Confutazione della Prova Ontologica di Anselmo d'Aosta e di tutti gli altri ragionamenti ad essa affini.
Nell'immagine l'Asino Volante di Tor di Nona (Roma). |
Tratto dalla raccolta di saggi semiseri intitolata Anche il Papa è ateo!, disponibile in formato cartaceo e digitale, anche in download gratuito!
Da quando alcuni uomini hanno inventato le divinità, altri hanno cercato di dimostrarne l'esistenza ed altrettanti hanno prontamente confutato quei tentativi di dimostrazione.
Al che, è lecito domandarsi: si può davvero riuscire a dimostrare a priori l'esistenza di Dio?
Nel corso della storia, filosofi e teologi hanno sostenuto l'esistenza sostanziale di enti immaginari nonostante non disponessero di alcuna evidenza empirica a supporto delle loro asserzioni.
Ma l'ambiziosa impresa di dimostrare l'indimostrabile, era chiaramente destinata a fallire: ad oggi, infatti, non esiste alcun argomento ontologico che abbia oltrepassato lo stringente setaccio della critica logico-razionale.
Con ciò non si può negare che le prove ontologiche prodotte nei secoli siano intrinsecamente interessanti ed abbiano una certa valenza didattica: (ri)conoscere gli errori commessi in passato è fondamentale per evitare di (ri)commetterne di simili in futuro.
È questa la più importante delle lezioni dovuta alla (conoscenza della) Storia (del pensiero).
Tra i più celebri ragionamenti “a priori” (vale a dire che si avvalgono soltanto dell'uso della ragione senza appellarsi all'esperienza empirica), ne esiste uno in particolare sul quale ci concentreremo nel corso di questa breve trattazione: la Prova Ontologica di Anselmo d'Aosta (1033; 1109).
La denominazione “ontologica” gli venne attribuita successivamente in modo anacronistisco ma divenne di uso comune; ciò accadde a ragione, dato che Anselmo intendeva chiarire l'esistenza dell'Essere (dal greco “òntos”) appellandosi alla pura ragione, cioè per via logica (dal greco “logos”).
Con il suo argomento, pubblicato nel Proslogion (1077), Anselmo intendeva mostrare «perfino agli stolti» la necessità dell'esistenza di Dio, in modo che ciascuno avesse potuto comprendere soltanto grazie all'ausilio della propria mente.
L'argomento muove i suoi passi dalla seguente definizione: «Dio è quell'ente del quale non possiamo pensare nulla di “maggiore” (o di “più grande”)».
Prima di procedere, vorrei suggerire al lettore di sentirsi libero di sostituire “ente” con il termine “essere” o con “qualcosa”, e d'interpretare il “maggiore” (o il “più grande”) in senso non troppo letterale.
Ora, sostiene Anselmo, anche l'insipiens (in latino lo “stolto”) che «in cuor suo nega l'esistenza di Dio» deve ammettere d'intendere una simile definizione, anche se non è detto che sia in grado di comprendere pienamente l'essere di Dio, ovvero ciò che Dio è veramente.
Quindi, a prescindere da cosa l'Essere “più grande” sia effettivamente, si deve accettare che l'idea di Dio esiste almeno nell'intelletto.
Anselmo prosegue facendo notare che è giusto distinguere ciò che esiste nel solo intelletto da ciò che esiste anche nella realtà e che se non si può negare che una simile concezione di Dio ammetta una realtà mentale, allora Dio deve necessariamente esistere anche nel mondo fisico.
Infatti, se supponessimo per assurdo che ciò di cui non si può pensare nulla di “più grande” esistesse nel solo intelletto, allora si potrebbe pensare ad un altro ente del tutto simile al precedente ma con la proprietà di esistere anche nella realtà.
Questo nuovo ente, in virtù della propria esistenza sostanziale, sarebbe “più grande” e perfetto del precedente, che invece esisterebbe solo nell'intelletto.
