che: «Il più terribile dei mali, la morte, non è
nulla per noi, perché quando ci siamo noi non c'è la morte, e
quando c'è la morte noi non siamo più».
Vano
è dunque anche il timore per la vita dopo la morte, giacché con la
disgregazione degli atomi che formano l’anima ed il corpo di un
essere umano termina anche l’esistenza di ogni individuo.
A chi
obiettava di non aver tanto paura della morte, ma piuttosto della
sofferenza sperimentabile in vita, Epicuro faceva notare che il
dolore è inversamente proporzionale alla sua intensità.
Così,
se il dolore è lungo significa che esso è lieve, e dunque è
facilmente sopportabile, mentre invece se esso è intenso, la sua
durata non può che essere breve, risolvendosi, talvolta, nella
morte, la quale è assenza di sensazioni e quindi di dolore.
E per
quanto riguarda i turbamenti dell’anima? Per quelli è sufficiente
conoscere e mettere in pratica i precetti dell’etica epicurea.
L’etica
Per
sviluppare la sua etica, Epicuro riprese la concezione edonistica dei
cirenaici, rovesciando completamente il loro punto di vista:
il
vero piacere da perseguire, il sommo bene, che è in grado di per sé
di assicurare all’essere umano la felicità, non è il piacere
cinetico, come suggerito da Aristippo, ovvero un piacere
positivo, attivo e dinamico, ma è il piacere catastematico,
vale a dire un piacere negativo, passivo e stabile.
Secondo
Epicuro, la desiderabile condizione di eudaimonia (dal greco
εὐδαιμονία, derivato da εὐδαίμων “felice”,
a sua volta composto da εὖ “bene” e δαίμων “demone”
o “sorte”), vale a dire la serenità, può essere ottenuta
soltanto coniugando sapientemente l’aponia, cioè l’assenza
di dolore fisico del corpo, con l’atarassia, ovvero con la
mancanza di turbamento dell’anima.
La
vera felicità consiste: «nel non soffrire e nel non agitarti»,
mentre: «il culmine del piacere è la pura e semplice distruzione
del dolore».
Epicuro
concordava con i filosofi di Cirene che il bene fosse il piacere:
«Noi riteniamo il piacere principio e fine della vita felice,
perché lo abbiamo riconosciuto bene primo e a noi congenito».
E a
supporto di questa tesi poneva la stessa evidenza empirica: tutti gli
animali, non solo gli esseri umani, tendono naturalmente al piacere
e fuggono dal dolore.
Sicché
il piacere, oltre ad essere un bene, rappresenta anche il criterio
rispetto al quale si valuta il bene e ci si regola nelle scelte
comportamentali.
Ma
mentre per i cirenaici questa naturale tendenza andava assecondata,
per Epicuro doveva essere limitata attraverso un accurato calcolo:
«Ad ogni desiderio bisogna porre la domanda: che cosa avverrà,
se esso viene appagato? Che cosa avverrà, se non viene appagato?».
E
ancora: «Soltanto l’accorto calcolo dei piaceri può far sì
che l’uomo basti a se stesso e non divenga schiavo dei bisogni e
della preoccupazione per l’indomani. Ma questo calcolo può essere
dovuto soltanto alla frònesis (saggezza). La saggezza è anche più
preziosa della filosofia, perché da essa nascono tutte le altre
virtù, e senza di essa la vita non ha né dolcezza, né bellezza, né
giustizia».
Ciò
che regola la condotta morale non è l’inseguimento del piacere in
quanto tale, ma la ragione che analizza e giudica i piaceri da
perseguire, avendo cura di scartare i godimenti che portano con sé
dolori e turbamenti futuri.
Infatti:
«Se le cose che danno luogo ai piaceri propri dei dissoluti
fossero anche tali da liberarci dai timori dell'animo circa i
fenomeni celesti, la morte, il dolore, e ci insegnassero quale sia il
limite dei desideri, non avremmo niente da rimproverare a quelli:
essi sarebbero infatti ricolmi di ogni piacere e non avrebbero mai da
soffrire fisicamente o da affliggersi, nel che consiste appunto il
male». Ma siccome così non è,
il calcolo limitativo dei piaceri diviene indispensabile.
