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mercoledì 13 novembre 2019

I paradossi della scuola megarica: Euclide, Eubulide, Diodoro Crono e Stilpone.

Introduzione

L’Antica Grecia diede i natali a tre personaggi omonimi, la cui importanza ha fatto sì che il loro nome, ovvero Euclide (in greco antico Εὐκλείδης, Eukléidēs), giungesse fino ai giorni nostri rispettivamente custodito nei libri di storia, matematica e filosofia.

Il primo di questa curiosa terna fu un arconte ateniese che visse verso la fine del V secolo a.C. e salì al potere dal 403 al 402 a.C.. 

Durante il suo arcontato, Euclide contribuì alla restaurazione della pace e della democrazia, avviando la ricostruzione di Atene, che era stata danneggiata a causa di una guerra civile. 

Di lui si dice che fosse incorruttibile e di tutt’altra pasta rispetto a quella dei Trenta Tiranni che lo precedettero. 

Egli è principalmente ricordato per aver decretato l’adozione, per gli ateniesi, della variante ionica dell’alfabeto greco che, nei decenni successivi, si diffuse ampiamente tra le popolazioni della Grecia antica.

Il secondo Euclide, facente parte della suddetta terna di omonimi, è il più noto: si tratta del grande matematico, da molti reputato come il più importante della storia antica, che operò in Alessandria tra il 320 e il 270 a. C..

Il suo merito principale consiste nell’aver ampliato ed organizzato in modo sistematico la conoscenza matematica dell’epoca, adottando una rigorosa impostazione basata su assiomi, proposizioni e dimostrazioni.

La sua magnum opus, gli Elementi (in greco antico Στοιχεῖα, Stoichêia), è formata da tredici volumi: i primi sei riguardano la geometria piana, i successivi quattro i rapporti tra grandezze ed i restanti la geometria solida.

Il poderoso impatto di quest’opera sulla cultura occidentale è testimoniato dall’elevato numero di sue edizioni, superato in quantità soltanto dalla Bibbia.

Proclo racconta che, un giorno, Tolomeo chiese ad Euclide se non ci fosse una via più breve degli Elementi per apprendere la geometria; ma egli gli rispose che la geometria non ammette vie fatte apposta per i re!
Euclide di Megara
Euclide di Megara

Il terzo dei tre omonimi, di cui ci occuperemo in modo più approfondito, è Euclide di Megara (435 a.C. circa - 365 a.C. circa).

Le notizie relative alla sua vita sono scarse e le sue opere sono andate perdute. Non di rado, editori e traduttori medioevali lo confusero con il celebre matematico a cui abbiamo or ora accennato.

Egli era un vero filosofo di stampo socratico, il cui pensiero risentiva anche della corrente eleatica, della quale Parmenide fu il maggiore esponente.

È noto che Euclide fosse sia allievo di Zenone, a sua volta discepolo di Parmenide, che di Socrate. Ciò spiega i tratti fondamentali di quella che, in seguito, sarebbe diventata la sua corrente filosofica.

Fintanto che Socrate era in vita, Euclide seguì le sue lezioni recandosi di persona ad Atene, correndo dei grandi pericoli.

In quel periodo, infatti, a causa di un decreto, gli ateniesi non esitavano a catturare e condannare a morte i megaresi che s’introducevano nella loro città; ma Euclide continuò lo stesso a recarsi ad Atene con regolarità, valcando il confine, di notte, travestendosi da donna!

Dopo che Socrate fu condannato a morte nel 399 a.C., il filosofo di Megara si ristabilì nella sua città natale, cercando di dar seguito agli insegnamenti dei suoi maestri.

È in questo periodo che Euclide sviluppò la propria corrente filosofica, fondando la scuola megarica.

In estrema sintesi, si può dire che il tratto caratteristico della sua filosofia risieda nell’aver realizzato una sorta di sincretismo sinergico tra l’etica socratica e l’ontologia eleatica. 