Ma così facendo avremmo ottenuto una contraddizione, costruendo un nuovo ente più “grande” dell'ente che era stato definito come ciò di cui non si può pensare nulla di “più grande”.
Quindi, se non si vuole cadere in contraddizione, l'esistenza sostanziale è un attributo che deve appartenere all'ente di cui non si può pensare nulla di "più grande", ovvero Dio esiste sia nel pensiero che nel mondo reale, quindi Dio esiste.
Volendo sintetizzare lo schema dell'argomentazione si avrebbe:
1) $Dio=D_{max}=$ {Ente di cui non si può pensare nulla di "più grande”}
2) $D_{max}$ esiste nell'intelletto, perché chiunque ha in mente il concetto di $D_{max}$.
3) Ciò che esiste nell'intelletto non è detto che esista anche nella realtà.
4) Supponiamo per assurdo che $D_{max}$ esista nel solo intelletto.
5) Definiamo $D_r = D_{max} \cup E_s$ dove $E_s :=$ {attributo dell'esistenza sostanziale}
6) Risulta: $D_r > D_{max}$. Ciò rappresenta un assurdo logico, perché $D_{max}$, che è il “più grande”, è maggiorato da un altro ente.
7) Concludiamo dicendo che l'esistenza sostanziale è un attributo che deve appartenere a $D_{max}$, quindi Dio esiste necessariamente.
Perché l'argomento di Anselmo non è sufficiente per dimostrare l'esistenza di Dio?
Rispondere ad una simile domanda è relativamente semplice ma non così banale come potrebbe sembrare, soprattutto per un lettore “non addetto ai lavori”.
Un piccolo trucco per rendersi conto dell'eventuale fallacia di un argomento consiste nel riprodurlo tale e quale in un altro contesto con il quale si ha maggiore familiarità.
Definiamo quindi l'Asino Perfetto come quell'asino di cui non si può pensare un asino “più grande”.
Ovviamente un simile asino ha le ali e può anche volare, perché se così non fosse, si potrebbe pensare ad un asino alato e volante che risulterebbe “più grande” dell'asino senza ali.
Ora, se l'argomento di Anselmo è valido, nulla vieta di riapplicarlo tale e quale all'idea dell'Asino Volante.
Infatti, anche il bigotto può intendere nella sua mente l'idea dell'Asino Perfetto, sebbene non è detto che ne comprenda fino in fondo la “natura”.
Dunque l'Asino Volante esiste anche nella realtà, perché se assumessimo che l'asino di cui non si può pensare nulla di più grande esistesse solo nell'intelletto, potremmo pensare ad un altro asino volante con l'attributo dell'esistenza sostanziale che, in virtù di ciò, risulterebbe “più grande” dell'Asino Volante ideale assunto come “più grande”.
Così facendo avremmo un assurdo logico che però può essere evitato attribuendo direttamente l'esistenza sostanziale all'asino di cui non si può pensare nulla di “più grande”.
Dunque l'Asino Perfetto esiste, ha le ali ed è in grado di volare. Quindi esiste almeno un asino volante.
Avremmo così provato che: se l'Argomento Ontologico di Anselmo è valido, l'esistenza sostanziale di Dio implica l'esistenza degli asini volanti nel mondo reale.
Ma nulla vieta di procedere in modo simmetrico, dimostrando con un Argomento Asinologico prima l'esistenza del grandissimo Asino Volante e poi l'esistenza di Dio.
Avremmo così provato che: se l'Argomento Asinologico di Mariucci è valido, l'esistenza sostanziale degli Asini Volanti implica l'esistenza di Dio nel mondo reale.
Ma nulla vieta di procedere in modo simmetrico, dimostrando con un Argomento Asinologico prima l'esistenza del grandissimo Asino Volante e poi l'esistenza di Dio.
Avremmo così provato che: se l'Argomento Asinologico di Mariucci è valido, l'esistenza sostanziale degli Asini Volanti implica l'esistenza di Dio nel mondo reale.