Per
Epicuro: «Non è possibile vivere felicemente senza anche
vivere saggiamente, bene e giustamente, né saggiamente e bene e
giustamente senza anche vivere felicemente. A chi manchi ciò da cui
deriva la possibilità di vivere saggiamente, bene, giustamente,
manca anche la possibilità di una vita felice».
La
saggezza, dunque, è una condizione necessaria per raggiungere la
felicità. Senza di essa, infatti, sarebbe impossibile operare un
efficace calcolo dei piaceri, riuscendo a scegliere e limitare
correttamente i bisogni in funzione dell’obiettivo del mantenimento
del duplice stato di atarassia e aponia.
Di
conseguenza nell’epicureismo, saggezza, virtù e felicità
tendono ad identificarsi: «La saggezza è principio di tutte le
altre virtù e ci insegna che non si può essere felici, senza essere
saggi, onesti e giusti. Le virtù in realtà sono un'unica cosa con
la vita felice e questa è inseparabile da esse».
In
forza della sua teoria della conoscenza, che poneva i sensi alla base
del canone fondamentale dell’umana esistenza, Epicuro sostenne
anche che tutti i piaceri hanno un carattere sensibile: «Io non
so che cos’è il bene, se prescindo dai piaceri del gusto,
dell’amore, dell’udito e da quelli che derivano dalle belle
immagini percepite dagli occhi e, in generale, da tutti i piacere che
gli uomini hanno dai sensi. Non è vero che solo la gioia della mente
è un bene; giacché la mente si rallegra nella speranza dei piaceri
sensibili, nel cui godimento la natura umana può liberarsi dal
dolore».
Il
bene, dunque, viene a coincidere con il piacere sensibile, entro cui
sono racchiusi anche il piacere della musica (interpretato come
godimento dell’ascolto dei suoni), della contemplazione della
bellezza (spiegato come il piacere dovuto alla vista di belle
immagini) e persino il piacere spirituale (che veniva ridotto al
ricordo dei godimenti passati e alla speranza di poter sperimentare
nuovamente il piacere sensibile).
In
questo modo Epicuro, a differenza dei cirenaici, che reputavano i
piaceri ed i dolori fisici nettamente superiori rispetto a quelli
mentali, seppe dare la dovuta considerazione alle risonanze interiori
e ai moti della psiche, nella consapevolezza che le questioni
mentali, a differenza di quelle fisiche, che sono circoscritte al
tempo in cui vengono sperimentate, perdurano a lungo e talvolta si
protraggono per tutto il corso dell’esistenza.
Per
indirizzare i filosofi del Giardino sulla corretta via da seguire, in
relazione al calcolo limitativo dei piaceri, Epicuro catalogò i
bisogni, ripartendoli in tre gruppi, ed indicò l’atteggiamento che
si dovrebbe tenere rispetto a ciascuno di essi:
1)
bisogni naturali e necessari; si tratta dei bisogni
strettamente legati alla conservazione in vita degli esseri umani,
come ad esempio il bere, il mangiare ed il riposare, quando si ha
sete, fame e sonno.
2)
bisogni naturali ma non necessari; si tratta delle varianti
superflue rispettivamente associabili ai bisogni naturali e
necessari, come ad esempio il mangiare ed il bere in modo sofisticato
e smisurato, ed il vestire con indumenti costosi e alla moda.
3)
bisogni non naturali e non necessari; si tratta di tutti quei
falsi bisogni scaturiti dalle vane opinioni degli uomini, come ad
esempio il piacere legato al desiderio di ricchezza, potere e fama.
Secondo
Epicuro, i piaceri legati ai bisogni naturali e necessari, sono gli
unici che vanno pienamente soddisfatti. La loro natura è limitata e
quindi il loro completo appagamento è facilmente ottenibile.
