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Diogene cerca l'uomo, di Johann Tischbein |
Carattere della
corrente cinica
Tra le scuole socratiche
minori, la più curiosa e influente fu, senza dubbio, quella dei
cinici, di cui Antistene d’Atene fu il fondatore e Diogene di
Sinope, suo allievo, divenne l’esponente più celebre e
folcloristico.
La spiegazione
dell’origine del termine “cinici”, da intendersi come “uomini
che vivono alla maniera dei cani”, è contesa tra due posizioni,
entrambe plausibili:
secondo la prima di esse,
Antistene impartiva i suoi insegnamenti in un ginnasio situato appena
fuori le mura di Atene, il Cinosarge: un nome composto, che deriva
dalle parole greche κυνός (genitivo di κύων, cane) e ἀργός
(splendente o, riferito ad un cane, veloce/agile); da qui la nascita
della denominazione “cinici”.
Stando alla seconda
versione, invece, l’appellativo di cinico fu dapprima attribuito a
Diogene, come soprannome, a causa della sua vita randagia
assimilabile a quella di un cane, e poi, per estensione, a tutti i
seguaci del pensiero di Antistene.
In ogni caso, il termine
cinici si affermò già nell’antichità, se non altro, per
simboleggiare e riassumere efficacemente alcune delle peculiarità
dei membri di quella corrente filosofica che proponeva un’ideale di
vita conforme alla semplicità e all’autonomia, da condurre secondo
natura, così come fanno gli animali, e che si esplicava
concretamente in un’esistenza vagabonda, sfacciata e indifferente
ai bisogni più comuni ed alle norme sociali, combinata con un
elevatissimo rigore morale ed un netto rifiuto delle passioni.
Secondo alcuni, più che
di una vera e propria scuola filosofica si dovrebbe parlare di uno
stile di vita; il cinismo, infatti, non era animato da interessi
teoretici, ma era votato alla concretezza ed alla praticità.
A mio modesto avviso, quest’ultima puntualizzazione non è del tutto corretta: sebbene i cinici non abbiano mai fissato un vero e proprio canone che definisse esplicitamente una dottrina, è innegabile che il loro stile di vita fosse implicitamente generato da una concezione filosofica.
Le fonti antiche parlano
della “svergognatezza” dei cinici, un atteggiamento che si
manifestava attraverso un’assoluta mancanza di pudore, sia dal
punto di vista dei costumi, che da quello verbale.
Ma la svergognatezza non
era fine a se stessa: era un metodo. Attraverso di essa i cinici
muovevano una pesante critica alla società e sottoponevano gli
interlocutori ad una dura scuola di sincerità morale.
Di più, si può sostenere
che con il loro stile di vita i cinici fossero alla ricerca della
libertà individuale e di un’autentica felicità.
Se si volesse delineare
una sorta di filosofia cinica, essa avrebbe i seguenti tratti
fondamentali:
1) critica, disprezzo,
rifiuto e disobbedienza nei confronti di ogni forma di società, con
le sue regole, i suoi usi e le sue convenzioni, considerati come,
volendo utilizzare un termine moderno mutuato dalla sociologia, delle
sovrastrutture arbitrarie, superflue e dannose, che allontanano
l’essere umano da quella che invece dovrebbe essere la sua vera e
autentica condizione esistenziale: lo stato di natura.
2) la parresìa, ovvero la
libertà di dire tutto ciò che si ritiene sia vero, con franchezza e
senza filtri, adottata come stile di vita ed elevata a principio
filosofico. Sono infatti celeberrime l’impudenza, la sfrontatezza e
la mancanza di vergogna impiegate dai cinici per denigrare e
disprezzare tutto ciò che la quasi totalità dei membri della
società avrebbe considerato legittimo, normale e scontato.
3) ricerca della felicità
(eudaimonìa), intesa come bene supremo, nonché fine naturale della
vita umana, da non confondere con l’edonismo, secondo cui il fine
dell'azione umana è il conseguimento di un piacere immediato
declinato, ad esempio, come “godimento” (dalla scuola cirenaica
di Aristippo) o come “assenza di dolore” (secondo la concezione
epicurea).
Per i cinici, infatti,
l’eudaimonìa scaturiva dalla virtù, ovvero, secondo la loro
accezione di questo termine, dal vivere in accordo ed armonia con la
natura.
4) esaltazione
dell’autarchia spirituale, ovvero, più precisamente,
dell’autarcheia (αὐτάρκεια, composto da αὐτός
"stesso" e ἀρκέω "bastare"), da intendersi
come autosufficienza e completo controllo di sé; una condizione che
non può essere conseguita senza maturare una certa indifferenza
rispetto alle cose esterne.
Da qui la rinuncia a
desideri e beni effimeri, tipica dei cinici, e a tutto ciò che li
avrebbe allontanati dallo stato di apatia (apátheia), ovvero
dall’impassibilità scaturita dall’assenza di passione (páthos).
Per essi quanto più un individuo sarebbe riuscito ad allontanare da
sé bisogni e desideri, tanto più avrebbe conquistato libertà e
serenità spirituale.
5) un approccio ascetico,
da intendersi nel senso originario del termine, ovvero come un
continuo esercizio spirituale, a cui dedicarsi con costanza e
disciplina, ritenuto indispensabile per raggiungere il sommo bene.
Lo stato di eudaimonìa,
infatti, non può essere conseguito senza maturare la lucidità
mentale necessaria per liberarsi dall'ignoranza e dalla follia
causati dai costrutti sociali,
responsabili, a loro volta, dell’insorgenza di emozioni negative,
desideri contro natura e vizi.
Tutto ciò permetteva ai
cinici di individuare, contrastare e liberarsi dalle grandi illusioni
di cui l’umanità era vittima, come, ad esempio, la ricerca della
ricchezza materiale, del potere, della fama, del piacere, del
possesso di beni superflui... e di tutte le cose che, a loro avviso,
non avrebbero avuto nessun valore allo stato di natura.
Altri tratti che possono
essere ritrovati nei pensatori cinici sono: l’assoluto rigore
morale, in relazione ai propri ideali; l’esaltazione della
costanza, della fatica e dello sforzo, legati all’acquisizione
della virtù mediante l’ascesi; l’adozione, e a volte
l’ostentazione, di costumi poveri e animaleschi; la negazione della
religione tradizionale; il rifiuto degli istituti sociali, quali la
famiglia e la patria, con tendenza al cosmopolitismo.
Storicamente, la corrente
cinica godette di due fasi di grande notorietà: la prima nel IV
secolo a.C., per merito di Antistene e Diogene di Sinope, la seconda
intorno al I secolo d.C., in concomitanza alla corruzione del potere
imperiale di Roma, riuscendo a mantenere nel tempo una propria
fisionomia, fino al V secolo dopo Cristo, quando declinò
definitivamente, sfociando in correnti mistiche.
Nonostante disprezzassero
la cultura, i cinici diedero vita al genere letterario della
diatriba, lasciando ai posteri una ricca tradizione di opere in cui
affrontarono argomenti di ordine etico-morale con la loro celebre
asprezza polemico-satirica.
Nel periodo ellenistico
l’influenza dei cinici fu notevole; basti sapere che lo stoicismo,
una delle maggiori scuole filosofiche dell’epoca, risentì della
morale cinica.
La contaminazione del
cristianesimo delle origini con la filosofia dei cinici, è cosa
nota; gli scrittori cristiani ne elogiavano la scelta di vivere in
povertà e molte delle loro pratiche ascetiche vennero adottate anche
dai primi seguaci di Cristo. Così come accadde ai cristiani, anche i
cinici furono martirizzati per essersi opposti alle autorità.
La forte interazione tra
la pratica cinica e l’ascesi cristiana, le similitudini tra gli
insegnamenti e lo stile di vita dei cinici e quelli di Cristo, hanno
indotto alcuni studiosi ad avanzare l’ipotesi che il Gesù storico
fosse un saggio cinico proveniente dalla tradizione
ellenistico-giudaica (si vedano, ad esempio, gli studi di Burton Mack
e John Dominic Crossan).
Nei secoli successivi,
alcuni dei temi, degli atteggiamenti, delle forme comportamentali,
tipicamente ciniche, riverberarono nei movimenti spirituali del
Medioevo, anche se ormai il nucleo centrale della filosofia dei
cinici era stato abbandonato.
Col passare del tempo
anche l’accezione stessa del termine “cinico” mutò, fino ad
assumere l’odierno significato, assai distante da quello
originario.
Nell’epoca moderna, in
particolar modo a causa della diffusione della concezione
dell’umanità dovuta a personaggi del calibro di Niccolò
Machiavelli e Thomas Hobbes, il termine “cinico” prese a
significare un atteggiamento di sfiducia nelle motivazioni altrui,
giustificato dal preconcetto (scientificamente infondato) che gli
esseri umani siano egoisti per natura.