Socrate riteneva che esistesse soltanto un bene, la conoscenza, e soltanto un male, l’ignoranza. E che il bene esercitasse una forza attrattiva irrefrenabile nei confronti dell’essere umano.

Pertanto chi compie il male non lo fa perché è cattivo, ma a causa della sua ignoranza rispetto a cosa sia il bene.

Parmenide, utilizzando esclusivamente la ragione, riteneva di aver colto la vera natura dell’essere. 

A suo avviso, i mutamenti e la molteplicità del mondo fisico sarebbero pure illusioni dei sensi, in quanto, in verità, esisterebbe un’unica realtà: immutabile, immobile, eterna, ingenerata, immortale, finita (nel senso di compiuta) ed omogenea.

Euclide, dal canto suo, non si limitò a sostenere socraticamente che il bene fosse uno solo, sebbene gli esseri umani lo chiamassero con molti nomi differenti (a volte saggezza, altre volte dio, altre volte ancora intelletto... e così via), ma lo caratterizzò attribuendogli le qualità dell’essere parmenideo.

In questo modo egli affermò il valore ontologico, e non soltanto puramente morale, del bene socratico.

Si può quindi sostenere che, per Euclide, il Bene è l’Essere: è questa l’identità fondamentale della scuola megarica. 

Degli eleati Euclide adottò anche il metodo, ispirandosi, in particolar modo, a Zenone di Elea: egli era un razionalista che prestava fede alla ragione e, al celebre dialogo socratico, preferiva una dialettica con tratti eristici, volta alla confutazione delle posizioni degli avversari e alla persuasione degli interlocutori.   

A tal fine Euclide ricorreva alla reductio ad absurdum (locuzione latina traducibile come riduzione all’assurdo), una tecnica argomentativa che non attacca le premesse, bensì le conclusioni, assumendo temporaneamente come vera la tesi da confutare, al fine di derivare, con dei passaggi logico-razionali, una contraddizione. 

Se ciò accade, e le inferenze sono valide, non si può far altro che concludere che la tesi assunta come vera per assurdo, in realtà, sia falsa, giacché la logica c’insegna che, mediante un’argomentazione corretta, il vero non può implicare il falso.

Di conseguenza, se il Bene è uno, e coincide con l’Essere, che è la vera realtà, Euclide non poteva far altro che negare la realtà delle cose contrarie al bene, sostenendo che esse “non sono”. E siccome Socrate insegnava anche che la conoscenza del bene è la virtù, come corollario, il filosofo di Megara ammetteva che anche la virtù fosse unica e quindi le varie virtù elencate dai filosofi non erano altro che nomi diversi utilizzati per indicare la stessa “cosa”. 

Per quanto riguarda la tecnica argomentativa, invece, è noto anche che Euclide rifiutasse il procedimento comparativo, sostenendo che esso si avvale di simili o di dissimili; ma se si tratta di simili, allora è meglio guardare direttamente alle cose stesse, e non a quelle cui esse sono simili, mentre se si tratta di dissimili, l’accostamento è già di per sé superfluo. Dunque, in ogni caso, la comparazione andava evitata.

Con questo impianto filosofico e metodologico la scuola megarica crebbe e si espanse, fino a riuscire a diffondere la propria concezione all’interno dell’Accademia di Platone, costringendo quest’ultimo a muovere una difesa risoluta nei confronti della molteplicità e del non essere.

È ragionevole pensare che per Euclide la dialettica svolgesse una funzione di purificazione nel terreno dell’etica, in quanto grazie ad essa si sarebbero potute individuare le opinioni false a priori, confutandole, evitando così l’infelicità che sarebbe conseguita dal ritenere erroneamente vero il falso.

Ben presto, però, i megarici divennero noti per l’atteggiamento polemico e le tipiche sottigliezze dialettiche dovute al loro approccio eristico, fin quando furono addirittura chiamati “eristi” e “dialettici” in senso dispregiativo. 