Se un
individuo evitasse di soddisfare appieno questo genere di bisogni, si
provocherebbe insensatamente dolori e sofferenze.
Il
confine che sancisce la transizione da un bisogno naturale necessario
ad uno non necessario, è proprio la cessazione del dolore: «Il
limite estremo della grandezza dei piaceri è la rimozione di tutto
il dolore».
Quando
la fame si è placata, eccedere con l’alimentazione non solo non è
necessario, ma non apporta alcun giovamento. E qualora questo
comportamento venisse reiterato nel tempo, produrrebbe addirittura un
danno.
Pertanto
il giusto atteggiamento da assumere nei confronti dei bisogni
naturali non necessari, è quello di cercare di limitare al massimo
l’appagamento del piacere ad essi associato, concedendosi, tutt’al
più, qualche sporadica e limitata eccezione.
Questo
genere di bisogni, infatti, non ha un limite fisiologico superiore,
segnalato dalla scomparsa del dolore, come accadeva nel caso dei
bisogni naturali e necessari; essi variano soltanto nella grandezza
del piacere che producono, il cui appagamento, però, può dare
origine a dei problemi.
Per
quanto riguarda i piaceri legati ai bisogni non naturali e non
necessari, la sentenza di Epicuro è nettissima: essi vanno
assolutamente evitati, sempre e comunque.
Questa
tipologia di falsi bisogni non toglie dolore, arreca sempre
turbamento all’anima e, non per ultimo in ordine d’importanza, è
impossibile da appagare completamente.
«La
ricchezza secondo natura è tutta compresa in pane, acqua e un
riparo qualsiasi per il corpo», sostiene Epicuro, mentre: «la
ricchezza superflua procura all’anima una illimitata prova dei
desideri».
Mettendo
in pratica queste indicazioni, chiunque avrebbe potuto conseguire
l’aponia e l’atarassia, che a loro volta avrebbero assicurato
agli esseri umani un’esistenza beata, libera dal dolore e dai
turbamenti: «Il grido della carne è: non aver fame, non aver
sete, non aver freddo. Colui che abbia soddisfatto questi bisogni, o
che si aspetti di poterli soddisfare, può gareggiare in felicità
anche con Zeus».
Talvolta,
però, la classificazione dei bisogni di Epicuro non risultava del
tutto immediata e di conseguenza poteva dar adito a dei
fraintendimenti.
Ad
esempio, non è ben chiaro se i rapporti amorosi siano beni naturali
necessari o non necessari, perché se da un lato essi sono
indispensabili per la riproduzione della specie, dall’altro possono
essere fonte di turbamento e di attaccamento, non esistendo un limite
netto che sancisca il loro pieno appagamento.
Una
volta accadde che, nel Giardino, un giovane epicureo si dedicasse
agli amplessi con una maggior dedizione rispetto alla media.
Quando
Epicuro lo venne a sapere, lo prese in disparte ed espresse il
seguente parere: «Mi dicono della eccessiva inclinazione della
tua carne verso i piaceri del sesso.
Ebbene,
se non violi le leggi ed i buoni costumi, né offendi il tuo
prossimo, né debiliti la tua carne, né dissipi le tue sostanze, fa
come vuoi.
Bada
però che non è possibile non essere ridotto in alcuna di queste
necessità; amplesso venereo non giovò mai, è già molto se non
nuoce».
Si comprende quindi come il discernimento rispetto a quali piaceri
bisognasse appagare, oppure no, era in parte lasciato alla
discrezionalità dei discepoli, che avrebbero dovuto valutare
autonomamente, caso per caso, cosa fosse compatibile con la loro
particolare natura, senza mai perdere di vista l’obiettivo del
mantenimento della serenità.
L’insieme
dei bisogni naturali e necessari poteva così estendersi e
personalizzarsi in base all’essere di ogni individuo; un’operazione
che era demandata alla ragione umana.