Il tutto, condito con un
po’ di misantropia e nichilismo, mescolati alla giusta dose di
sarcasmo e ironia, che a volte sfociano nell’umorismo nero o
macabro.
Successivamente,
l’aggettivo “cinico” cominciò ad essere associato ad individui
con un carattere negativo e calcolatore, in grado di agire con
freddezza e contro ogni morale, allontanandosi così ancor più dall'antico significato del termine.
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Antistene di Atene (Atene, 444 a.C. – Atene, 365 a.C.) |
Antistene di Atene
Tra i
cosiddetti socratici minori, Antistene di Atene (Atene,
444 a.C. – Atene, 365 a.C.) fu la figura di maggior rilievo.
Basti sapere che, nonostante fosse di umili origini e condusse
un’intera esistenza in povertà, riuscì lo stesso a fondare una
scuola, quella dei cinici, che influenzò sia il cristianesimo che lo
stoicismo.
Venuto
al mondo dall’unione tra un ateniese e una schiava tracia, dapprima
frequentò Gorgia, uno tra i più illustri sofisti dell’epoca, e
poi, in tarda età, venne attratto dall’irrefrenabile magnetismo di
Socrate, divenendo un suo fedele discepolo.
Antistene
era legato al suo maestro come nessun altro, tanto da percorrere 40
stadi al giorno a piedi, pur di poterlo ascoltare: era questa la
distanza tra il Pireo (il paese dove Antistene abitava) e la piazza
d’Atene. Egli ricevette direttamente da Socrate gli insegnamenti
più profondi ed era presente il giorno della sua morte.
A chi
lo criticava, chiamandolo semibarbaro, perché non era figlio di
persone libere, rispondeva: «Se è per questo, non sono neppure
figlio di due lottatori professionisti; eppure io sono un bravo
lottatore». E agli Ateniesi, che si davano delle arie in quanto
erano autoctoni dell’Attica, diceva, con tono sprezzante, che essi
non erano più purosangue delle chiocciole e delle cavallette nate
nel medesimo luogo.
Sul
suo conto si dice anche che fosse povero per scelta e ostentasse con
fierezza la propria condizione. Fu il primo a raddoppiare il
mantello, così da poterlo utilizzare sia come indumento che come
giaciglio per le notti più fredde. E quando un suo allievo gli
chiese una tunica, gli rispose di fare altrettanto.
Un
giorno, Socrate, osservando la parte lacera dell’atipico vestiario
di Antistene, gli disse: «Vedo, attraverso la tua mantellina, che
ci tieni ad essere considerato un filosofo!» volendo
sottolineare, con ironia, la sua grande ambizione.
Ad
onor del vero, però, fin quando Socrate era in vita, Antistene non
mostrò alcun segno di eterodossia e si limitò a mettere in pratica,
con dedizione, gli insegnamenti socratici, esortando gli altri a fare
altrettanto, proprio come ci si sarebbe aspettati da un buon seguace.
Ma ad
un certo punto, l’atteggiamento di Antistene mutò profondamente:
Atene era stata sconfitta, il suo beneamato maestro era stato
condannato e le speculazioni sul pensiero di Socrate cominciavano a
proliferare, tanto quanto il suo disgusto per i cavilli filosofici ed
ogni forma di governo.
Alla
morte di Socrate, quasi tutti i suoi discepoli si affrettarono ad
abbandonare la città, per paura di possibili persecuzioni;
Antistene, invece, decise di restare ad Atene, sfidando con coraggio
ogni sorta di pericolo.
Fu
così che, nonostante la sua tarda età, egli mostrò per primo la
via del cinismo, tenendo di persona delle lezioni pubbliche nel
ginnasio di Cinosarge, un luogo situato appena fuori le mura di Atene
in cui potevano avere accesso anche i meteci, ovvero gli stranieri
che, nella Grecia antica, occupavano una posizione sociale intermedia
tra i cittadini liberi e gli schiavi.
In
una certa misura, l’insegnamento di Antistene risentì di quello
dei suoi maestri: da Gorgia prese il relativismo etico, tipico dei
sofisti, che avevano constatato la grande variabilità dei principi
morali adottati dall’umanità al variare dei luoghi e delle epoche;
da Socrate apprese le attitudini pratico-morali, come la forza
d’animo, l’autodominio, la capacità di sopportare la fatica e di
bastare a se stessi.
Ma
Antistene non si limitò a sposare queste posizioni: egli le portò
alle estreme conseguenze, decise di metterle in pratica e le propose
agli altri come uno stile di vita.
Ed
ecco che, da un lato, la polemica sofistica, in relazione alla
convenzionalità delle leggi, venne trasformata da Antistene in una
critica radicale alla società e, dall’altro, il pensiero socratico
venne epurato da quegli aspetti teorici e metafisici che, a suo
parere, erano soltanto dei vani giochi dialettici.
Egli
sosteneva che la filosofia raffinata fosse priva di valore, in quanto
ciò che si poteva, e doveva, sapere, avrebbe dovuto risultare
comprensibile anche all’uomo comune. Per questo Antistene predicava
all’aperto, adottando uno stile comprensibile a tutti.
Non
c’era bisogno di speculazioni filosofiche, bisognava agire in modo immediato e concreto sulla realtà, per porre
rimedio ai mali della società causati dalla corruzione e
dall’artificiosità dei costumi e della morale.
I
suoi insegnamenti non erano destinati ad una élite, ma all’intera
umanità, inclusi i malvagi. E poiché gli veniva rinfacciato di
farsela con quest’ultima tipologia di persone, disse: «Anche i
medici stanno con gli ammalati, ma non per questo hanno la febbre».
Così
come farebbe un buon anarchico, Antistene sosteneva che non sarebbero
dovuti esistere né governo, né proprietà privata, né matrimoni,
né religioni e che la virtù della donna è identica a quella dell’uomo.
Si
consideri che la critica dei cinici alla “civiltà” si spinse
fino al punto da condannare la schiavitù, e tutto ciò in un’epoca
in cui gli esseri umani ridotti in catene erano comunemente
considerati come oggetti animati.
La
ricetta per la felicità, dunque, era tanto semplice da concepire,
quanto ardua da mettere in pratica; essa si fondava su di un binomio:
lotta alla società civile e ritorno allo stato di natura.
Secondo
Antistene l’unico fine dell’essere umano è la felicità, ed essa
consiste nel vivere secondo virtù, disponendo il proprio animo al
bene.
La
virtù è sufficiente a sé stessa, è l’unico vero bene; essa va
praticata con uno strenuo impegno individuale ed il suo
raggiungimento passa per un laborioso esercizio interiore, che allena
lo spirito così come la ginnastica fa con il corpo.
Per
la sua felicità, l’essere umano non ha bisogno della società
civile; del resto, né il regime democratico, né quello
aristocratico, ed ancor meno la tirannide, erano stati in grado di
dare origine ad un buon governo.
Egli
sosteneva che il sapiente non si regola secondo le leggi stabilite
dalle comunità politiche, ma secondo la legge della virtù.
Sicché
l’individuo deve liberarsi dai vincoli sociali e dai falsi bisogni
che lo rendono schiavo; tutto ciò che eccede dal necessario è da
considerarsi superfluo e dannoso. Il sapiente è autosufficiente:
egli basta a se stesso.
Ciò
che viene comunemente chiamato bene, in realtà, è un male, perché
distoglie ed allontana dalla virtù. Pertanto, oltre che dal possesso
delle cose materiali, ci si deve liberare anche dall’influsso del
piacere e delle passioni: il vero sapiente è in grado di esercitare
un completo dominio su di sé.
Al
lusso, ai bisogni artificiosi, alla mollezza e allo snervamento
dell'uomo civile, bisogna opporre la parsimonia, l'indipendenza, la
sobrietà e la forza d’animo degli animali.
Per
Antistene il modello da prendere come riferimento è la natura, non
il mondo delle istituzioni umane che, con le sue convezioni
arbitrarie, non fa altro che accrescere bisogni e dipendenze.
Quando
gli fu chiesto quale insegnamento, tra tutti, fosse quello
maggiormente necessario, egli rispose: «Togliersi di torno il
rifiuto di imparare».
Ad un
adolescente che assumeva pose statuarie, domandò: «Se il bronzo
prendesse voce, di cosa credi che andrebbe fiero?». E poiché
quello rispose: «Della sua bellezza», Antistene replicò:
«Dunque non ti vergogni di gioire delle stesse cose di cui
gioisce una cosa inanimata?».
Una
volta un conoscente si lamentava con lui per aver perduto i propri appunti, e Antistene gli disse: «Bisognava trascriverli
nell’animo e non sulle carte».