Si consideri che Timone di Fliunte arrivò ad accusare Euclide di aver ispirato ai megaresi un frenetico amore per la controversia.

Come avremo modo di comprendere, la scuola di Megara diede anche un importante contributo allo sviluppo della logica. Ciò fu dovuto, in particolar modo, ai successori di Euclide, tra i quali ricordiamo: Eubulide, Diodoro Crono e Stilpone.

Eubulide di Mileto

Eubulide di Mileto fu un filosofo greco antico, amante della logica, che operò nella metà del IV secolo avanti Cristo. In giovane età, fu discepolo di Euclide di Megara e, da grande, divenne il direttore della scuola fondata da quest'ultimo. 

Così come accadde con Zenone e Parmenide, anche Eubulide venne in soccorso al proprio maestro inventando una serie di argomenti a sostegno della filosofia megarica.

Nel far questo, egli evidenziò una serie di insidie relative all’uso del linguaggio che, all’epoca, non erano state indagate ed ancor meno comprese.

Eubulide passò alla Storia per sette sottili paradossi, di cui lo storico Diogene Laerzio gli attribuisce la paternità, anche se quelle argomentazioni potrebbero essere state una sorta di armamentario comune utilizzato da tutti i membri della scuola megarica.

I sette paradossi di Eubulide sono i seguenti:

1) Paradosso del mentitore
Se un uomo afferma: «io sto mentendo!», ciò che egli dice è vero, o è falso?

2) Paradosso dell’uomo mascherato
Eubulide: «Conosci l'uomo incappucciato che si sta avvicinando?». 
Interlocutore: «No, non lo conosco». 
Eubulide: «Se gli togliamo il cappuccio, lo conosci?». 
Interlocutore: «Sì, lo conosco!». 
Eubulide: «Dunque tu conosci, e non conosci, la stessa persona».

3) Paradosso di Elettra 
Elettra non sa che l'uomo che le si sta avvicinando è suo fratello Oreste. Ma Elettra conosce suo fratello. Quindi Elettra conosce l'uomo che le si sta avvicinando?

4) Paradosso del trascurato
Alfa non conosce l’uomo che si sta avvicinando e lo tratta come un estraneo. Eppure quell’uomo è suo padre. Dunque Alfa non conosce suo padre e si comporta con lui come farebbe con un estraneo?

5) Paradosso del sorite (dal greco antico σωρίτης, sōritēs aggettivo di σωρός, sōros, che significa mucchio)
un chicco di grano non fa di certo un mucchio; due chicchi di grano, neanche... se si continua ad aggiungere un chicco alla volta, quand'è, allora, che comincia ad esserci un mucchio?

6) Paradosso del calvo
Un uomo con molti capelli non è certamente stempiato. Se a quest'uomo cade un capello, egli non diventa di certo stempiato. Tuttavia se, uno dopo l'altro, i capelli continuassero a cadere, l'uomo diventerebbe calvo. Ma quindi quand'è che un uomo può essere definito stempiato? La differenza tra stempiato e non-stempiato è determinata dall’assenza, o dalla presenza, di un solo capello in meno o in più?

7) Paradosso del cornuto
Suppongo che tu affermi, o neghi, di avere, o non avere, tutto ciò che non hai perduto; ebbene, qualunque cosa si risponda, sarebbe una rovina! 

Infatti, se si nega di avere ciò che non si è perso, si conclude che non si hanno gli occhi, che non si sono persi; se invece si risponde di avere ciò che non si è perso, si conclude che si hanno le corna, che non si sono perse!

Osserviamo, brevemente, che le argomentazioni appena illustrate sono tutt’altro che semplici giochi linguistici o virtuosismi fini a se stessi.

Ad esempio, il paradosso del mentitore mette in evidenza le difficoltà legate agli enunciati autoreferenziali che esprimono qualcosa sul proprio grado di verità.