Combinando i due risultati si avrebbe che Dio esiste in modo sostanziale se e solo se gli asini volanti esistono nel mondo reale.
Ciò ci consente di formulare un Paradossale criterio di esistenza di Dio, che recita così: l'esistenza degli asini volanti rappresenta una condizione necessaria e sufficiente per stabilire l'esistenza di Dio.
Ora, nessuno può essere assolutamente certo che Dio non esista, data la sua sfuggente natura, ma chiunque può dirsi sicuro che nel mondo a noi noto non esiste alcun asino volante.
Allora, in virtù del Paradossale criterio di esistenza di Dio, potremmo concludere che Dio non esiste.
In verità, a rigor di logica, nulla esclude in modo definitivo che gli asini volanti non possano esistere, che non siano esistiti o che non esisteranno: ovviamente non sulla Terra, ma in un altro pianeta a noi sconosciuto e/o non ora, perché magari sono esistiti in passato o esisteranno in futuro.
Ora, il fatto che la prova di Anselmo implichi l'esistenza di almeno un asino volante dovrebbe rappresentare un motivo più che sufficiente per far insospettire coloro che si erano istintivamente schierati a favore della validità dell'argomento.
Se gli asini volanti non dovessero bastare, chiunque, con un po' di fantasia, potrebbe divertirsi a riapplicare il medesimo schema di ragionamento ad altre entità astratte, popolando così l'universo con straordinarie creature mitologiche, mostri, luoghi ideali o quant'altro possa scaturire dalla libera immaginazione. E potrebbe chiaramente ottenere altrettanti Criteri paradossali per l'esistenza di Dio.
A questo punto il dubbio dovrebbe tramutarsi, se non in certezza, in un forte sospetto e anche gli ultimi sostenitori di Anselmo dovrebbero issare la bandiera bianca della resa.
Ma se così non dovesse essere, attaccheremo l'argomento ancora una volta, mettendone in evidenza in modo esplicito i punti di criticità, per far crollare anche l'ultimo bastione della resistenza!
Il motivo per il quale la prova di Anselmo decade non risiede nella sua forma logica, che al contrario risulta valida sul piano strettamente formale, ma nella predicazione dell'esistenza:
si può dire quanto si vuole di un ente immaginario che esso esista nella realtà, ma se quell'ente di fatto non esiste (realmente), esso continuerà a non avere un'esistenza sostanziale.
Già il monaco Gaunilone, nel suo Liber pro insipiente, fece notare ad Anselmo che anche le cose dubbie e false possono essere pensate e quindi esistere nell'intelletto.
Quindi, se l'Argomento Ontologico fosse valido, si potrebbe dimostrare l'esistenza di enti immaginari dubbi o falsi, contraddicendo la realtà empirica delle cose.
Per esplicare il concetto, Gaunilone effettua una specie di parodia dell'argomento di Anselmo, dimostrando l'esistenza nell'oceano di un'Isola più ricca di beni di ogni altra terra abitata, che è denominata Perduta a causa della difficoltà nel trovarla.
E conclude, che se qualcuno volesse convincerlo dell'esistenza dell'Isola Perduta con tali argomenti senza lasciare adito a ulteriori dubbi, o crederebbe ad uno scherzo, oppure non saprebbe chi giudicare più stolto se sé stesso, nel caso gli credesse, o l'interlocutore, che ritiene di aver dimostrato in tal modo l'esistenza dell'Isola Perduta!
Ma Anselmo non si lasciò persuadere e rispose che non si possono porre sullo stesso piano Dio e un'isola, e che la prova è applicabile solo ed esclusivamente a ciò di cui non si può pensare nulla di “più grande”; non si tratta di disputare dell'esistenza contingente (ovvero che non ha carattere di necessità) dell'Isola ma dell'essere necessario di Dio.
