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sabato 19 giugno 2021

Il pensiero dei Neoplatonici: Ammonio Sacca, Plotino, Porfirio, Giamblico, Plutarto, Proclo.

 


Il neoplatonismo

Il termine neoplatonismo può essere utilizzato, con bivalenza di significato, sia per indicare un determinato periodo storico, che un atteggiamento filosofico peculiare.


Neoplatonico fu il periodo storico-filosofico occidentale compreso tra la metà del secondo secolo dopo Cristo e la metà del sesto, o al più del settimo, secolo, se si considerano anche le vicende avvenute in Alessandria d’Egitto;


neoplatonici furono tutti coloro che ripresero, riabilitarono, reinterpretarono, integrarono e, in un certo qual modo, rinnovarono, l’antico pensiero di Platone, a prescindere dal periodo storico in cui ciò avvenne.


A scanso di equivoci, precisiamo che, in vista delle finalità di questo scritto, utilizzeremo i precedenti termini per indicare, da un lato, l’ultima grande manifestazione del platonismo scaturita dalla summa del pensiero greco antico e, dall’altro, i diretti protagonisti che contribuirono a dare alla luce questo pregevole sistema filosofico.


Il movimento neoplatonico nacque in risposta ad una profonda crisi interiore e ad una tendenza alla svalutazione della realtà sensibile dovute ai grandi sconvolgimenti ed alle difficoltà materiali provocati dall’ormai prossima caduta dell'Impero romano d'Occidente.


In questo contesto di decadenza, i filosofi tentarono di mettere in salvo le anime dell’umanità, cercando una ricetta per liberare il corpo dalle passioni ed elevare lo spirito. E lo fecero guardando alla saggezza ed alla sapienza dei migliori esponenti delle correnti filosofiche antiche.


Nonostante i neoplatonici intendessero la filosofia come attività esegetica, vale a dire come studio finalizzato alla comprensione del significato più profondo e autentico delle opere dei loro predecessori (in particolar modo quelle di Platone) e non si considerassero degli innovatori, essi finirono per introdurre degli elementi di indiscussa originalità.


Con l’opera dei neoplatonici, le antiche concezioni platoniche vennero rinnovante accogliendo ogni possibile elemento di verità ricavabile dagli altri sistemi filosofici; fu così che, mediante una magistrale fusione del platonismo con elementi provenienti dalle dottrine pitagoriche, aristoteliche, stoiche e dalle numerose esperienze religiose della cultura ellenica, nacque una vera e propria dottrina neoplatonica, che dapprima si oppose al dilagare del cristianesimo e poi, nei secoli successivi, continuò ad influenzare sia il pensiero medioevale che quello moderno.


In tal senso, il neoplatonismo può anche essere inteso come la più notevole manifestazione dell’orientamento religioso assunto dai pensatori del tardo ellenismo e, ancor più, da quelli dell’età alessandrina.


Se poi si conviene nel definire la Scolastica come un approccio filosofico volto a comprendere, da un punto di vista razionale, le verità religiose date dalla tradizione, allora il neoplatonismo può anche essere inteso come la prima forma storica della scolastica.


I neoplatonici, infatti, ritenevano che la verità fosse stata già rivelata agli antichi; non v’era dunque alcun bisogno di ricercarla. E grazie alla tradizione, tale verità si era tramandata, mantenendosi inalterata nella sua essenza.


Non si trattava dunque di scoprire la verità, ma semmai di comprenderla, spiegarla, giustificarla e difenderla operando da un punto di vista razionale, utilizzando un sincretismo a base platonica mescolato con gli elementi dottrinali di qualsiasi altra concezione che fosse risultata adatta a tal fine.


Con il passare dei secoli, i neoplatonici fondarono numerose scuole, le più importanti delle quali stabilirono le loro sedi nelle città di Alessandria, Roma, Siria, Pergamo ed Atene, ed il loro pensiero si articolò in tre correnti principali:


1) Prima scuola di Alessandria


La nascita della prima Scuola di Alessandria, avvenuta attorno al 200 d.C. ad opera di Ammonio Sacca, diede il via al movimento neoplatonico.


Tra i suoi frequentatori più illustri citiamo Erennio, Longino, Origene il pagano (da non confondere con l’Origene cristiano) e Plotino; quest’ultimo, in particolare, fu il maggiore esponente del neoplatonismo.