Egli
riteneva anche che la mancanza di gloria e di fama fosse un bene,
argomentando che sarebbe stato meglio imbattersi nei corvi che negli
adulatori, giacché i primi mangiano i cadaveri mentre i secondi
mangiano i vivi.
Ad
una persona che gli diceva: «Molti ti lodano, o Antistene»,
rispose: «Cos’ho fatto, dunque, di male?».
Sosteneva
anche che non si deve provare invidia nei confronti degli altri,
perché come il ferro è divorato dalla ruggine, così gli invidiosi
sono divorati dal loro stesso carattere.
Erano
questi, in estrema sintesi, i suoi insegnamenti.
Pare
che Antistene scrisse molte opere, anche se di esse ci è giunto ben
poco. Il filosofo Timone lo rimproverò per l’abbondanza dei suoi
scritti, definendolo come un «ciarlone che produce di tutto».
Diogene
Laerzio testimonia che le compilazioni di Antistene colmavano dieci
tomi. Tra di esse, vi erano un libro intitolato Sulla natura degli
animali e varie opere che
riguardavano miti e personaggi omerici.
È probabile che attraverso i suoi scritti egli cercasse dei modelli
da imitare nella vita umana ed un appoggio culturale per argomentare
contro la società ed in favore del suo stile di vita frugale.
Non a caso la figura che Antistene esaltò maggiormente fu quella di
Eracle, eroe e semidio della cultura greca corrispondente alla figura
di Ercole nella mitologia romana.
Egli, con la sua forza, la sua tenacia e le sue fatiche,
rappresentava per i cinici il simbolo di quelle doti essenziali per
ottenere l’indipendenza e la libertà, senza le quali sarebbe stato
impossibile esercitare la virtù e quindi raggiungere la felicità.
Eracle simboleggiava il saggio cinico che, con la propria forza
d’animo, vince il piacere ed il dolore.
In un dialogo politico Antistene condannò tutti gli uomini politici
d'Atene che godevano della maggior reputazione; in un altro criticò
il sistema d'educazione dei Persiani, concludendo che le vittorie
ateniesi, riportate contro un nemico allevato senza virtù
civili e militari, fossero prive di valore. E dopo aver sminuito le
gesta reputate gloriose dai patrioti d’Atene, criticò duramente
ogni forma di governo.
Si narra che un giorno Antistene consigliò agli Ateniesi di
decretare attraverso il voto che anche gli asini sono dei cavalli;
poiché gli interlocutori ritenevano questa proposta irragionevole,
egli replicò: «Eppure presso di voi dei comandanti supremi
spuntano fuori senza possedere alcuna competenza militare, giacché
basta la vostra alzata di mano».
Lo
scherno ed il sarcasmo di Antistene non risparmiarono neppure le
superstizioni ed i culti religiosi dell’epoca: si narra che una
volta, mentre veniva iniziato ai misteri orfici, un sacerdote
sostenne che i seguaci di quel culto avrebbero goduto di molti beni
nell’Ade. Al che Antistene disse: «Perché, dunque, tu
non schiatti?».
E ancora, agli adepti del politeismo greco faceva notare che secondo
la legge degli uomini gli dei sono molti, ma secondo la natura c’è
un solo dio, che non assomiglia ad alcuna cosa visibile e non può
essere rappresentato con le immagini; un’affermazione da cui
traspare una visione panteistica, in cui la divinità permea ogni
cosa e viene ad identificarsi con la natura, l’universo o, se
preferite, il tutto.
Unico
tra i cinici, Antistene si interessò anche di logica, ma il suo
contributo non fu poi così grande e, come già anticipato, era
sostanzialmente finalizzato a contrastare l’approccio teoretico dei
seguaci di Socrate, riconducendo il pensiero del suo maestro ad una
sorta di empirismo concreto.
Inizialmente
Antistene fece proprio il metodo socratico delle definizioni dei
concetti, tanto che gli va riconosciuto il primato di aver chiarito
la nozione di definizione, caratterizzandola come l’espressione
dell’essenza di una cosa.
A tal
proposito egli diceva: «La definizione è ciò che esprime ciò
che è, o era», e sarebbe assurdo discorrere di una cosa senza
dichiarare ciò che essa era o ciò che essa è.
Ma
ben presto il fedele discepolo finì per discostarsi dalle posizioni
del maestro, concordando con i megarici che l’unica predicazione
ammissibile sia quella identica, come quando, ad esempio, si dice
che “l’uomo è uomo”. Di conseguenza, ogni giudizio che non sia
la pura e semplice affermazione di una identità è da considerarsi
impossibile.
In
altri termini, per Antistene, non si può far altro che dire di una
cosa ciò che è, ripetendo il suo nome, perché se si aggiungesse un
altro nome a quello che già la determina, quella cosa finirebbe per
essere altro rispetto a ciò che è.
Ne
consegue che è possibile definire soltanto le cose composte, ma non
gli elementi semplici; questi ultimi, infatti, vengono conosciuti
mediante la percezione diretta e possono essere soltanto nominati,
ovvero si può associare ad essi un nome, ma non si può
caratterizzarli in altro modo.
Le
cose composte, invece, essendo formate da vari elementi semplici,
possono essere definite combinando fra loro i nomi dei loro
componenti.
Al
netto di ciò, pretendere di chiarire concetti con altri concetti,
per Antistene, è un vano esercizio di parola, che non tocca
l’essenza delle cose; si potranno effettuare delle comparazioni tra
le cose, questo è senz’altro vero, ma non si riuscirà a dire di
una cosa quale essa sia in se stessa.
Ma se
una cosa non può essere altro rispetto a ciò che è indicato dal
suo nome, allora la realtà è assolutamente individuale e materiale;
le idee generali, i cosiddetti universali, sono soltanto astrazioni
mentali, pure nozioni, prive d’una vera esistenza. Ne consegue uno
schietto nominalismo.
Dura
è la critica mossa da Antistene alla dottrina platonica delle idee:
«Vedo il cavallo, ma non vedo la cavallinità», «vedo
l'uomo, ma non l'umanità».
E
altrettanto dura fu la replica di Platone: «Perché non hai
l’occhio per vederle». E ancora, con un certo disprezzo,
Platone annovera Antistene tra «i vecchi che hanno incominciato
tardi ad imparare», testimoniando come egli ritenesse
impossibile affermare, ad esempio, che “l’uomo è buono”, in
quanto ciò equivarrebbe a sostenere, allo stesso tempo, che l’uomo
è uno (uomo) e molti (uomo e buono), ottenendo una contraddizione.
Che
tra i due filosofi non scorresse buon sangue, fin dai tempi in cui
erano condiscepoli di Socrate, lo si comprende da alcuni aneddoti.
Non
di rado Antistene scherniva Platone perché si dava un sacco di arie.
Un giorno, durante una processione, Platone non smetteva di lodare un
cavallo che impennava e nitriva vistosamente. E Antistene gli disse:
«Mi sembra che tu pure potresti essere un cavallo che incede
bizzoso e fa lo splendido».
Un’altra
volta, invece, quando Platone era ammalato, Antistene ebbe il garbo
di fargli visita; ma vedendo un bacile nel quale Platone aveva
vomitato, gli disse: «Qua dentro vedo la tua bile, però la tua
vanità non la vedo».
In
un’altra occasione, dopo aver sentito dire che Platone sparlava di
lui, Antistene affermò: «È da re agire bene e sentir parlare
male di sé».
A
prescindere da quale fosse la vera causa di questa rivalità, resta
il fatto che per il primo dei cinici la possibilità di assegnare
molti nomi a un’unica cosa era da escludersi: attribuire ad un
soggetto un predicato diverso da se stesso, ovvero associare ad una
cosa più nomi, avrebbe equivalso a considerare ciò che è uno come
uguale a molti, il che, a suo avviso, sarebbe stato assurdo.
Ma
così facendo il nominalismo di Antistene negava anche la scienza.
Infatti, se per ciascuna cosa si può dire soltanto che essa è se
stessa, allora non si può neanche riuscire a costruire un discorso
sulle cose. E oltre ad impedire la costruzione delle proposizioni, la
dottrina di Antistene non consentiva neanche di ottenere una
contraddizione e di affermare il falso!
Fu
così che Antistene si guadagnò anche il disprezzo di Aristotele,
che prima lo incluse tra coloro «che non credono ci sia altro se
non ciò che si può stringere a piene mani», ovvero tra i
materialisti più radicali, e dopo provvedette a precisare le
criticità che abbiamo appena accennato, confermando così la
testimonianza di Platone con le seguenti parole: «Antistene
professava la stolta opinione che di nessuna cosa possa dirsi altro
che il suo nome proprio e che perciò non può dirsi che un nome solo
di ogni singola cosa». Ma se ciò fosse vero, nota Aristotele,
sarebbe impossibile sia contraddire che dire il falso.