Infatti, non appena si assume che la proposizione «io sto mentendo!» sia vera, allora si deve concludere che essa in realtà è falsa, mentre assumendo che la medesima proposizione sia falsa, si deve concludere che essa in realtà è vera. Ma così facendo ci si imprigiona in un rovinoso ciclo infinito, dal quale è impossibile liberarsi!

Il paradosso dell’uomo mascherato esibisce la possibilità che il medesimo termine assuma significati diversi, anche in uno stesso contesto.

Il punto debole di quell’argomentazione risiede nell’ambiguità ottenuta giocando con i termini “uomo” e “conosci”, rafforzata dal porre sullo stesso piano conclusioni ottenute in istanti temporali e con contenuti informativi differenti.

Non vi è alcuna contraddizione nel fatto che un individuo ammetta di conoscere un uomo, perché ad esempio ci si sta riferendo ad un suo familiare, ma al tempo stesso asserisca di non (ri)conoscere un uomo, che gli si trova davanti, a causa del suo travestimento.

Il paradosso del sorite sfrutta l'ambiguità propria di certi termini usati con vaghezza e senza alcuna cautela nel linguaggio comune. 

In particolare, la difficoltà dell’argomento è generata dal voler equiparare concetti intrinsecamente dissimili, uno di tipo qualitativo (il mucchio), l’altro di tipo quantitativo (il numero dei granelli).

Questo genere di paradossi non può essere risolto entro una logica aristotelica bivalente, che ammette soltanto il vero e il falso, ma richiede una generalizzazione che contempli diverse gradazioni di verità, così da riuscire a formalizzare rigorosamente dei ragionamenti approssimati.

Infine, il paradosso del cornuto fa perno sull'ambiguità argomentativa dovuta all’omissione di una o più premesse. 

Un uomo possiede ciò che non ha perso, a patto che prima di perderlo quel qualcosa fosse già suo, ma Eubulide evita astutamente di specificarlo...

In verità, non basterebbe un intero volume per addentrarsi nella profondità di questi paradossi, esplicitandone le conseguenze.

Basti sapere che nel corso dei secoli il paradosso del mentitore venne ripreso e affrontato da molti grandi pensatori, e la sua importanza è tale che i logici contemporanei ancora ne dibattono.

Il lettore più accorto avrà certamente notato che i paradossi dell’uomo mascherato, di Elettra e del trascurato, ricorrono al medesimo “trucco” argomentativo; la stessa cosa può dirsi per i paradossi del sorite e del calvo, che condividono la medesima “natura”.

Come abbiamo mostrato, anche il paradosso del cornuto può essere risolto con un po’ di ragionamento, individuando la fallacia ad esso sottesa, vale a dire l’apposita omissione di alcune premesse.

Ma il paradosso del mentitore è fatto di un’altra pasta rispetto agli altri argomenti: a rigor di termini, si tratta di una vera e propria antinomia, ottenuta mediante un’astuta proposizione autonegante che dà origine ad una contraddizione logica.

Con questo paradosso Eubulide esibisce un esempio di proposizione ben formulata che non può essere né vera, né falsa, mostrando così l’esistenza di enunciati indecidibili all’interno della logica aristotelica classica.

Questa scoperta non è affatto scontata. All’epoca si riteneva che si potesse stabilire la verità, o la falsità, di ogni frase ben formata, ma così non è. 

Crisippo tentò di risolvere la questione sostenendo che questo genere di frasi fossero completamente prive di significato; Aristotele gli fece coro, affermando che esse erano da cassare, in quanto le frasi contraddittorie evidentemente non appartengono alla classe delle proposizioni ben formate. 

I logici medioevali le catalogarono tra gli insolubilia, ovvero tra i problemi insolubili, fin quando alcuni pensatori cominciarono a suggerire che le antinomie si originassero confondendo l’uso di un enunciato con la sua menzione.