A sua volta Plotino, nel 244 d.C., fondò una nuova scuola a Roma, non prima di aver partecipato alla spedizione dell’imperatore Gordiano contro i persiani, nel corso della quale ebbe modo di venire in contatto con la cultura filosofica orientale.


Tra i seguaci e gli ammiratori più illustri della Scuola di Roma fondata da Plotino, vi furono i filosofi Amelio e Porfirio, nonché l’imperatore Gallieno e la sua consorte Salonina.


Porfirio, oltre ad occuparsi di trascrivere il pensiero del suo maestro, componendo le celebri Enneadi, contribuì attivamente alla diffusione del neoplatonismo operando anche in Sicilia.


Il carattere della prima scuola di Alessandria era rivolto alla speculazione metafisica; gli afflati di religiosità rinvenibili nelle dottrine di questi pensatori erano squisitamente filosofici ed inizialmente si mantennero ben distanti sia dalla religione positiva data dalla tradizione, fondata su precise credenze, culti e gerarchie, che dalle pratiche magiche.


Successivamente, però, quest’ultimo atteggiamento mutò, attribuendo sempre più importanza agli aspetti magico-rituali, quali ad esempio la Teurgia, di cui già Porfirio era un profondo conoscitore.


2) Scuola Siriaca


Alla corrente di Plotino e dei suoi seguaci, seguì idealmente la Scuola di Siria, fondata da Giamblico poco dopo il 300 d.C. e a cui appartennero Teodoro di Asine, Sopatro di Apamea e Dessippo.


Questi pensatori cominciarono a volgere lo sguardo con maggiore insistenza al misticismo ed alla magia, combinando la speculazione filosofica con una marcata tendenza religiosa, e finirono per intendere la filosofia come uno strumento grazie a cui rifondare e difendere la religione politeista greco-romana, considerando le pratiche magiche, con particolare riferimento alla teurgia, come un completamento fisiologico del neoplatonismo.


Il maggior punto di decadimento dell’attività filosofico-speculativa, sacrificata in nome dell’esaltazione della componente mistico-religiosa e della pratica magico-teurgica, venne raggiunto dai neoplatonici nella Scuola di Pergamo fondata da un allievo di Giamblico noto con il nome di Edesio.


Fra gli esponenti più illustri di questa corrente citiamo l’imperatore Giuliano, detto l’Apostata, ed il suo collaboratore Sallustio, solitamente ricordati per l’impegno profuso nel difendere in modo deciso l’antica religione politeista, con il preciso intento di opporsi all’avanzata del cristianesimo.


3) Scuola di Atene


Alla corrente siriaca seguì, in qualità di erede intellettuale, la Scuola di Atene, la quale può essere considerata come l’ultima manifestazione dell’ormai millenaria Accademia di Platone.


Il primo scolarca di tale corrente del neoplatonismo è storicamente individuato nella figura di Plutarco di Atene, a cui si susseguirono Siriano, Domnino e Proclo; quest’ultimo, in particolare, spiccò tra gli altri, al punto da essere considerato come l’ultimo grande filosofo tra gli esponenti dell’antichità pagana.


Successivamente, la tradizione della Scuola d’Atene fu mantenuta in vita da Marino, Isidoro, Damascio, Simplicio e Prisciano, fin quando, nel 529, l'imperatore Giustiniano emanò un editto che impediva, di fatto, ai neoplatonici di continuare a diffondere il loro pensiero, ponendo così fine sia all’Accademia che alla tradizione filosofico-religiosa antica.


Nel suo Codex, infatti, Giustiniano vietò l’insegnamento di ogni dottrina da parte di tutti coloro che «sono affetti dalla pazzia degli empi pagani» e condannò chi non si fosse affrettato a tornare in seno alla santa Chiesa alla sospensione dei finanziamenti pubblici, alla confisca di tutte le proprietà ed, infine, all’esilio.


A causa di ciò, Damascio, Simplicio e Prisciano si recarono in Persia, portando con sé altri quattro membri della scuola d’Atene, ma il loro tentativo di esportare il pensiero neoplatonico fallì.


La caratteristica peculiare dei membri della Scuola di Atene era l’erudizione; un atteggiamento che si accrebbe ancor più nella cosiddetta Seconda Scuola di Alessandria, sorta nella prima metà del quinto secolo e tramontata nella prima metà del settimo secolo dopo Cristo.