Con questa replica Anselmo regalò qualche secolo di sopravvivenza al proprio argomento, che venne successivamente riformulato da Cartesio nelle sue Meditazioni Metafisiche al seguente modo:
1) l’Essere perfettissimo ha tutte le perfezioni; 2) l’esistenza è una perfezione; 3) dunque, l’Essere perfettissimo ha l’esistenza (cioè esiste).
Il che equivale a sostenere: 1) c'è una ed una sola entità perfettissima che ha tutte le perfezioni, vale a dire Dio; 2) l'esistenza è una perfezione; 3) dunque Dio esiste.
Infatti, dice Cartesio, pensare un Dio perfettissimo manchevole dell'attributo dell'esistenza (sostanziale) è contraddittorio così come lo è pensare «una montagna senza valle».
Ci volle l'intervento di Kant con la sua Critica della ragion pura per chiudere la questione.
Secondo l'illuminista di Königsberg, che venne in soccorso al monaco Gaunilone, il vizio delle prove ontologiche consiste nella presunzione di poter dedurre dall'idea di qualcosa la sua esistenza reale prescindendo dal dato di esperienza.
Egli dice: «Essere, manifestamente, non è un predicato reale, cioè un concetto di qualche cosa che si possa aggiungere al concetto di una cosa» e sostiene, ironicamente, di avere in tasca cento talleri (una moneta d'argento in uso all'epoca) e di pensarne altri cento.
I talleri immaginari dovrebbero essere “meno perfetti” di quelli che ha in tasca, poiché ciò che è pensato è “meno” di ciò che è esistente. Ma pur continuando a pensarne altri cento, non se ne ritrova di più in tasca. E continua:
«Rispetto allo stato delle mie finanze nei cento talleri reali c'è più che nel semplice concetto di essi (cioè nella loro possibilità). Infatti l'oggetto, per la realtà, non è contenuto senz'altro analiticamente nel mio concetto, ma s'aggiunge sinteticamente al mio concetto (che è una determinazione del mio stato), senza che per questo essere fuori del mio concetto questi cento talleri stessi del pensiero vengano ad essere minimamente accresciuti».
Nessun ragionamento a priori potrà mai trasformare la nostra idea di cento talleri in cento talleri effettivamente presenti nelle nostre tasche.
In particolare, l’aggiunta dell’esistenza alla specificazione di un concetto, di fatto, non vi aggiunge nulla e quindi non muta la realtà sostanziale del concetto specificato.
Per questi motivi l'Argomento Ontologico decade in modo definitivo. Ma la critica alla prova di Anselmo non termina qui.
Il lettore più accorto avrà notato che definire Dio come l'ente di cui non si può pensare nulla di “più grande”, ed affermare al contempo che un Dio che esiste solo nel pensiero non è più grande del medesimo Dio che però esiste anche nel mondo reale, è soltanto un modo alternativo per sostenere direttamente (come fece Cartesio) che Dio è l'essere con tutte le perfezioni e che l'esistenza sostanziale è una perfezione.
Con questa semplice considerazione diviene evidente l'equivalenza tra la riformulazione di Cartesio e la prova originaria di Anselmo.
Ma nella versione più recente, viene messa in maggior risalto una disastrosa circolarità, già presente nella prova di Anselmo, anche se in modo meno esplicito.
Infatti, dire che un ente possiede una certa tipologia di qualità (le perfezioni) e che una data qualità rientra in quella categoria (l'esistenza sostanziale), è soltanto un modo prolisso per affermare che quell'ente possiede quella data qualità.
In altre parole, Anselmo e Cartesio hanno trovato un modo “sofisticato” di assumere quello che promettevano di dimostrare. Entrambi i pensatori hanno sotteso nei loro ragionamenti (in modo più o meno velato) che l'esistenza sostanziale è una qualità positiva e che Dio la possiede per definizione.
Ma in questo modo essi non hanno dimostrato nulla di più di quanto non avessero già dichiarato in partenza.