Guglielmo di Ockham, insoddisfatto della cassatio aristotelica, che non forniva alcuna soluzione concreta alle antinomie, introdusse la distinzione tra linguaggio e metalinguaggio, ovvero tra il linguaggio utilizzato ed il linguaggio impiegato per riferirsi al linguaggio utilizzato [chiedo scusa per il gioco di parole!]. 

Egli comprese che i paradossi autoreferenziali, come quello del mentitore, mescolano il linguaggio con il metalinguaggio, dando così origine alle suddette problematiche.

La proposizione «io sto mentendo!» si pone, al tempo stesso, sia al livello del linguaggio, in quanto è per l’appunto espressa tramite un certo linguaggio, che al livello del metalinguaggio, perché sta utilizzando quel linguaggio per dire qualcosa su se stessa.  

Nel tentativo di districare l’antinomia del mentitore, il filosofo Buridano anticipò il concetto di logica temporale, secondo la quale bisognerebbe considerare la verità, o la falsità, di un’affermazione non in senso assoluto, ma relativamente ad un certo momento. 

Se è innegabile che vi sia una contraddizione nell’affermare e nel negare una certa cosa nello stesso tempo, è altrettanto vero che sia del tutto legittimo che una frase possa essere sia vera che falsa, ma in tempi diversi. 

Altri tentativi di soluzione dell’antinomia del mentitore furono effettuati introducendo una logica a più valori di verità, in cui le frasi possono essere, ad esempio, vere, false o indefinite. In tal caso, l’affermazione «io sto mentendo!» non causa alcun paradosso, in quanto il suo grado di verità risulta indefinito. 

Peccato però che nessuna delle “soluzioni” precedenti risolva definitivamente il problema delle antinomie: esse, infatti, con alcuni accorgimenti, possono essere riformulate, ottenendo le medesime problematiche che ci si era prefissati di eliminare!

Sebbene la distinzione tra uso e menzione sia legittima, e oggigiorno venga comunemente accettata, il logico Quine riuscì a riformulare il paradosso del mentitore in modo tale da non generare alcuna ambiguità.

La distinzione tra linguaggio e metalinguaggio, pur chiarificandone il funzionamento, di per sé, non elimina di certo il problema delle antinomie. 

Osserviamo che adottando la soluzione proposta da Buridano si potrebbe riformulare il paradosso del mentitore al seguente modo:

Socrate: «Platone dirà il falso quando pronuncerà la frase seguente». 
Platone: «Socrate disse il vero quando pronunciò la frase precedente».

Se invece si adottasse la logica a più valori sopra illustrata, il paradosso del mentitore si ripresenterebbe non appena si considerasse la frase: «io non sono vera» [per brevità, lascio la dimostrazione di queste ultime asserzioni ai lettori di buona volontà!].

Negli anni trenta del Novecento il logico Kurt Gödel fece un po’ di chiarezza, mostrando che le proposizioni autoreferenziali, come quella del mentitore, possono essere formulate in modo sensato e senza alcuna ambiguità tra uso e menzione. Aristotele quindi era in errore.

Per farlo, adottò uno stratagemma che prevede di specificare la menzione utilizzando le virgolette “ ” e di indicare l’uso con la loro assenza.

Più precisamente, adottando questa convenzione, per ogni proprietà P esprimibile nel linguaggio, la frase:

“ha la proprietà P se preceduta dalla sua menzione” 
ha la proprietà P se preceduta dalla sua menzione

afferma rigorosamente e senza ambiguità: «io ho la proprietà P».

In particolare, se P esprimesse la proprietà di essere falsa, allora la frase precedente affermerebbe «io sono falsa». 

Si consideri un sistema formale matematico basato sulla logica; se tale proprietà, ovvero “essere falso”, fosse esprimibile in quel linguaggio, si otterrebbe una contraddizione analoga a quella del mentitore. Pertanto quel sistema formale sarebbe contraddittorio.

Se invece la proprietà P “essere falso” non fosse esprimibile, si dovrebbe concludere che quel sistema formale non consente di definire la falsità al suo interno, e quindi, siccome il vero è la negazione del falso, non permette neanche di definire la verità entro il sistema.