L’importanza di questa classe di pensatori è dovuta più ai loro commentari che non alle concezioni filosofiche da essi elaborate, le quali, rispetto alle formulazioni neoplatoniche più antiche, risultavano ormai semplificate.


Lo scarso interesse per le speculazioni metafisiche fu però sostituto da una genuina curiosità scientifica che, ben presto, si tradusse in una serie studi matematici e di indagini naturalistiche.


Si capisce quindi il motivo per cui, in questa fase del neoplatonismo, gli scritti aristotelici furono fortemente rivalutati, giacché questo pensatore era considerato come il maggiore esponente della scienza empirica dell’antichità.


Tra i più importanti rappresentanti della scuola di Alessandria è doveroso ricordare la matematica, astronoma e filosofa greca antica Ipazia, la quale, dopo aver dato lustro alla sua scuola, passò alla storia come una martire del libero pensiero, essendo stata massacrata da una folla di cristiani suscitatale contro dal vescovo Cirillo.


Nei decenni successivi, gli studi e la filosofia di Ipazia furono portati avanti dal suo allievo Sinesio di Cirene e da Ierocle di Alessandria.


Tra i commentatori più noti degli scritti platonici e aristotelici appartenuti a questa scuola, invece, si ricordano Ermia, Ammonio, Giovanni Filopono, Asclepio, Olimpiodoro, Elia, Davide e Stefano di Alessandria.


Nonostante le diverse articolazioni della dottrina neoplatonica ed i disparati atteggiamenti dei neoplatonici, di cui daremo conto in dettaglio nel prosieguo della trattazione, è comunque possibile delineare delle tematiche ricorrenti che vanno a costituire una sorta di corpus dottrinale condiviso dalla maggior parte degli esponenti di questa corrente filosofica, caratterizzandola nella sua essenza.


Essa, in estrema sintesi, si compone di:


1) una dottrina fondata sul concetto dell’Uno, inteso come principio primo assoluto, talvolta identificato con il Bene, ma considerato come al di là dell’essere e delle sue determinazioni concettuali;


2) una teoria che spiega la genesi della molteplicità delle cose intese come sottoprodotto di successive emanazioni di diversi livelli di realtà, gerarchicamente ordinati ed originati, a cascata, a partire dall’Uno, fino ad arrivare alla realtà fisica materiale, passando per un livello spirituale ed un livello animico;


3) una visione vitalistica e organicistica della realtà, secondo cui ogni cosa è viva, il principio della vita non è di tipo materiale bensì spirituale e la realtà, con le sue molteplici manifestazioni individualizzate, è assimilabile ad una sorta di grande organismo unitario;


4) una teoria della conoscenza basata sulla dottrina platonica delle idee che prevede la possibilità di raggiungere l’illuminazione;


5) una concezione filosofica concepita come liberazione dell’anima attraverso la gnosi, con uno spiccato interesse etico e religioso, talvolta accompagnato da pratiche ascetiche, magico-rituali.


Ammonio sacca


Ammonio Sacca (175 d.C. – 242 d.C.) fu un filosofo alessandrino considerato, se non il fondatore, un precursore del neoplatonismo, vale a dire di quel movimento di pensiero che reinterpretò la concezione filosofica di Platone integrandola con elementi tratti dagli altri indirizzi filosofici e religiosi sviluppatisi nell’Antica Grecia e nel periodo Ellenistico.


Della sua vita, e del suo pensiero, si sa ben poco, ed anche rispetto a ciò che si sa, vi è un certo grado d’incertezza.


L’autentico significato del suo secondo nome, cioè “sacca”, è conteso tra coloro che sostengono che egli si guadagnasse da vivere svolgendo il mestiere del bracciante, con l’incarico di trasportare dei sacchi, e quelli che lo annoverano tra i membri della stirpe indiana dei Saker, se non addirittura dei Śākyamuni, vale a dire un gruppo di monaci buddisti, da cui sarebbe derivato il suo soprannome.


È noto invece che Ammonio nacque da una famiglia di umili origini che lo educò secondo i precetti del cristianesimo.


Non è affatto chiaro, però, se egli da adulto continuò a professare lo stesso credo dei genitori o se, per qualche ragione, si convertì al paganesimo.