Ma
nel far ciò bisogna fare molta attenzione, perché il rischio di
confondere ciò che è veramente naturale per se stessi con ciò che
in realtà non lo è, non dev’essere sottovalutato.
«Alcuni
vollero divenire famosi e rinomati ritenendo così di procurarsi
sicurezza nei riguardi degli altri uomini», osserva Epicuro,
«Ammesso che in tal modo la loro vita sia diventata veramente
sicura, essi hanno acquistato un bene secondo natura; ma se la loro
vita non lo è divenuta, non hanno raggiunto quel bene secondo natura
sotto il cui impulso hanno agito fin dall'inizio».
In
quest’ultimo caso, il prezzo da pagare è l’aver dissipato
l’esistenza per inseguire una chimera, procurandosi dolori e turbamenti, allontanandosi dalla felicità.
La società
Per
quanto riguarda il rapporto degli individui con la società, il
pensiero di Epicuro si pone in netta rottura con il sentimento comune
dell’antica Grecia, che attribuiva grande importanza alla vita
pubblica condotta nella polis.
Il
suo invito non lascia spazio alle interpretazioni: «Liberiamoci,
una buona volta, dal carcere delle occupazioni quotidiane e della
politica».
Per
il fondatore del Giardino l’ambizione politica non può che esser
fonte di dolore e turbamenti, rappresentando, pertanto, un ostacolo
che si frappone tra l’essere umano e la felicità.
Quei
piaceri che ci si illude di ottenere dalla vita politica, in realtà,
sono innaturali e quindi allontanano l’individuo dall’aponia e
dall’atarassia.
Per
spiegare l’origine e la funzione della società, Epicuro elabora
una dottrina che ricorda da vicino la teoria del contratto sociale di
Jean-Jacques Rousseau.
Lo
Stato e le leggi sono stati costituiti in vista dell’utile
reciproco; lo scopo del patto sociale è di evitare che gli individui
si danneggino gli uni con gli altri.
«La
giustizia non esiste di per sé, ma solo nei rapporti reciproci, e in
quei luoghi nei quali si sia stretto un patto circa il non recare né
ricevere danno». La giustizia, dunque, è una convezione
subordinata all’utilità comune.
Sebbene
Epicuro riconoscesse la funzione sociale svolta dalle leggi, in
relazione al contenimento dei danni vicendevolmente causati dai
membri delle società, egli sottolineava anche come il saggio non
avrebbe comunque commesso ingiustizia, anche nel caso limite in cui
fosse stato assolutamente certo che il suo atto sarebbe rimasto
nascosto: «Chi ha raggiunto il fine dell’uomo, anche se nessuno
è presente, sarà ugualmente onesto».
Ciascuno
deve operare il bene nei confronti degli altri, perché: «È non
solo più bello, ma anche più piacevole fare il bene anziché
riceverlo». In tal senso
Epicuro arrivò addirittura a porre il piacere a fondamento e
giustificazione dell’umana solidarietà.
Sicché,
in una ipotetica società di saggi, verrebbe meno anche l’utilità
delle leggi, perché ciascun individuo si autoregolerebbe da sé,
comportandosi in modo giusto e retto nei confronti degli altri, senza
che vi sia alcun vincolo esterno ad indirizzare e limitare l’azione.
Visto
e considerato che la vita pubblica, non solo non aggiunge nulla
all’essere umano, ma addirittura lo allontana dalla serenità, il
consiglio che Epicuro dava ai suoi discepoli è di estraniarsi dalla
politica, appartarsi e condurre un’esistenza serena, in disparte:
«La corona dell’atarassia è incomparabilmente superiore alla
corona dei grandi imperi».
Infatti,
se da un lato: «la sicurezza nei riguardi degli altri uomini
deriva, fino a un certo punto, da una ben fondata situazione di
potenza e ricchezza», dall’altro: «la sicurezza più pura
proviene dalla vita serena e dall'appartarsi dalla folla».