Pertanto, si può sostenere che in un sistema formale sufficientemente espressivo che risulti consistente (ovvero non contraddittorio) la verità non è definibile!

Con lo stesso “trucco”, ma considerando come linguaggio un sistema formale in cui sia possibile definire la dimostrabilità, si potrebbe comporre una frase che afferma: «io non sono dimostrabile». 

Se quel sistema avesse anche la proprietà di dimostrare soltanto affermazioni vere (correttezza), allora non potrebbe dimostrare quella frase, altrimenti si otterrebbe una contraddizione! 

Ciò significa che nel campo della matematica, sotto certe ipotesi ed entro certi sistemi, esistono verità indimostrabili!

Si ottiene così una delle possibili formulazioni del celebre teorema di Gödel, secondo cui un sistema formale sufficientemente espressivo e corretto è necessariamente incompleto.

In altri termini, ciò significa che esistono dei sistemi formali, con la caratteristica di dimostrare soltanto affermazioni vere ed in cui la dimostrabilità è definibile, entro i quali è impossibile dimostrare tutte le verità.
Diodoro Crono
Diodoro Crono

Mentre i temibili paradossi di Eubulide echeggiavano nell’antica Grecia, la polemica megarica proseguiva per opera dei suoi discepoli.

Tra di essi Diodoro Crono (fine IV - inizi V secolo a.C.) si contraddistinse per le grandi doti dialettiche impiegate nelle argomentazioni mosse contro il movimento, il divenire e la possibilità.

Bisogna dire che nella critica al movimento non fu particolarmente originale: sostanzialmente egli riprese gli argomenti di Zenone di Elea, al fine di conferire verità alla realtà nella sua immediata determinazione temporale e spaziale. 

Ogni posizione che si allontanava da questa visione doveva apparire contraddittoria e veniva rigettata, anche con espedienti retorici.

A suo avviso, si doveva ammettere che se qualcosa si muove, ciò avviene o verso il luogo in cui già è, o verso un luogo in cui non è; ma se qualcosa si muove nel luogo in cui già è, allora è immobile, mentre se lo fa in un luogo in cui non è, non è in moto, perché noi possiamo soltanto dire di vedere che quel qualcosa si trova immobile in un luogo diverso dal precedente. 

Diodoro si spinse fino al punto di rimettere in discussione i concetti aristotelici di potenza e atto, sostenendo che solo quando una cosa è in atto può essere, mentre quando non è in atto, non può neppure essere. 

Ad esempio, chi non sta costruendo non può costruire, ma egli è un costruttore solo quando sta costruendo, perché chi non costruisce non ha potenza di costruire. In altri termini, secondo Diodoro non può esservi potenza quando non c’è atto. 

Lo stesso Aristotele osservò che se questo principio fosse vero sopprimerebbe il movimento ed il divenire, perché, ad esempio, chi avesse la sfortuna di trovarsi seduto rimarrebbe in quella posizione per l’eternità, dato che nessuno riuscirebbe ad alzarsi senza avere la capacità di farlo in potenza!

Ma l’argomentazione più celebre e importante sviluppata da Diodoro Crono è quella passata alla storia con il nome di argomento vittorioso (o anche come argomento dominante o dominatore) con cui egli intendeva provare che si può dire che “è possibile” soltanto di ciò che è, o sarà; quindi, a suo avviso, necessità e possibilità sarebbero inscindibili.

La formulazione originaria di questo argomento non ci è pervenuta, ma essa suonava, grosso modo, così:

io sostengo che ogni proposizione vera riguardante il passato è necessaria, ovvero ciò che è avvenuto nel passato non poteva essere diverso da ciò che è stato. 

Questo significa che tutto ciò che non si è realizzato in passato, era impossibile che si realizzasse. 

E siccome l’impossibile non può derivare dal possibile, giacché nell’irrealtà è implicita l’impossibilità, allora ciò che non è stato (che ora sappiamo essere impossibile) non poteva essere possibile neanche in passato.