Secondo Porfirio, infatti, sebbene Ammonio fosse stato allevato nel Cristianesimo, da grande, per l’esattezza «non appena acquistò l’uso della ragione», fece ritorno alla fede pagana.


D’altro canto, il vescovo Eusebio di Cesarea accusò Porfirio di sostenere il falso, giacché Ammonio, pur comportandosi «secondo le leggi», ossia uniformandosi ai costumi pagani, sarebbe rimasto un cristiano, tanto è vero che, a suo avviso, egli avrebbe addirittura redatto un’opera sull’armonia di Mosè e Gesù.


A supporto di questa tesi, si consideri che all’epoca di Ammonio il cristianesimo era considerato come una superstitio illicita contro la legge; a discredito della medesima posizione, si tenga presente che il fondatore del neoplatonismo scelse deliberatamente di non scrivere nulla, così come fecero prima di lui altri pensatori quali, ad esempio, Pitagora e Socrate, sicché la notizia della stesura delle suddette opere parrebbe priva di fondamento.


Considerato il suo stato sociale, Ammonio fu, con ogni probabilità, un’autodidatta perspicace; sul suo conto si narra che la sua bontà e la sua saggezza fossero così grandi da fargli guadagnare il titolo di Teodidatta, con il significato di istruito (o ammaestrato) da Dio (o dalla divinità).


È noto invece con certezza che, ad un certo punto della sua vita, egli avviò una scuola di filosofia ad Alessandria d’Egitto, ove elargì i suoi insegnamenti a piccole cerchie di seguaci, conducendo un’esistenza semplice, schiva e ritirata, al riparo dal clamore del mondo.


Egli intendeva la filosofia come un esercizio d’intelligenza e di vita finalizzato all’ascesi spirituale; il suo sapere era di tipo esoterico ed in quanto tale poteva essere destinato soltanto ad un ridotto numero di iniziati che instauravano un profondo legame con il loro maestro.


Tra i suoi discepoli più celebri si ricordano Origene il Pagano, Cassio Longino, Erennio Modestino ed infine Plotino che, nei decenni successivi, sarebbe diventato il maggior esponente del neoplatonismo; alcuni, però, ritengono che anche Origene il Cristiano ebbe modo di ascoltare di persona le lezioni di Ammonio.


L’assenza di scritti rende, se non del tutto impossibile, estremamente arduo il compito di ricostruire con precisione il contributo filosofico apportato dal primo tra i neoplatonici.


Il pensiero di Ammonio può essere intuito in base alla concezione elaborata dal suo miglior allievo, vale a dire Plotino, ma così facendo il rischio di attribuire in modo errato la paternità di un concetto all’uno o all’altro pensatore diviene assai elevato; inoltre, non è affatto chiaro se, dove ed in che misura, Plotino abbia alterato ed ampliato la concezione filosofica del suo maestro.


Ciò che invece è fuor di dubbio, è che la profondità e la portata del pensiero di Ammonio fossero evidenti già ai suoi tempi.


A supporto di questa tesi, si è soliti ricordare un celebre aneddoto secondo cui Plotino, recatosi ad Alessandria, partecipò di persona a tutte le conferenze tenute dai più grandi pensatori presenti in quella città, rimanendone insoddisfatto, fin quando, un giorno, un suo amico non lo condusse da Ammonio; fu così che, dopo aver assistito ad una sua sola lezione, Plotino esclamò: «È questo l’uomo che andavo cercando!» e rimase con quello che sarebbe diventato il suo maestro per ben undici anni.

Si sappia anche che il legame che si instaurò tra queste due figure storiche fu tale da essere paragonato a quello che vi fu, qualche secolo addietro, tra Socrate e Platone.


Che Plotino abbia attinto dalla dottrina di Ammonio è una cosa certa oltre ogni ragionevole dubbio, ma in che misura ciò sia avvenuto è tutt’altro che chiaro.


Si sa infatti che, un giorno, un suo ex condiscepolo, presso il circolo di Ammonio, si recò in visita alla scuola fondata da Plotino ma in quella occasione quest’ultimo evitò di tenere lezione, adducendo la seguente motivazione: «Quando l’oratore sa di parlare a persone che conoscono già quello che egli vorrà dire, ogni ardore cessa».