In
tal caso, infatti, o si parlerebbe di una cosa, non potendo far altro
che servirsi del suo stesso nome proprio, e quindi non si
affermerebbe il falso e non vi sarebbe contraddizione, o si
parlerebbe di due cose distinte, riferendosi a ciascuna di esse con i
rispettivi nomi propri, senza poter far altro, e neanche in tal caso
si starebbe affermando il falso e alcuna contraddizione sarebbe
possibile.
Per
Antistene, quindi, non si doveva abbandonare soltanto il metodo
socratico delle definizioni, ma anche ogni sorta d’impresa
scientifica che non fosse concreta.
La
via maestra da seguire era quella etica. E tutto ciò che non aveva
effetti pratici era da considerarsi come una perdita di tempo, una
sofisticheria, se non una delle tante illusioni di cui l’umanità
era vittima.
Per
superare questo genere di posizioni, Platone dovette dar fondo alla
sua grande intelligenza, dispiegando un poderoso armamentario
teoretico. Questo fatto ci aiuta a comprendere la portata della
critica mossa dal primo dei cinici.
Ben
donde si è detto in relazione al pensiero di Antistene che egli finì
per radicalizzare la visione socratica. Ciò non avvenne soltanto per
le posizioni riguardanti la scienza, assai distanti da quelle del suo
maestro, che individuava la via della virtù nella ricerca
finalizzata alla scienza, ovvero all’ottenimento della conoscenza.
Anche
Socrate viveva in modo frugale, ma non ostentava di certo la povertà.
L’autosufficienza socratica, cioè il non dipendere, per quanto
possibile, dalle cose e dagli altri, fu esaltata da Antistene a tal
punto che l’autarchia divenne un obiettivo essenziale. La stessa
cosa accadde con l’autodominio.
Per
Socrate, sebbene ci si fosse dovuti esercitare per sviluppare la
capacità di dominare se stessi, così da non subire la passione ed
il dolore, il piacere in sé non era da considerarsi né come un
bene, né come un male; ma con Antistene il piacere divenne un
qualcosa da rifuggire come il peggiore dei mali: «Preferirei
impazzire piuttosto che provare piacere»,
disse. E ancora: «Se potessi avere tra le mani Afrodite,
la saetterei».
Anche
l’esaltazione dello sforzo e della fatica, implicati dall’etica
dei cinici e riassunti nella figura di Eracle, segna un punto di
rottura con il sentire comune dell’epoca, in quanto attribuiva
dignità a ciò da cui i più rifuggivano.
Il
duro lavoro, effettuato con impegno e costanza, venne elevato a
valore dai cinici, in quanto richiesto dall’esercizio della virtù.
Come si può intuire, esso era indispensabile per: tenere alla larga
il piacere e dominare le pulsioni; distaccarsi dalle comodità e
ripudiare la ricchezza; opporsi alle leggi e alla falsa morale... e
così via.
Infine
possiamo sottolineare come Antistene estremizzò le polemiche dei
sofisti, muovendo una critica radicale alla società civile, che si
spinse fino al punto di rovesciare l’insegnamento socratico,
trasformandolo in senso antipolitico ed individualistico.
Nell’ultimo
periodo della sua vita, Antistene si ammalò e divenne infermo. Anche
a causa della vecchiaia, mal sopportava le sofferenze dovute alla sua
malattia, molto più di quanto ci si sarebbe aspettati dal fondatore
del cinismo.
Un
giorno Diogene, suo fedele seguace, andò a trovarlo, portando con sé
una piccola spada. E mentre Antistene si lamentava dicendo: «Chi
potrebbe sciogliermi da questi dolori?» gliela mostrò,
esclamando: «Questa!». Al che Antistene replicò
prontamente: «Dai dolori, dicevo, non dalla vita!».
Per
ironia della sorte, colui che aveva professato l’assoluta
autarchia, morì qualche tempo più tardi, nel giorno in cui Diogene
si era nuovamente recato dal suo maestro per domandargli: «Hai
forse bisogno di un amico?».
Lo storico Diogene Laerzio ha tramandato i seguenti versi dedicati
all’iniziatore del cinismo:
«In
vita eri un cane, o Antistene, nato per mordere il cuore con le
parole, non con i denti. Tu però moristi di consunzione, e dirà
forse qualcuno: “Cos’è questo mai? In ogni caso bisogna avere
una qualche guida per scendere all’Ade».
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Diogene e Alessandro, di Gaetano Gandolfi 1792 |
Diogene di Sinope
Diogene di Sinope, anche noto come il Cinico, o il Socrate pazzo (Sinope, 412 a.C. circa – Corinto, 10 giugno 323 a.C.), fu uno dei maggiori esponenti della corrente filosofica fondata da Antistene: il cinismo.
Egli incarnò a tal punto i valori di quel movimento, da diventarne una sorta di simbolo. Sulla sua figura si raccontavano aneddoti già quando egli era ancora in vita. Ed il passare dei secoli lo consacrò definitivamente alla leggenda.
Il suo omonimo, Diogene
Laerzio, nel celebre Vite dei filosofi, riporta un gran numero di
storielle riguardanti il Socrate pazzo, di cui è praticamente
impossibile appurare la fondatezza storica.
Esse però, oltre a
risultare divertenti, sono di grande aiuto per tentare di ricostruire
la vita, il carattere, il pensiero e gli insegnamenti, di colui che
fu il più cinico tra i cinici.
Sarà dunque questo il
nostro metodo di lavoro per descrivere la figura di Diogene; del
resto, ogni leggenda porta con sé qualche elemento di verità.
In pochi sanno che, prima
di diventare un cinico, rinunciando consapevolmente a tutto pur di
vivere secondo natura, il giovane Diogene conduceva una vita agiata
nella città di Sinope. Egli, infatti, era il figlio di un banchiere
di nome Icesia ed è noto che godesse dei servigi di uno, o forse
più, schiavi.
La sua esistenza subì una
brusca sterzata quando Diogene, suo padre, o forse entrambi, furono
beccati a contraffare le monete. Le versioni a tal proposito sono
molteplici e discordanti; resta il fatto che Icesia finì in galera
mentre Diogene si recò esule ad Atene, portando con sé un servo di
nome Mane.
Quest’ultimo,
approfittando della situazione, si diede alla fuga per riappropriarsi
della propria libertà. Diogene lo lasciò andare e a coloro che gli
consigliarono di riacciuffarlo rispose così: «Se Mane può
vivere senza Diogene, perché Diogene non può vivere senza Mane?».
Quando gli chiedevano di
dove fosse, diceva di essere «un cittadino del mondo» e ad
un tale che sosteneva che, in realtà, erano stati i cittadini di
Sinope ad averlo condannato all’esilio, Diogene rispose rovesciando
la situazione: «Sono io che ho condannato loro a rimanere a
Sinope!».
Un altro uomo, invece,
considerava il suo esilio come un’infamia riconducibile alle azioni
disoneste che Diogene aveva commesso nella sua terra natia, ma egli
gli rispose: «Oh infelice, ma è grazie all’esilio che ho
potuto pervenire alla vita da filosofo!».
Diceva questo a ragione,
giacché una volta giunto ad Atene, Diogene conobbe prima la miseria
e poi Antistene, ed entrambi divennero suoi maestri spirituali; non avendo di che vivere, dovette arrangiarsi mendicando per le vie della città.
L’argomento utilizzato
per persuadere i donatori suonava così: «Se hai già dato ad un
altro, dà anche a me. Se no, comincia da me». Ma il risultato
non doveva essere soddisfacente.
Un giorno, infatti, lo
videro mentre chiedeva l’elemosina ad una statua e interrogato sul
perché lo facesse rispose: «Mi esercito a fallire il mio
scopo!».
L’ispirazione per
superare quelle che, fino ad allora, gli erano sembrate delle
circostanze negative, gli venne di colpo, osservando un topo che
correva qua e là, liberamente, senza ricercare un giaciglio per
dormire, privo del timore del buio e della brama rispetto a ciò che
ai più sembrava desiderabile.
E così decise di fare
altrettanto, cambiando radicalmente il suo punto di vista, fino a
convincersi che quello fosse il modo corretto di vivere.
Si dice che Diogene fu uno dei primi, se non il primo, a raddoppiare il mantello, così da
poterlo impiegare sia come veste che come coperta; con sé aveva
anche una bisaccia, in cui riponeva le cibarie, ed un bastone. È
probabile che portasse barba e capelli lunghi ed incolti. Negli anni
a venire questo stile sarebbe diventato una sorta di divisa per i
cinici.