Questo significa che tutto ciò che non è stato, è sempre stato impossibile. Dunque possiamo sostenere che tutto ciò che è possibile si realizza, senza che rimangano possibilità irrealizzate.

Di conseguenza siamo autorizzati a concludere che tutto ciò che è, è necessario, ovvero non può essere diverso da ciò che è.

In altri termini, tutto ciò che accade deve necessariamente accadere, tanto per i fatti passati quanto per i futuri.

La discussione della correttezza dell’argomento vittorioso è tutt’altro che banale e ci condurrebbe troppo lontano; pertanto non verrà affrontata all’interno di questo scritto.

Diremo soltanto che il ragionamento di Diodoro conduce in modo naturale ad uno stretto determinismo che, a sua volta, apre le porte ad un’altra questione altrettanto spinosa: se il futuro sia, o meno, predeterminato. 

Aristotele rispose in modo negativo, sostenendo l’impossibilità di anticipare il valore di verità di un evento futuro, in quanto esso non è mai assolutamente necessario. Di conseguenza, bisognava rifiutare ogni determinismo. 

La previsione di un fatto sottende una verità, o una falsità, in relazione al futuro, ma non per questo quel fatto può dirsi vero, o falso. 

Le verità, o le falsità, che appaiono guardando al futuro, sono sì necessarie, ma lo sono a posteriori, cioè lo diventano soltanto dopo che i fatti sono accaduti. 

È errato sostenere che tutti gli eventi siano in atto, in quanto alcuni di essi sono semplicemente possibili. E in relazione a ciò che è possibile si può dire che esso potrà essere vero o falso in futuro, ma non attualmente.

Altri pensatori evidenziarono come il rigido determinismo megarico fosse estremo e paradossale, suggerendo la fallacia del ragionamento di Diodoro avvalendosi dell’ironia.

Scherzando sull’argomento vittorioso, Cicerone scrisse a Varrone: «Sappi che se mi fai una visita, questa visita è una necessità, giacché se non lo fosse rientrerebbe tra le cose impossibili».

È interessante osservare come la concezione eleatica si rifletta nell’argomento vittorioso: l’equazione della realtà con la possibilità, infatti, era implicitamente contenuta nell’intuizione parmenidea secondo cui essere e dover essere, realtà e necessità sono essenzialmente identificati.

Secondo i membri della corrente eleatica non può esistere nulla che sia al di là dell’essere e di conseguenza quest’ultimo deve assumere il tratto dell’assoluta necessità. 
Stilpone di Megara
Stilpone di Megara

Prima di dissolversi, a causa del diffondersi di nuove correnti filosofiche, la scuola di Megara raggiunse la sua acme sotto la guida di Stilpone (Megara, 360 a.C. circa – 280 a.C. circa).

Essendo stato sia allievo di Euclide di Megara che di Diogene il Cinico, Stilpone manifestava due anime: la prima di natura eleatico-megarica, per quanto riguarda la logica e l’ontologia, la seconda di natura cinica, in relazione all’etica. 

Il suo acume nell’argomentazione era tale che attrasse numerosi filosofi, sottraendoli alle altre scuole di pensiero. 

Tra i suoi discepoli più celebri si annoverano Zenone di Cizio, l’iniziatore dello stoicismo, e Timone di Fliunte, un fedele seguace di Pirrone che, a sua volta, fu il padre dello scetticismo.

Diogene Laerzio sostiene che Stilpone scrisse nove dialoghi così intitolati: Aristotele, Tolemeo, Aristippo, Callia, Mosco, Cherecrate, Epigene, Anassimene e Alla propria figlia, ma di essi, ad oggi, non vi è traccia. 

Da un punto di vista delle concezioni filosofiche, egli è noto per aver negato la dottrina platonica delle idee: se è vero che le idee designano l’universale, allora in esse non è rappresentano alcun essere particolare. Ciò significa che le idee designano il nulla.