«Vivi
nascosto!» è questo il precetto di Epicuro. E ancora: «Ritirati
in te stesso, soprattutto quando sei costretto a stare tra la folla»,
perché è soltanto mediante la
centratura interiore che si può raggiungere la serenità.
In
questo modo l’essere umano cessava d’essere un cittadino e si
trasformava in un individuo. Ma la svalutazione della politica veniva
super-compensata con l’esaltazione del valore all’amicizia: «Di
tutte le cose che la sapienza procura in vista della vita felice, il
bene più grande è l'acquisto dell'amicizia».
L’amicizia,
per Epicuro, è un legame libero che si instaura tra individui
accomunati dal modo di sentire, pensare e vivere. Essa non viene
imposta dall’esterno, in forza dell’autorità, come accade invece
con le leggi, ma è un rapporto naturale tra pari, che avviene nel
rispetto della mutua volontà.
L’amicizia
ha origine dall’utile, ma essa è un bene in sé. Infatti, una
volta sbocciata, sublimando il rapporto d’utilità, l’amicizia
stessa diviene una fonte di piacere. Pertanto essa è un bene da
perseguire in quanto tale.
Il
vero amico non è né chi dal rapporto d’amicizia ricerca sempre
l’utilità, né chi esclude a priori questa possibilità, perché
nel primo caso l’amicizia si ridurrebbe ad un traffico di vantaggi,
mentre nel secondo verrebbe meno la fiduciosa speranza d’un
possibile aiuto reciproco che, invece, rappresenta una parte di
fondamentale importanza in una vera amicizia.
«Non
è tanto dell’aiuto degli amici che noi abbiamo bisogno, quanto
della fiducia che essi ci aiuterebbero nel caso ne avessimo bisogno».
Il vantaggio dovuto
all’amicizia, quindi, non è soltanto di tipo materiale, ma anche
spirituale.
Emerge
con forza il carattere mutualistico dell’amicizia, così come
intesa da Epicuro, grazie al quale gli esseri umani possono
supportarsi vicendevolmente, migliorando la propria esistenza,
sopperendo così alle funzioni sociali svolte dalla polis.
«L'amicizia
trascorre per la terra annunziando a tutti noi di destarci per darci
gioia l'un con l'altro». Essa è addirittura da considerarsi
superiore all’amore, perché è in grado di garantire una serenità
più profonda e duratura rispetto a quest’ultimo sentimento,
essendo meno esposta alle sofferenze dovute al distacco, alla gelosia
e al timore di non esser corrisposti.
Non a
caso il Giardino era un luogo dove l’amicizia giocava un ruolo
centrale nei rapporti sociali: essa era il sentimento che più si
accordava con la concezione filosofica epicurea.
Tutto
ciò significa che, per Epicuro, il luogo adatto alla completa
realizzazione dei fini umani, la migliore organizzazione sociale
entro cui è effettivamente possibile perseguire e conseguire il
piacere e la felicità, non è la polis, ma una piccola cerchia di
amici, che conducono una vita semplice in comune, immersi nella
grande bellezza della natura, limitando i bisogni all’indispensabile
ed evitando di nutrire timore nei confronti della vita, del dolore, della morte e degli dei.
Il tetrafarmaco
Ora
che abbiamo esposto in maniera ampia e approfondita la filosofia di
Epicuro, possiamo somministrare al lettore il tetrafarmaco
epicureo, proprio come avrebbe fatto il fondatore del Giardino.
Per
guarire gli esseri umani dalle quattro paure fondamentali, che
impediscono agli individui di essere felici, turbando le loro anime,
è sufficiente sapere che:
1)
sono vani i timori nei confronti degli dei; sia che si ritenga
che le divinità non esistano, sia nel caso contrario, si può
provare che esse non si intromettono nelle vicende umane.