Curioso è l’aneddoto
riguardante la sua “abitazione”. Nel primo periodo in cui si era
trasferito ad Atene, Diogene bivaccava nelle stoà, ovvero nei
portici adibiti ad uso pubblico presenti nella città, ed indicando
l’edificio di Zeus, o quello del Pompeion, sosteneva di non aver
bisogno di una casa, perché gli Ateniesi gli avevano già fornito i
luoghi in cui dimorare.
Successivamente, però,
forse a causa del rigore invernale, incaricò un tale di procurargli
una casetta; ma questi, vista la condizione di ristrettezza economica
del suo committente, indugiava. E siccome la faccenda andava per le
lunghe, Diogene decise di stabilirsi in una botte, che divenne la sua
(mitica) dimora!
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Diogenes, di Jean Leon Gerome |
Non furono soltanto gli
animali ad indicargli la via da seguire, ma anche i bambini, che egli
riteneva puri e autentici, in quanto il loro animo non era ancora
stato corrotto dalla società.
Si noti la distanza tra
questa concezione e quella di Aristotele, che considerava i
bambini come uomini in potenza, ovvero come un qualcosa che avrebbe
dovuto crescere e maturare prima di acquisire valore.
Celebre è la storia che
narra di quando Diogene prese dalla sua bisaccia la ciotola che
utilizzava per bere e la scagliò via, perché aveva osservato un
bambino che beveva dal cavo della mano: «Un ragazzo mi ha vinto
in parsimonia!» esclamò.
In un’altra occasione,
osservò un secondo ragazzo che, avendo rotto la propria scodella di
terracotta, mise una porzione di lenticchie entro la conca ricavata
da un tozzo di pane. E così Diogene gettò via anche la catinella
che adoperava per mangiare.
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Diogene getta la scodella, di Nicolas Poussin 1648 |
Girovagando per la città,
venne in contatto con Antistene e decise di seguirlo con ardore per
diventare suo allievo. Quest’ultimo, però, lo respingeva con
veemenza, perché non desiderava alcun alunno intorno a sé.
Un giorno Antistene levò
il bastone contro Diogene, minacciandolo, ma quest’ultimo gli porse
la testa dicendo: «Batti pure, non troverai mai un legno così
duro con il quale tenermi in disparte, fino a che non ti apparirà il
caso di dirmi qualcosa, come a me pare che tu debba!».
Perseverando a frequentare
Antistene, alla fine Diogene la spuntò e ne divenne
un assiduo uditore.
La frequentazione con il
suo nuovo maestro completò la metamorfosi di Diogene da figlio di un
banchiere a re dei cinici.
Egli, infatti, non si
limitò ad ascoltare gli insegnamenti di Antistene, ma li portò alle
estreme conseguenze, incarnandoli e dandone diretta testimonianza per
mezzo della propria esistenza, applicandoli con un rigore ed una
coerenza impareggiabili.
Fu così che superò di
misura il suo maestro, prima nel livello di austerità e poi in
quanto a reputazione.
Il modo di vita che da lì
in avanti adottò scientemente era votato alla libertà, sia
nell’azione che nella parola, e non di rado sfociava
nell’irriverenza.
Diogene rivendicava la
libertà di esprimersi in modo franco, diretto e senza timori,
perfino innanzi ai potenti.
Per impartire i suoi
insegnamenti, egli non si avvaleva di argomentazioni lunghe o
sofisticate, bensì ricorreva ad un connubio di gesti fisici e
massime rapide ed incisive dette “apoftegmi”.
Usava qualunque luogo per
qualsiasi scopo, come mangiare, discutere e dormire, e non provava
alcuna vergogna nel fare le cose davanti agli altri, perfino quando
esse riguardavano la sfera sessuale.
Un giorno lo
rimproverarono perché stava mangiando nella piazza del mercato e
Diogene disse: «Anche nella piazza del mercato ebbi fame».
Altre volte giustificava
le sue abitudini utilizzando dei sillogismi come il seguente: «Se
non è fuori luogo fare colazione, non è fuori luogo farla nella
piazza del mercato; ma fare colazione non è fuori luogo, dunque non
è fuori luogo neppure farla nella piazza del mercato».
A chi lo sorprendeva
mentre si masturbava pubblicamente, diceva: «Magari fosse
possibile far cessare la fame semplicemente sfregandosi il ventre!».
Tra le abitudini più
insolite adottate da Diogene vi era quella di allenare il suo fisico
al fine di resistere alle intemperie; e così d’estate non perdeva
occasione per rotolarsi nella sabbia rovente, mentre d’inverno
abbracciava le statue imbiancate dalla neve.
Si narra che, durante un
pranzo, qualcuno gli gettò delle ossa, così come si fa con i cani.
Al che Diogene, appena prima di andarsene, orinò loro sopra, proprio
come avrebbe fatto un cane!
Non a caso gli ateniesi
cominciarono a soprannominarlo il Cinico (dal greco κυνικός
kunikòs, derivato da κυνός kunòs, genitivo di κύων kùon,
«cane»), volendo sottolineare come la sua condotta di vita
fosse assimilabile a quella d’un cane.
In un’altra occasione,
mentre stava facendo colazione nella piazza del mercato, coloro che
gli stavano intorno ripetevano beffardamente: «Cane! Cane!
Cane!...». Al che Diogene disse: «Cani siete voi, che mi
state intorno mentre faccio colazione». A
degli adolescenti che gli passarono accanto bisbigliando:
«Vediamo di non farci mordere...»
rispose: «Ragazzi, un cane non mangia bietole».
Secondo alcuni, fu lo
stesso Diogene a darsi quell’appellativo, facendo vanto
dell’epiteto che gli veniva rivolto con disprezzo; a proposito di
se stesso sosteneva d’esser uno di quei cani che la gente loda, ma
con cui nessuno ha il coraggio di uscire a caccia.
L’esser diventato un
filosofo non migliorò la sua condizione economica, ma ormai Diogene
si era convinto di non aver bisogno di nulla per esser felice. E così
prese a dar lezioni esistenziali a coloro che incontrava, rilasciando
ancor più i suoi freni inibitori.
Un giorno, mentre Diogene
stava parlando di cose serie, notò che nessuno gli si accostava. Al
che, per attirare l’attenzione degli astanti, cominciò a
cinguettare. E siccome in molti gli si avvicinarono, inveì contro di
loro, rimproverandoli di avere la premura di ascoltare delle
quisquilie e di prendersela comoda quando si tratta di cose
importanti.
Quando gli fu chiesto il
perché gli uomini diano l’elemosina più volentieri a chi vive
mendicando che non a chi fa vita filosofica, rispose: «Perché
stimano, in cuor loro, di poter diventare zoppi e ciechi, ma giammai
di fare vita filosofica».
A chi ribatteva dicendo di
non essere idoneo alla vita filosofica, diceva: «Perché dunque
vivi, se non t’importa di vivere bene?». E a coloro che
affermavano che il vivere fosse un male di per sé, rispondeva: «Male
non è il vivere, ma il vivere male».
Diogene non aveva alcun
timore di trattare gli altri con grande alterigia e di certo non gli
mancava il senso dell’umorismo.
Chiamava: “fiele” la
scuola di Euclide, paragonandola così al liquido dal sapore
amarissimo prodotto dal fegato; “perdita di tempo” le
conversazioni di Platone; “grandi meraviglie per gli stupidi” le
competizioni teatrali che venivano messe in scena durante le
celebrazioni pagane dedicate a Dioniso; “ministri della folla” i
demagoghi.
E non mancava di schernire
coloro che cercavano di ottenere la fama tramite l’eloquenza, così
come facevano i retori, definendoli “tre volte uomini”,
intendendo dire “tre volte meschini”.
Quest’ultima boutade può
essere compresa soltanto tenendo presente che l’opinione di Diogene
in relazione all’uomo comune, quello forgiato dalla società, era
tutt’altro che positiva; a suo avviso il vero uomo è soltanto
quello che, liberatosi da tutti i condizionamenti sociali, conduce un’esistenza piena ed autentica, conforme alla sua vera
essenza.
Una volta uscì, in pieno
giorno, con una lanterna accesa e si recò in mezzo alla folla. E
quando gli domandarono che cosa stesse facendo, disse: «Cerco
l'uomo!». Ma del genere di uomo ricercato da Diogene non v’era
traccia (da qui ha origine il celebre modo di dire “cercare con il
lanternino”).
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Diogene cerca l'uomo, di Johann Tischbein (1790 circa). |
I suoi incontri con i
ricchi, i potenti ed i filosofi dell’epoca hanno dato origine ad
una lunga serie di aneddoti.
Un giorno un uomo lo
introdusse in una casa sontuosa vietandogli esplicitamente di sputare
per terra. Al che, dopo essersi schiarito a fondo la gola, Diogene
gli sputò diritto in faccia, argomentando di non esser riuscito a
trovare un luogo più sudicio dove poterlo fare.