Stilpone sosteneva che chi dice «uomo» non si sta riferendo a nessuno, perché l’intelligibile non indica né questo singolo essere, né quest’altro individuo. Perché con quel termine si dovrebbe intendere l’uno anziché l’altro? 

E ancora, la verdura intelligibile non è questa che viene indicata ora, perché, a differenza di quest’ultima, la verdura intelligibile esisteva già una miriade di anni fa, ragion per cui quella intelligibile non può essere questa verdura qui presente fisicamente.

Con Stilpone la critica megarica alla molteplicità si estese anche al linguaggio, negando la possibilità della predicazione, fatta eccezione per il caso dell’identità. 

In altri termini, egli riteneva che l’unico giudizio possibile sia quello identico, in cui si predica di un soggetto l’uguaglianza con se stesso, ad esempio si può dire che «l’uomo è uomo», ma negava la validità di ogni altro giudizio affermativo in cui si attribuisce un predicato ad un soggetto, come quando, ad esempio, si dice che: «il cavallo corre».

Infatti, argomentava, l’essere del cavallo e l’essere di chi corre sono diversi e quindi vengono definiti diversamente; dunque non si può identificarli. Se invece fossero identici, cioè se il correre fosse proprio del cavallo, come si potrebbe attribuire il medesimo predicato anche ad altri animali o all’uomo? 

È quindi evidente che se si ammettesse una qualsiasi molteplicità, o come soggetti, o come predicati, si giungerebbe ad un assurdo, dimostrando la falsità del giudizio affermativo.

Ad esempio, se il buono e l'essere uomo, il correre e l'essere cavallo, fossero coppie identiche, come si potrebbe predicare il buono anche del cibo o della medicina, e il correre del leone o del cane? Ma se fossero diversi, non sarebbe corretto dire che l'uomo è buono e il cavallo corre...

È così che Stilpone combatteva l’idealismo platonico, perorando la causa della scuola megarica.

Per quanto riguarda l’etica, egli sosteneva che il fine del saggio fosse il raggiungimento dell'apatia (in greco antico απάθεια, apátheia) e dell'autarchia, ovvero dell’impassibilità, dovuta all’assenza di passioni (in greco antico πάθος, pàthos), e dell’autosufficienza sociale. 

Il vero sapiente basta a se stesso e non ha bisogno di nulla, neppure dell'amicizia.

In merito a ciò, diogene Laerzio narra che quando Demetrio I, figlio di Antigono, conquistò Megara, ordinò che la casa di Stilpone venisse conservata e gli fossero restituiti tutti gli oggetti dei quali era stato rapinato. 

Ma quando Demetrio volle ricevere dall’illustre filosofo un elenco scritto delle cose perdute, egli affermò che non gli mancava alcuna delle sue proprietà, perché nessuno gli aveva sottratto la cultura, ed aveva ancora intatti l’intelletto e l’episteme.

Si può quindi dire che Stilpone fece propri gli insegnamenti sapientemente condensati nella locuzione latina: «Omnia mea mecum porto» (traducibile come: “Tutti i miei beni, li porto con me”), che Cicerone attribuiva a Biante di Priene, uno dei celebri sette savi dell’Antica Grecia, vissuto nel VI secolo avanti Cristo.

Mirco Mariucci

Fonti
  • C'era una volta un paradosso, di Piergiorgio Odifreddi.
  • Il pensiero occidentale, di Giovanni Reale e Dario Antiseri.
  • Il Sapere degli Antichi Greci, Mirco Mariucci.
  • Storia della filosofia, di Nicola Abbagnano. 
  • Storia della filosofia antica, di Giuseppe Cambiano.
  • Storia del pensiero scientifico e filosofico, di Ludovico Geymonat.
Euclide l’arconte
Euclide il matematico
Euclide di Megara
Socrate 
Parmenide
Aristotele
Eubulide
Diodoro Crono
Stilpone

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