Infatti,
se gli dei non esistono, non v’è nulla da temere, se invece
esistono basta riflettere sul problema della persistenza del male,
per rendersi facilmente conto che l’unica possibilità che non dà
adito a contraddizioni, è che le divinità siano completamente
indifferenti rispetto a ciò che accade sulla Terra.
Che
gli dei:
a)
possano togliere il male, ma non vogliano farlo;
b)
non possano togliere il male, pur volendolo fare;
c)
non possano togliere il male e non vogliano farlo; rappresentano
ipotesi incompatibili con la perfezione delle divinità.
Nel
primo caso, infatti, esse sarebbero malvagie, nel secondo
risulterebbero impotenti e nel terzo sarebbero sia impotenti che
malvagie.
È
quindi evidente che gli dei possano togliere il male e vogliano
farlo, ma siccome il male persiste sulla Terra, allora si deve
concludere che le divinità siano totalmente estranee rispetto al
mondo degli esseri umani.
Gli
dei sono perfetti e conducono un’esistenza beata e libera da ogni
gravame negli intermundia; l’occuparsi dell’umanità è
un’attività incompatibile con la loro natura.
«L'essere
beato e immortale non ha affanni, né ad altri ne arreca; è quindi
immune da ira e da benevolenza, perché simili cose sono proprie di
un essere debole». Pertanto non si deve neanche avere timore del
giudizio degli dei.
Ognuno
è artefice del proprio destino e deve adoperarsi per raggiungere la
felicità: «È una cosa stolta supplicare gli dei per ottenere
ciò che uno è in condizione di procurarsi da sé».
2)
non ha senso aver paura della morte e dell’aldilà; siccome
l’essere umano è composto dall’unione di un corpo e di un’anima,
a loro volta costituiti da aggregati di atomi, allora egli non può
avere esperienza né della morte né dell’aldilà.
Infatti,
ciò che rende vivo un individuo, e gli consente di provare
sensazioni e di avere coscienza rispetto a ciò che fa, è proprio
l’aggregazione degli atomi corporei ed animici che costituiscono il
suo fisico e la sua anima.
Ma
quando sopraggiunge la morte, sia gli atomi del corpo, che quelli
dell’anima, si disgregano, ed a causa di questo processo di
dissoluzione viene meno sia la sensazione che la coscienza.
3)
l’inquietudine rispetto al dolore è infondata; infatti, il
male, o è poco intenso, e quindi è facilmente sopportabile, o se è
forte, è di breve durata.
In
particolare, la morte, qualora dovesse sopraggiungere un dolore
lacerante ed irrimediabilmente insanabile, non deve essere vista come
un male assoluto o un qualcosa da cui fuggire ad ogni costo, perché
in tal caso essa, avendo il potere di privare il corpo della capacità
di provare sensazioni, svolgerebbe il ruolo di liberatrice dai mali.
Per
quanto riguarda i dolori dell’anima, essi sono causati dalle false
opinioni, a cui si può porre rimedio grazie alla saggezza ed alla
filosofia. Di conseguenza:
4)
tutti possono essere felici nel corso della propria esistenza;
infatti, il piacere, che è ciò che assicura la felicità, è a
disposizione di tutti, qualora lo si intenda nel modo corretto.
Alcuni
durante l’esistenza si affannano per accumulare ricchezze, senza
riflettere sul fatto che a ciascun individuo «la bevanda della
vita fu versata mortale».
Gli
uomini si dannano per cose inutili, avidi di guadagno scatenano risse
e guerre; ma «la natura non vuole molta ricchezza», mentre
gli stolti tentano di estenderla all'infinito.
In
realtà, la vera ricchezza non si ottiene accrescendo gli averi, ma
sfrondando i desideri.
I
veri bisogni da soddisfare sono quelli naturali e necessari, sebbene
talvolta ci si possa concedere la gratificazione di un piacere legato
ad un bisogno naturale ma non necessario, senza perdere il controllo.