Non prendeva di mira
soltanto i ricchi, ma anche i politici. Un mattino Diogene incontrò
Demostene, un noto politico e oratore ateniese, che stava mangiando
in una taverna, e gli si avvicinò; ma questi, disgustato dal suo
aspetto, e forse anche dal suo olezzo, si ritraeva.
Al che Diogene decise di
sfruttare questo fatto per prendersi gioco di lui, minacciandolo di
contenerlo entro il locale ad libitum: «Quanto più ti ritrarrai,
tanto più a lungo resterai nella taverna!».
Che Diogene non provasse
alcuna ammirazione per Demostene può essere dedotto, senza
difficoltà, dall’indicazione che il Cinico diede ad un gruppo di
stranieri che gli chiedevano informazioni per incontrare il celebre
oratore. Diogene, infatti, distese al cielo il dito medio e disse ad
alta voce: «Ecco a voi il demagogo degli Ateniesi!».
Ma l’incontro più
famoso, e gravido di insegnamenti, è senza alcun dubbio quello che
Diogene ebbe con Alessandro Magno. La vicenda si svolse, grosso modo, così...
In un periodo in cui
questi due personaggi si trovavano nella medesima città, forse
Corinto, giacché molti politici, e altrettanti filosofi, si erano
recati dal grande Alessandro per omaggiarlo e congratularsi con lui,
quest’ultimo s’illuse che anche il mitico Diogene avrebbe fatto
altrettanto.
Ma siccome il Cinico non
lo degnava neanche della più minima attenzione e continuava a
disporre del suo tempo come se nulla fosse, Alessandro decise, in via
del tutto eccezionale, di recarsi personalmente a fargli visita.
Quando i due
s’incontrarono, Diogene era beatamente steso a terra a godere della
luce del Sole. Ma siccome venne accerchiato da un gran numero di
soldati e di persone, che scortavano Alessandro, sollevò un po’ lo
sguardo ed incrociò gli occhi del conquistatore macedone, che gli
disse: «Io sono Alessandro, il grande re». E il Cinico
rispose: «E io sono Diogene, il cane».
Incuriosito da
quell’appellativo, Alessandro chiese: «Dimmi, che cosa fai per
esser chiamato cane?». E Diogene replicò: «Scodinzolo
festosamente a chi mi dà qualcosa, abbaio contro chi non mi dà
niente, mordo i ribaldi».
«Non hai paura di
me?», disse Alessandro, «chi sei tu? Un bene o un male?»,
domandò Diogene. «Un bene», affermò il grande
conquistatore. E Diogene: «Chi, dunque, ha paura del bene?».
A quel punto, forse per
mettere alla prova la grande temperanza di Diogene, o forse perché
era rimasto sinceramente colpito ed intendeva aiutarlo concretamente,
Alessandro gli fece la seguente proposta: «Chiedimi pure quel che
vuoi, ed io farò in modo di procurartelo». Al che Diogene
rispose: «Non farmi ombra, ridammi la luce del mio Sole».
L’incontro si concluse
così, ma a questo punto le versioni diventano discordanti: secondo
alcuni, Alessandro, per prendersi gioco di Diogene, gli donò un
vassoio pieno di ossi; quest’ultimo lo accettò di buon grado, ma
gli mandò a dire la seguente frase: «Degno di un cane il cibo,
ma non degno di un re il regalo!».
Altri, invece, affermano
che Alessandro rimase così colpito dal modo con cui Diogene si era
rapportato con lui, che, al ritorno, mentre i suoi seguaci ridevano e
facevano battute sul Cinico, sostenne in modo serio che se non fosso
stato Alessandro, avrebbe voluto essere Diogene.
È quindi evidente che i
due epiloghi non possano essere compatibili, a meno che il vassoio di
ossi non venne inviato da Alessandro, bensì dai suoi seguaci.
Quest’aneddoto ebbe
grande fortuna e divenne uno dei più dibattuti della storia della
filosofia. Al suo interno è condensata l’essenza del cinismo.
![]() |
Alexander and Diogenes, di Edwin Landseer 1848 |
Anche le vicende relative
agli incontri con Platone sono degne di menzione. Forse ancor più di
quanto non avesse già fatto Antistene, anche Diogene non perdeva
occasione per schernirlo e rinnegare le sue tesi metafisiche.
Un giorno Platone enunciò
in pubblico questa definizione: «L’uomo è un animale bipede e
implume» e venne applaudito. Allora Diogene, per sconfessare in
modo plateale quanto era stato asserito, si affrettò a procurarsi un
gallo e, dopo averlo spennato, lo esibì nella sala dove il filosofo
stava tenendo la sua conferenza, esclamando: «Questo è l’uomo
di Platone!». Al che alla precedente definizione venne aggiunto:
«e dalle unghie larghe».
Così come il suo maestro,
anche Diogene contestava Platone quando quest’ultimo disquisiva
delle idee nominando concetti metafisici come la “tavolità” e la
“ciatità”, che avrebbero dovuto rappresentare la forma ideale
intellegibile comune ai tavoli e ai ciati (il ciato era un piccolo
vaso realizzato in metallo pregiato).
«Platone, io vedo il
tavolo e il ciato, ma non la tavolità e la ciatità», disse
Diogene. E Platone replicò: «Lo dici a ragione, giacché hai gli
occhi per discernere il tavolo e il ciato, ma non hai la mente con la
quale si vedono tavolità e ciatità».
In un’occasione, mentre
si trovavano ad un pranzo sontuoso, Diogene osservò che Platone
mangiava soltanto olive. Approfittando di ciò per coglierlo in
fallo, Diogene chiese a Platone: «Perché tu, il sapiente che ha
navigato fino alla Sicilia per godere di queste tavolate, ora non ne
approfitti?».
E Platone gli rispose:
«Per gli dei, Diogene, anche là io vissi per la maggior parte di
olive e cibi simili» (è noto infatti che Platone fosse
vegetariano). E Diogene: «Perché dunque bisognerebbe navigare
fino a Siracusa? O allora l’Attica non produceva olive?».
Un giorno, i due
s’incontrarono mentre Diogene stava gustando dei fichi secchi. «Se
vuoi, puoi averne in parte», disse Diogene. Ma siccome Platone
approfittava dell’offerta mangiando in abbondanza, senza porsi
alcun freno, Diogene lo redarguì dicendogli: «T’avevo detto
che avresti potuto averne in parte, non di divorarli tutti!».
Una volta, invece, fu
Diogene a chiedere a Platone un po’ di vino e dei fichi secchi; ma
quest’ultimo gli mandò un’anfora intera colma di vino. Al che
Diogene gli disse: «Se qualcuno ti chiede quanto fa due più due,
tu rispondi che fa venti? Sicché tu né dai ciò che ti si chiede,
né rispondi a ciò che ti si domanda».
Capitò anche che Diogene
s’intrufolò nell’abitazione di Platone calpestando e sporcando
di proposito i suoi tappeti pregiati, mentre quest’ultimo stava
ospitando degli amici: «Calpesto
la vanità di Platone!»,
gridò Diogene, e Platone rispose: «Lo
fai, o Diogene, con altrettanta vanità!».
Non
a caso quando un tale chiese a Platone: «Che cosa ti sembra
essere Diogene?» egli rispose: «Un Socrate impazzito!».
Le
provocazioni di Diogene non risparmiarono neppure Anassimene. Un
giorno, infatti, mentre quest’ultimo stava tenendo un discorso in
pubblico, Diogene irruppe sulla scena porgendogli un pesce salato.
Quell’insolito
gesto distolse l’attenzione degli ascoltatori e fece andare su
tutte le furie il filosofo di Mileto. Al che Diogene fece prontamente
notare agli astanti come un insignificante pesce secco da un obolo
fosse stato capace di dissolvere tutta la facondia del grande
Anassimene!
A quei pensatori megarici
che intendevano persuaderlo con argomentazioni teoriche, Diogene
opponeva, con grande acume ed ironia, evidenze empiriche contrarie
alle loro tesi.
A
chi pretendeva di dimostrare mediante un sillogismo che egli aveva le
corna, toccava la fronte con le proprie mani dicendo: «Io almeno
non le vedo!». E quando qualcuno affermava di poter provare per
via teorica che il movimento non esiste, egli ribatteva senza
proferire parola, levandosi in piedi ed iniziando a camminare qua e
là.
Un simile personaggio non
poteva che polarizzare l’opinione pubblica: per i suoi ammiratori
Diogene era un uomo devoto alla ragione, che si contraddistingueva
per un’onestà esemplare; i suoi detrattori, invece, lo
consideravano come un folle, fastidioso e maleducato.
Ma nonostante il suo
atteggiamento, Diogene era stimato da molti Ateniesi; basti sapere
che quando un giovane distrusse di proposito la sua botte,
quest’ultimo prese le botte, mentre a Diogene fu regalata un’altra
botte!