Se dovessimo formulare una risposta alla domanda: «Perché Dio esiste in modo sostanziale?» basandoci sull'Argomento Ontologico, l'unica risposta che potremmo estrapolare sarebbe un tautologico ed inconcludente: «Dio esiste, perché Dio esiste (per ipotesi)».
Al che, si potrebbe rispondere con le parole del matematico Pierre Simon Laplace: «Dio è un' ipotesi non necessaria per spiegare il sistema del mondo».
L'Argomento Ontologico può essere sottoposto ad ulteriori critiche.
Si pensi ad un usuale triangolo della Geometria Euclidea.
Fintantoché un siffatto ente “vive” nel mondo ultrasensibile delle Idee Matematiche, allora esso è perfetto ed immutabile, i suoi angoli sono esatti ed i segmenti che ne delineano il perimetro ineccepibilmente diritti.
Al contrario, ogni manifestazione reale di un triangolo rettangolo ideale è per forza di cose imperfetta: i tratti che ne rappresentano il contorno non sono esattamente diritti, e così gli angoli che per forza di cose risultano essere soltanto delle approssimazioni dei “veri” valori ideali.
All'opposto delle corrispettive forme ideali, ogni triangolo reale è intrinsecamente affetto da un qualche genere di errore.
Dunque, almeno per il caso delle figure della geometria, l'esistenza sostanziale non può essere considerata una qualità positiva, perché i corrispettivi enti immaginari risultano chiaramente “superiori” in perfezione alle copie reali ma imperfette dei medesimi enti.
Non c'è nulla che ci assicuri che un simile argomento non possa sussistere anche per il concetto di Dio.
Chi ci garantisce che una divinità, che può senz'altro “esistere” in tutta la sua perfezione nel mondo dell'immaginazione, acquistando l'attributo dell'esistenza sostanziale non perda alcune delle sue qualità e risulti dunque “inferiore” al proprio corrispettivo immaginario?
Consideriamo ora la successione di insiemi chiusi del tipo $A_n=[1/n; 2-1/n]$ al variare di $n=1, 2, 3...$ numero naturale, e domandiamoci: qual è l'insieme più grande tra essi?
Per $n$ che tende ad infinito la quantità $1/n$ tende a zero da destra, mentre $2-1/n$ tende a due da sinistra.
Così si sarà indotti ad affermare che l'insieme più grande $A_{max}$ sia pari a $[0, 2]$. Ma in realtà né zero né due appartengono ad alcun insieme della successione $A_n$, perché zero è sempre strettamente minore di $1/n$ per ogni $n$ grande quanto si vuole, e similmente due è sempre strettamente maggiore di $2-1/n$.
Quindi $A_{max}=[0, 2]$ non può essere l'insieme più grande di quella successione d'insiemi, perché non ne fa neppure parte.
La risposta contro intuitiva, per chi non ha dimestichezza con le stranezze della matematica, è che non esiste alcun insieme più grande degli altri, se ci si limita a considerare esclusivamente gli insiemi della forma $A_n$.
Infatti, per ogni $n$ naturale fissato grande a piacere, basterà prendere l'insieme $A_{n+1}$ per ottenere un insieme più grande di quello che si era preso in considerazione... e così via all'infinito.
Questa breve digressione dovrebbe fornire l'ispirazione necessaria per sollevare qualche dubbio a proposito della definizione impiegata nell'Argomento Ontologico:
siamo certi che la definizione sia ben formulata? Si può effettivamente individuare un simile ente? Ammettendo che esista, cosa ci assicura l'unicità di un ente siffatto? È possibile che da quella definizione scaturiscano delle contraddizioni?
Anselmo e Cartesio, dichiarando Dio come l'ente che possiede tutte le perfezioni, stanno specificando una classe che, per come è stata definita, corre il serio rischio di non possedere neanche un membro al suo interno.
Il perché è presto detto: come possiamo esser certi che gli attributi qualificati come “perfezioni”, ovvero quelli che devono essere presenti nella definizione di Dio affinché esso sia “il più grande” che si possa pensare, siano reciprocamente compatibili tra loro a gruppi di 2?