Ricercando
l’apatia e l’atarassia, ancor meglio se in compagnia di una
ristretta cerchia d’amici che vivono in comune nella campagna, al
riparo dal tumulto della città e dai turbamenti della vita
politica, ogni essere umano può condurre un’esistenza beata come
quella degli dei, anche qui sulla Terra.
«Non
si è mai troppo vecchi o troppo giovani per essere felici. Uomo o
donna, ricco o povero, ognuno può essere felice».
Per
questi motivi, il saggio non avrà timore neanche della sorte, perché
egli sa perfettamente che: «le cose più grandi e importanti sono
governate dalla ragione, e cosi continuano e continueranno ad essere
per tutto il corso del tempo».
E
alla fine, chi sarà riuscito a vivere con saggezza, potrà sostenere
con Epicuro: «Ti ho prevenuta, o sorte, e da ogni tua insidia mi
sono premunito. Non a te né ad alcun'altra circostanza ci
arrenderemo: ma quando sia necessario andarcene, sputando ampiamente
sulla vita e su quelli che vanamente ci si attaccano, ce ne andremo
con un bel peana, proclamando quanto bene abbiamo vissuto».
«Ricordati
che sei nato a sorte mortale ed a finito tempo di vita: ma con i tuoi
ragionamenti sulla natura sei sorto all'infinità ed all'eternità, e
hai contemplato tutte le cose che sono ora e che saranno, o che
furono, nel tempo trascorso».
Alti e bassi
dell’epicureismo
Dopo
la morte di Epicuro, l’epicureismo ebbe una lunga vita accompagnata
però da una sorte alterna.
Nel
suo Testamento, il fondatore del Giardino diede precise
indicazioni su come comportarsi in merito alla proprietà della
scuola: essa si sarebbe dovuta conservare tramandandola da discepolo
in discepolo, di generazione in generazione, a condizione che gli
ereditieri si fossero impegnati a mantenere sia la filosofia di
Epicuro, che il suo giardino, nel modo più integro e sicuro
possibile. E così fu.
Il
rigido dogmatismo imposto ai suoi seguaci ebbe un duplice effetto: da
un lato, impedì che avvennero dei successivi sviluppi della dottrina
epicurea che fossero degni di rilievo, dall’altro, conservò la
filosofia originaria elaborata dal fondatore del Giardino.
È
noto che la scuola di Epicuro era ancora attiva nella prima metà del
I secolo a.C., ma si sa anche che nella seconda metà del medesimo
secolo il terreno su cui operavano i filosofi del Giardino era stato
venduto.
Nel
medesimo periodo, in Italia, gli insegnamenti di Epicuro venivano
diffusi per opera di Filodemo di Gadara, che costituì un circolo di
epicurei aristocratici.
La
sede di questa scuola era collocata in una villa di Ercolano, di
proprietà di un influente uomo politico dell’epoca. Gli scavi
compiuti in quella zona hanno riportato alla luce i resti della
biblioteca situata nella villa, che conteneva numerosi scritti di
carattere epicureo.
I
discepoli di Epicuro gli furono così fedeli, da conservare gli
insegnamenti del loro maestro per un periodo di tempo lunghissimo,
fino a quando, all’incirca nel IV secolo dopo Cristo, i circoli
epicurei scomparvero definitivamente a causa delle pressioni sociali.
La
filosofia di Epicuro, infatti, era avversata sia dagli esponenti
della Roma imperiale, che la percepivano come una potenziale minaccia
in grado di minare i valori tradizionali utili al mantenimento dello
status quo, che dalla élite che, di lì a poco, avrebbe strutturato
il cattolicesimo, prendendo, rielaborando e imponendo la propria
concezione del cristianesimo alle masse, utilizzando la religione
come uno instrumentum regni.
Non
che il materialismo e l’edonismo degli epicurei risultassero
graditi ai primi cristiani (tutt’altro!), ma se la rivoluzione
spirituale laica di Epicuro si spense, fu soprattutto per via del
cattolicesimo; del resto, la filosofia di un pensatore che intendeva
liberare l’umanità dalla paura degli dei, mal si conciliava con
gli intenti di una élite di potere che voleva dominare il popolo
avvalendosi del timor di Dio.