Ma
com’è possibile che un personaggio così insolente ed irriverente
riuscì a conquistare il rispetto degli antichi greci? Per rispondere
a questa domanda converrà dare uno sguardo ai suoi insegnamenti.
Da buon cinico quale era,
Diogene non si interessava affatto alla scienza; la musica, la
geometria e l’astronomia le reputava inessenziali. A
chi parlava di fenomeni celesti domandava: «Da
quanti giorni sei venuto giù dal cielo?».
Il sapere a cui egli
ambiva non era mediato da concetti; si trattava di un sapere
concreto, comportamentale, incentrato sull’esempio e l’azione.
Rigettava ogni forma di matrimonio, proponendo che uomini e donne adottassero una convivenza libera e consensuale. I figli si sarebbero dovuti allevare in comune.
Predicava l’abolizione
della proprietà privata, ragionando così: «Tutto è degli dei;
i sapienti sono amici degli dei; i beni degli amici sono comuni;
dunque tutto è dei sapienti».
Argomentava in favore
della tesi che la legge fosse una convenzione urbana; a suo avviso,
l’unica legge fondamentale a cui obbedire è quella che regge il
cosmo.
Chiunque avesse scelto di
vivere in armonia con la natura, sarebbe vissuto felicemente; coloro
che avessero intrapreso, contro natura, il sentiero della
dissennatezza, sarebbero stati infelici.
Diogene gridava spesso ai
quattro venti che gli dei hanno dato agli uomini una vita facile da
fare, ma che questa verità è stata celata alle masse.
Così decise di farsi
carico del compito di riportare alla vista degli uomini quei semplici
mezzi che servivano per vivere bene, dimostrando che ciò che occorre
per esser felici è alla portata di tutti, a condizione che ci si
renda conto di quali siano le effettive esigenze dettate dalla
natura.
Più si eliminano i
bisogni superflui e più si è liberi: era questo il suo
insegnamento. Ecco perché il saggio mira alla completa
autosufficienza rispetto ai falsi bisogni indotti dalla civiltà.
Ma per mettere in pratica
fino in fondo l’ideale cinico bisognava spingersi fino al disprezzo
del piacere, giacché la dipendenza rispetto ad esso avrebbe
rappresentato un’altra forma di schiavitù per l’individuo. Alla
passione bisognava contrapporre la ragione, alla legge la natura,
alla fortuna il coraggio.
Diogene sosteneva che gli
uomini virtuosi sono immagini degli dei e che la passione amorosa
sia l’occupazione dei disoccupati. Affermava anche che
l’educazione per i giovani è temperanza; per gli anziani è
consolazione; per i poveri è ricchezza; per i ricchi è compostezza.
E riteneva che
l’esercizio pratico, proprio della vita filosofica, sia di due
tipi: quello che riguarda l’anima e quello destinato al corpo. Se
ci si fosse dedicati ad essi con costanza, come si fa con
l’allenamento ginnico, si sarebbe riusciti a realizzare la virtù.
Egli era convinto che nel
corso della vita nessun successo si sarebbe potuto ottenere senza uno
strenuo esercizio, e che con la giusta dose di dedizione si sarebbe
potuto superare qualunque ostacolo.
Motivava le sue posizioni
fornendo degli esempi, osservando come, in qualunque ambito,
l’eccellenza venisse raggiunta soltanto in seguito ad una pratica
costante.
Ma per quanto riguarda il
conseguimento della virtù, non si sarebbe dovuto trascurare né
l’allenamento fisico né quello spirituale, perché l’uno è
indispensabile per l’altro ed essi si completano a vicenda, giacché
la vigoria dell’animo e la robustezza del corpo possono svilupparsi
in modo ottimale soltanto congiuntamente.
L’atleta che ha
raggiunto la sua forma fisica grazie all’allenamento, potrebbe
conseguire dei grandi risultati anche dal punto di vista della sua
anima, se solo fosse disposto ad esercitarsi in tal senso.
Purtroppo, osservava Diogene, gli uomini fanno a gara nello scavare sabbia e nel tirarsi
calci, ma nessuno compete per diventare una persona per bene.
Gli eruditi
approfondiscono con minuzia i mali di Odisseo, ma poi ignorano il
proprio male; i musicisti accordano le corde della lira, ma lasciano
che i loro stati d’animo siano dissonanti; i matematici volgono lo
sguardo al Sole e alla Luna, ma non si curano delle faccende che
hanno tra i piedi; i retori sostengono d’industriarsi per le cose
giuste, senza però metterne in atto nessuna, tant’è che, mentre
denigrano gli avari, amano il denaro alla follia.
Diogene condannava anche
l’incoerenza di chi, da un lato, loda le persone che agiscono in
modo disinteressato rispetto al denaro, ma, dall’altro, guarda con
gelosia i ricchi; ammirava invece quei servi integerrimi che, pur
assistendo alle ingorde abbuffate dei loro padroni, evitano di
sottrarre di nascosto le vivande.
Ad un uomo ricco, che si
faceva mettere le scarpe da un suo domestico, disse: «Non sarai
beato finché costui non ti soffierà anche il naso; ma ciò accadrà
quando avrai perso l’uso delle mani!».
Egli
si prendeva gioco anche della nobiltà di stirpe e della fama,
sostenendo che si trattasse di ornamenti esteriori del vizio.
Quando Diogene osservava
l’opera di piloti di navi, medici o filosofi, diceva che l’uomo è l’animale più dotato di comprendonio; ma non appena
s’imbatteva in individui boriosi a causa della fama o della
ricchezza, e nelle persone che davano ascolto a interpreti di sogni e
indovini, sosteneva che non ci fosse animale più folle dell’uomo.
A proposito di coloro che
si lasciano impressionare dai sogni, osservava come essi non
s’impensierissero delle azioni che effettuavano da svegli, mentre
s’impicciassero delle fantasticherie fatte dormendo.
Provava sdegno nel vedere
che si facessero sacrifici agli dei per invocare la salute, quando poi
si gozzovigliava a detrimento del proprio benessere, addirittura mentre si
compiva il rituale!
Ad un tale che si
sottoponeva ad aspersioni purificatorie, Diogene disse: «O
infelice, non sai che con le aspersioni purificatorie, come non
potresti liberarti degli errori di grammatica che fai, così neppure
puoi sbarazzarti delle azioni aberranti che fai nella vita?».
Una volta, invece,
incontrò una donna che stava supplicando gli dei in una posizione
indecente. E così, volendo liberarla dalla superstizione, le si
accostò domandando: «Perché non usi la cautela, o donna, se un
dio ti sta alle spalle, giacché tutti i luoghi sono pieni della sua
presenza, di evitare di mostrarti in una posizione indecente?».
Quando gli domandarono
quale fosse la belva con il peggior morso, rispose: «Di quelle
“selvatiche”, il morso del sicofante; di quelle “addomesticate”,
il morso dell’adulatore». Sosteneva anche che il discorso
fatto per ingraziarsi qualcuno è come una corda da impiccagione
spalmata di miele.
Per sostenere la follia
dell’organizzazione economica della civiltà ateniese, osservava
come le cose di gran valore venissero smerciate per nulla, e
viceversa; così, mentre una statua veniva venduta per tremila
dracme, un chenice di farina poteva essere acquistato con due monete
di rame [chissà che cosa avrebbe detto Diogene dell’arte
contemporanea!].
Quando gli chiesero che
cosa fosse meschino nella vita, rispose: «Un vecchio privo di
mezzi di sussistenza». Quando gli domandarono
quale fosse la cosa più bella tra gli uomini, rispose: «La
libertà di parola». E a chi gli diceva: «Molti
ti deridono», Diogene rispondeva: «Io, invece, non mi
derido».
Era questo il suo
pensiero, di cui egli dava diretta testimonianza con la propria
esistenza, affermando d’ispirarsi al semidio Eracle (Ercole), che
non anteponeva nulla alla libertà.
Trascorse così gran parte
della sua vita, godendosi il Sole e scuotendo le coscienze assopite
dalla società. A coloro che gli dicevano: «Sei vecchio ormai,
lascia stare!», rispondeva: «Che dici? Se io stessi
gareggiando nella corsa lunga allo stadio, quasi all’arrivo dovrei
lasciar perdere e non piuttosto intensificare lo sforzo?».
Praticò la filosofia
senza risedere stabilmente in un luogo e non accolse intorno a sé né
discepoli, né gruppi di uditori permanenti. Diogene proponeva se
stesso come modello di vita, senza alcuna pretesa di costruire altre
forme d’organizzazione politica superiori a quella esistente.
Egli piuttosto sognava
l’eliminazione di ogni forma di governo diversa dal governo della
ragione. Fosse nato oggi sarebbe stato senza alcun dubbio un
anarchico, o meglio un anarco-primitivista, giacché Diogene
intendeva realizzare integralmente l’ideale cinico del ritorno allo
stato di natura.