E se lo sono a gruppi di 2, lo sono anche a gruppi di 3? E cosa succede se li si considera a gruppi di k, con k numero naturale arbitrario minore o uguale al numero degli attributi divini? E se tali attributi fossero infiniti ed indefinitamente perfettibili?
In realtà, trovare delle contraddizioni tra le usuali qualità riconosciute a Dio non è cosa poi così difficile da farsi, ed è altresì chiaro che all'aumentare del numero delle qualità, le possibilità che gli attributi si mantengano mutuamente compatibili tendano a diminuire.
È un po' come cercare di far convivere forzosamente un certo numero di persone con carattere, cultura e stili di vita differenti: all'aumentare del numero dei coinquilini, la probabilità che avvenga un litigio non potrà far altro che aumentare.
Supponiamo che Dio sia onnipotente ed onnisciente. Per definizione, egli può fare qualsiasi cosa ed in particolare conosce ogni cosa, passata, presente e futura. Chiediamoci: può un Dio siffatto compiere qualcosa di diverso da quello che già oggi sa che farà in futuro?
Dall'onniscienza segue che Dio conosce già ciò che farà tra un certo lasso di tempo, ad esempio in un dato giorno ad una precisa ora.
Giunto quell'istante, egli non potrà attuare un comportamento dissimile da quanto aveva previsto, perché se ciò accadesse non sarebbe onnisciente, dato che non avrebbe previsto correttamente il proprio futuro.
Dunque Dio non può scegliere di compiere un'azione diversa da ciò che predice a proposito di se stesso, quindi non è onnipotente.
Non c'è via d'uscita, perché se Dio potesse scegliere di modificare la propria azione pur avendola predetta, allora sarebbe onnipotente ma non onnisciente.
E ancora, se Dio è infinitamente buono, di certo non potrà né causare né essere il male.
Se Dio è onnipresente possiamo esser certi che sia presente in ogni cosa, in ogni momento e in ogni luogo.
Infine, se ammettiamo che Dio sia anche onnipotente, allora di sicuro egli potrà vincere contro ogni forza ad esso antagonista.
Supponiamo inoltre che il “male” (inteso in senso cristiano) esista, così come il Diavolo: l'essere malefico per eccellenza.
Quanto appena postulato, pur essendo estremamente semplificato, rientra largamente nel corpus della dottrina cattolica.
Ma se così stanno le cose: o Dio non è onnipresente, altrimenti parteciperebbe anche all'essenza del Diavolo, dato che quest'ultimo non sarebbe altro che un sottoinsieme di Dio;
o Dio non è onnipotente, visto che il Diavolo può esistere soltanto senza essere sconfitto, un compito adatto ad un essere infinitamente buono e onnipotente;
o Dio non è infinitamente buono, in quanto il male ed il diavolo possono (continuare ad) esistere solo se un dio onnipotente lo vuole e non si preoccupa di contrastarli.
Epicuro, invece, combinò l'onnipotenza, l'infinita bontà ed il dato empirico dell'esistenza del male, per formulare un argomento contro l'esistenza di Dio che procede al seguente modo:
O Dio vuole abolire il male, e non può; oppure può, ma non vuole; oppure non può e non vuole. Se vuole, ma non può, è impotente. Se può, ma non vuole, è malvagio. Ma se Dio può e vuole abolire il male, allora perché c'è tanto male nel mondo?
Veniamo ora al discorso riguardante l'unicità.
Se gli attributi che qualificano l'ente “più grande” non fossero tutti reciprocamente compatibili tra loro, in quanto logicamente contraddittori, come si potrebbe sostenere anche solo la possibilità dell'esistenza di una simile divinità?
È anche chiaro che se si potessero costruire non uno ma più raggruppamenti distinti di attributi, combinando non tutte le qualità positive divine, ma soltanto quelle che risultano reciprocamente compatibili, l'unicità dell'Essere decadrebbe necessariamente.