Fu
così che, nel medioevo, il termine “epicureo” divenne un
sinonimo di “ateo”, intendendo con ciò ogni individuo con una
visione del mondo irreligiosa ed eretica rispetto a quella scelta
come “vera” dall’autorità del tempo.
Lo
stesso Dante Alighieri collocò all’Inferno tutti gli Epicurei,
perché essi sostenevano che l’anima fosse mortale, così come il
corpo.
Ma
dopo alcuni secoli di oblio, l’epicureismo tornò in auge nel
periodo del Rinascimento ed ancor più durante l’Illuminismo.
Per
ironia della sorte, uno tra i più illustri personaggi che
rivalutarono le tesi di Epicuro, fu un presbitero, nonché filosofo,
teologo, matematico, astronomo e astrologo francese: l'abate Pierre
Gassendi (Champtercier, 22 gennaio 1592 – Parigi, 24 ottobre 1655).
Tra i
numerosi intellettuali che, per i più disparati motivi, apprezzarono
la figura e la filosofia di Epicuro, vi furono anche: Lorenzo Valla,
il barone d'Holbach, Ugo Foscolo, Giacomo Leopardi, Percy Bysshe
Shelley, Karl Marx, Arthur Schopenhauer e Friedrich Nietzsche.
Fonti
- Il pensiero occidentale, di Giovanni Reale e Dario Antiseri.
- Storia della filosofia, di Nicola Abbagnano.
- Storia della filosofia antica, di Giuseppe Cambiano.
- Storia della filosofia occidentale, di Bertrand Russell.
- Storia del pensiero scientifico e filosofico, di Ludovico Geymonat.
- Epicuro,Wikipedia.
- Epicuro,Wikiquote.
- Epicuro,Filosofico.net.
- Epicuro,Treccani, Enciclopedia on line.
- Epicuro,Treccani, Dizionario di filosofia (2009).
- Epicuro,Treccani, Guido Calogero - Enciclopedia Italiana (1932).
Ciao, questo non è un commento, volevo solo dirti che
RispondiEliminaquesto sarebbe il momento giusto per fare un bel post come
quelli che facevi tempo addietro sul capitalismo del cazzo che non può fermarsi due mesetti per uno stupido coronavirus
altrimenti crollano i consumi e si perdono i posti di lavoro , la dittatura del pil ecc ecc grazie.
La ringrazio. Ci sarebbe tanto altro da dire, ma in questo momento, purtroppo, dopo aver pubblicato un trattato in 4 volumi, non ho la forza d'animo necessaria per ricominciare a scrivere un altro saggio di sociologia... mi dispiace.
EliminaImmagino la fatica ma non occorre un saggio, basterebbe
RispondiEliminaqualcosa di semplice ed essenziale per far comprendere a tutti
che finchè il lavoro sarà un fatto privato e i posti di lavoro
legati ai consumi andremo incontro a crisi del capitalismo
sempre più devastanti. E' ora che certe persone, soprattutto
quelle rincretinite dal falso conflitto politico destra-sinistra
comincino a capire che tutto ciò che funziona è organizzato
nei minimi particolari: come in un computer ogni minimo componente
concorre al risultato finale, anche all'interno di una fabbrica
ogni passaggio è pianificato per ottenere il miglior risultato
con minor spreco di tempo ed energia. Quindi non vedo perchè
l'economia nel suo complesso debba sottrarsi a questo principio
e lasciata libera nel caos della competizione concorrenza e
tutti contro tutti. Bisogna che questi rincretiniti comprendano
che abbiamo un pianeta solo e siamo di fronte a problemi
epocali: cambiamenti climatici, inquinamento, pandemie,
sovrapopolazione, disoccupazione di massa dovuta all'automazione.
Che si sveglino santo dio ! che non se ne può più...