Nell’ultima parte della
sua vita, però, il fato tolse a Diogene la sua tanto amata libertà,
ed il vecchio Cinico venne, in parte, addomesticato.
Un giorno, mentre navigava
verso Egina, venne catturato dai pirati e fu condotto a Creta, per
essere messo in vendita. I commentatori ci dicono che Diogene
sopportò la schiavitù con la grande nobiltà d’animo che gli era
propria.
La storia della sua
vendita si svolse, più o meno, così: Diogene venne esposto al
mercato, insieme ad altri prigionieri, mentre un banditore tentava
d’invogliare i passanti all’acquisto di qualche schiavo a buon
prezzo.
Siccome gli proibirono di
sedersi, credendo di fargli un torto, Diogene disse: «Non fa
differenza, giacché pure i pesci si smerciano in qualunque posizione
giacciano». Osservando ciò che stava accadendo, diceva anche di
meravigliarsi del fatto che quando si tratta di comperare una
pentola, o un piatto, si è soliti saggiarne il tintinnio, mentre
invece per l’acquisto di un uomo era sufficiente la sola vista.
Dato che parlava tanto,
gli fu chiesto che cosa sapesse fare, ed egli rispose: «Comandare
uomini». Poco dopo, visto che la faccenda andava per le lunghe,
Diogene prese l’iniziativa e diede un consiglio al suo venditore:
«Banditore, grida e chiedi a questa gente se c’è qualcuno che
vuole comprarsi un padrone!».
Ma siccome la sua
direttiva non veniva rispettata, indicò un uomo che indossava un
abito ornato di color porpora, dicendo: «Vendimi a costui, perché
quest’uomo ha bisogno di un padrone!».
Si trattava di Xeniade di
Corinto, il quale, forse a causa dell’atipico atteggiamento di
Diogene, accettò il suo consiglio e decise di comprarlo.
Non appena giunse nella
sua nuova dimora, Diogene mise subito le cose in chiaro col suo nuovo
padrone: «Orsù, bada di fare ciò che ti ordino», gli
disse.
E quando Xeniade gli citò
il verso “rimontano i fiumi alle sorgenti”, per fargli
comprendere che era lo schiavo che avrebbe dovuto obbedire e non di
certo il padrone che lo aveva appena acquistato, Diogene osservò:
«Se tu avessi comprato un medico e fossi ammalato, non gli
ubbidiresti ma gli diresti “rimontano i fiumi alle sorgenti”?».
Sicché Xeniade dovette
obbedire a Diogene, nonostante ne fosse il padrone, così come ogni
uomo assennato, che non sapesse navigare e si trovasse in mare,
avrebbe dato ascolto ad un pilota di nave, anche se quest’ultimo
fosse stato uno schiavo.
Xeniade accettò
nuovamente il consiglio di Diogene, lo fece tutore dei suoi figli e
gli diede l’incarico di amministrare la sua casa. Il Cinico
ricambiò la fiducia del suo padrone dando il meglio di sé, al punto
che Xeniade andava in giro dicendo: «Un buon daimon è entrato in
casa mia».
E Diogene fu davvero un
ottimo tutore, che allevò i figli di Xeniade ispirandosi ai principi
dei cinici, avendo cura di allenare sia la loro anima che il loro
corpo, proteggendoli però dagli eccessi della sua filosofia.
Per prima cosa, rapò a
zero i ragazzi e gli fece comprendere l’inutilità degli ornamenti.
Li educò ad andare in giro scalzi, senza tunica, in modo silenzioso
e a badare a se stessi, quando si recavano per le vie della città. I
ragazzi dovevano consumare cibi frugali e bere soltanto acqua,
servendosi da sé.
Diogene insegnò loro a
cavalcare, tirare con l’arco, colpire con la fionda e lanciare il
giavellotto. E quando furono maturi a sufficienza per frequentare la
palestra, proibì all’istruttore di ginnastica di imporgli degli
allenamenti pesanti come quelli dei veri atleti.
Oltre
a ciò, esercitava la memoria dei ragazzi, insegnando loro versi di
poeti, brani di prosatori e opere composte dello stesso Diogene.
Ben presto anche i ragazzi
si affezionarono al loro nuovo tutore, al punto da prendersene cura e
fare delle richieste ai propri genitori per conto suo.
Nel frattempo, alcuni
conoscenti di Diogene, venuti a sapere dell’accaduto, si offrirono
di pagare il riscatto per liberarlo; ma egli, con uno scatto
d’orgoglio, li chiamò “sempliciotti”, dicendo che i leoni non
sono schiavi di chi li nutre, bensì è chi li nutre ad essere
schiavo dei leoni.
Diogene trascorse l’ultima
fase della sua vita presso Xeniade, fin quando, un giorno, morì.
Secondo il grammatico e biografo greco antico Demetrio, il Cinico,
ormai prossimo ai novant’anni, spirò a Corinto nel medesimo giorno
in cui Alessandro Magno morì a Babilonia.
Ci sono varie versioni a
proposito di come ciò avvenne: c’è chi dice che Diogene contrasse
il colera dopo aver mangiato un polpo crudo e chi invece che fu morso
ad un tendine da un cane con il quale stava condividendo del cibo.
Altri ancora testimoniano,
più verosimilmente, di averlo ritrovato senza vita avvolto nella sua
mantellina presso una palestra situata nei sobborghi di Corinto,
deducendo dal suo aspetto, che si fosse suicidato trattenendo il
respiro.
Si dice che i suoi
conoscenti si contesero duramente il compito di seppellirlo,
ingaggiando una lite furibonda che sfociò in una vera e propria
rissa.
Quando era ancora in vita
Diogene aveva dato diverse disposizioni su come trattare il suo corpo
privo di spirito e ciò non aiutò di certo i contendenti a prendere
una decisione.
Secondo alcuni egli aveva
suggerito di lasciarlo insepolto, così che ogni belva potesse
disporre di una sua parte, oppure di gettare il suo cadavere nel
fiume Ilisso, così da poter diventare di qualche utilità ai suoi
fratelli animali.
Secondo Xeniade, Diogene
aveva sostenuto di voler essere sepolto a faccia in giù «perché
in poco tempo il culo diventa la faccia». Ma forse questa era
soltanto una delle sue solite battute volte a sottolineare come ormai
i macedoni fossero diventati dei dominatori, trasformandosi da
nazione oscura a potenza egemone.
Alla fine fu stabilito che
Diogene doveva essere sepolto presso la porta della città che
conduce verso l’istmo di Corinto. Sulla sua tomba fu realizzata una
colonna adornata con una scultura di un cane scolpito nel marmo.
Successivamente i suoi
concittadini vollero onorare il grande Diogene realizzando delle
immagini in bronzo sulle quali vi era scritto:
«Anche il bronzo
invecchia col tempo, ma la tua gloria, o Diogene, non la demolirà
l’eternità. Perché tu solo insegnasti ai mortali la lezione di
un’esistenza bastante a se stessa e mostrasti il percorso della più
semplice vita».
Qualche decennio più
tardi il poeta e filosofo Cercida di Megalopoli gli dedicò dei versi
che recitano così:
«Non è più, chi era
innanzi cittadino di Sinope, celebre per il bastone che portava, per
il doppio mantello e il vivere all’aria aperta. S’imbarcò
premendo il labbro contro i denti e mordendo il respiro. Era Diogene,
un vero figlio di Zeus, un cane celeste».
Mirco Mariucci
Fonti
- Il pensiero occidentale, di Giovanni Reale e Dario Antiseri.
- Storia della filosofia, di Luciano De Crescenzo.
- Storia della filosofia, di Nicola Abbagnano.
- Storia della filosofia antica, di Giuseppe Cambiano.
- Storia della filosofia occidentale, di Bertrand Russell.
- Storia del pensiero scientifico e filosofico, di Ludovico Geymonat.
Scuola cinica
Antistene di Atene
- Antistene, Wikipedia.
- Antistene, Treccani,Enciclopedia Italiana (1929), di Giuseppe Zuccante.
- Antistene di Atene,Treccani, Dizionario di filosofia (2009).
- Antistene, Filosofico.net.
- Antistene, Vite dei Filosofi, di Diogene Laerzio. fonte 1) fonte 2)
Diogene di Sinope
- Diogenedi Sinope, Wikipedia.
- Diogenedi Sinope, Treccani, Enciclopedia on line.
- Diogenedi Sinope, Treccani, Enciclopedia Italiana (1931), di Guido Calogero.
- Diogene, Vite dei Filosofi, di Diogene Laerzio. fonte 1) fonte 2)
- Diogenedi Sinope, Filosofico.net.
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