Ma a quel punto: secondo quale criterio si eleggerebbe “il più grande” tra “i grandi”?
Per tutti questi motivi la prova Ontologica non può essere considerato valida e, aggiungo, esistono anche degli argomenti molto forti per sostenere che nessun altra prova a priori di questo genere potrà mai dimostrare l'esistenza di Dio.
Quando si adotta un procedimento analitico non si riesce a provare null'altro che non sia già implicitamente incluso negli assiomi di partenza, sebbene solitamente le conclusioni che da essi derivano non siano così evidenti.
Quando si adotta un procedimento analitico non si riesce a provare null'altro che non sia già implicitamente incluso negli assiomi di partenza, sebbene solitamente le conclusioni che da essi derivano non siano così evidenti.
Quindi, se si tenta di dimostrare l'esistenza di Dio per via deduttiva partendo da certi assunti, è chiaro che, in qualche modo, si debba già postularla nelle premesse del ragionamento.
Ma a quel punto ciò che la (presunta) dimostrazione di esistenza si limita a fare è soltanto di estrinsecare ciò che era già stato velatamente assunto in partenza, mostrandolo con una nuova veste più chiara ed esplicita.
Con la logica non si può dimostrare l'esistenza sostanziale, ma si può cercare di provare la possibilità dell'esistenza fisica. Per farlo è sufficiente formulare una definizione di Dio e mostrare che non sia contraddittoria da un punto di vista logico-razionale.
Se ciò accade, allora quel Dio può esistere, anche se non è detto che esista realmente, perché per accertare l'esistenza sostanziale di un ente immaginario, l'unica via praticabile consiste nel fornire delle prove effettive e concrete di tipo fattuale.
È esattamente uguale a ciò che accade in fisica teorica.
I fisici definisco degli enti matematici e si sincerano di dimostrare che non siano contraddittori all'interno della loro teoria; a quel punto, e solo a quel punto, si sentono autorizzati di congetturarne l'esistenza sostanziale, un'esistenza che deve necessariamente essere corroborata ricorrendo all'esperienza sensibile, diretta o indiretta che sia.
Per poter sostenere con certezza che un ente immaginario logicamente non contraddittorio esista anche in modo sostanziale, bisogna esibire necessariamente evidenze empiriche oggettive.
In assenza di tali prove, l'esistenza sostanziale non può essere appurata a priori ma solo congetturata, ciò vale tanto per le particelle elementari del Modello Standard, o per le stringhe della Teoria delle Stringhe, quanto per qual si voglia concezione di Dio.
D'altro canto ritengo che la logica abbia lo straordinario potere di poter dimostrare la non esistenza di Dio o di qual si voglia altro ente/essere immaginario.
Per far ciò, infatti, è sufficiente precisare una definizione di Dio, supporre che quel dio in particolare esista e derivare logicamente una contraddizione.
Se ciò accade, avremmo dimostrato mediante una reductio ad absurdum l'inesistenza sostanziale di quella divinità, che non può esistere in quanto entità logicamente contraddittoria.
Con la logica razionale non possiamo stabilire se Dio esiste in modo sostanziale, perché abbiamo bisogno dell'esperienza, ma possiamo escludere a priori l'esistenza di enti che risultino logicamente contraddittori.
In altri termini, la ragione sancisce ciò che può esistere, ed un ente intrinsecamente contraddittorio non ha ragion d'essere nel mondo.
Mirco Mariucci
Hai ragione Mariucci, Dio sta a zero ma...
RispondiEliminail grande spirito del mondo è dappertutto
perchè tutto possiede, uomini compresi.
Ora, tu che sei un anticonformista non vorrai
mica fare la spesa nel grande centro commerciale
dove la fanno tutti, vero?
Allora scegli il negozietto vuoto di periferia.
Difendi colui che non ha nessuna possibilità di esistere.
Scegli lo Zero !!!
( La pietra che i costruttori hanno scartato
è diventata testata d'angolo )