In generale, si ritiene che il carattere della dottrina di Ammonio sia dato dal tentativo di superare la secolare contrapposizione tra platonismo e aristotelismo, ricombinando il pensiero di Platone con alcuni elementi di quello di Aristotele.


In particolare, Ammonio intendeva affermare la possibilità di integrare la realtà intelligibile e quella sensibile in un sistema unitario.


Stando a quanto riferito da Ierocle di Alessandria, egli riteneva che il cosmo fosse composto da tre parti: il piano “superiore” dove risiede la divinità creatrice, le entità celesti e le altre divinità minori; quello “inferiore” popolato dalle cose, dagli esseri umani e dagli animali; quello intermedio costituito da una natura eterea e popolato dai “demoni” (da non intendere nell’accezione negativa data dal cattolicesimo a questo termine), vale a dire, in senso platonico, da dei “mediatori” che svolgono il ruolo di “intermediari” tra i regni “inferiore” e “superiore”.


Secondo Nemesio, Ammonio sosteneva anche che l’essere umano fosse dotato di anima, che quest’ultima fosse incorporea e costituisse il principio vitale di tutti gli esseri viventi presenti nel regno “inferiore”.


Del tutto sensata è l’ipotesi che ad Ammonio appartengano anche, nelle linee più generali, la teoria plotiniana dell’Uno, inteso come principio supremo del mondo superiore al cosmo intero, e la teoria dell’emanazione, secondo la quale l’Uno emana il regno spirituale delle idee, che a sua volta emana il regno eterico dell’anima, da cui, infine, è emanata (e vivificata) la realtà materiale.


Ed è altrettanto legittimo, volendo usare la terminologia di Ierocle di Alessandria, ricondurre questi tre livelli di realtà rispettivamente ai regni “superiore”, “intermedio” e “inferiore” precedentemente citati.


Da un punto di vista storico, tali dottrine furono riprese, sviluppate ed organizzate in modo sistematico, al tal punto da realizzare l’ultimo grande sistema filosofico del pensiero greco-romano, da Plotino e dal suo allievo Porfirio, dei quali ci occuperemo in modo approfondito nei prossimi capitoli.


Plotino


La vita

Plotino (Licopoli, 203/206 – Campania, 270) fu un filosofo greco antico, erede spirituale di Platone nonché fondatore del Neoplatonismo, considerato, ad oggi, come uno dei più celebri ed influenti pensatori dell’antichità.


In merito alla prima parte della sua vita non si sa praticamente nulla, se non che nacque a Licopoli (in Egitto) e all’età di 28 anni scelse di dedicarsi allo studio della filosofia.


Per questo motivo si recò ad Alessandria, ove partecipò, in qualità di uditore, alle lezioni dei più illustri filosofi della città.


Rimasto profondamente deluso dalle concezioni filosofiche dei pensatori con cui era venuto in contatto, un giorno, Plotino venne introdotto da un suo amico nel circolo di Ammonio Sacca, una sorta di maestro spirituale che conduceva una vita semplice e ritirata, impartendo i suoi insegnamenti per via orale ad un ristretto gruppo di iniziati.


Secondo la tradizione, fu sufficiente una sola lezione per far sì che Plotino affermasse: «È questo l’uomo che andavo cercando!».


Negli 11 anni che seguirono quell’incontro, egli divenne uno dei più fedeli, caparbi e devoti membri del circolo di Ammonio; il loro legame divenne così grande da essere paragonato addirittura quello che vi fu tra Socrate e Platone.


Giunto alla soglia dei 40 anni, ed avendo ormai assorbito tutti gli insegnamenti del suo benamato maestro, Plotino decise di avventurarsi in Oriente per approfondire la conoscenza sapienziale dei magi persiani e dei gimnosofisti indiani di cui, forse, era venuto a conoscenza tramite Ammonio.


A tal fine, nel 242 d.C., si unì alla spedizione dell'imperatore Gordiano contro la Persia, ma il fallimento della campagna militare lo costrinse a ripiegare ad Antiochia, da cui, non senza difficoltà, riuscì a raggiungere Roma nel 244 d.C..


In quel luogo, all’età di 40 anni, Plotino, giunto ormai a piena maturazione filosofico-spirituale, decise di divulgare i suoi insegnamenti fondando e dirigendo una scuola neoplatonica.


Grazie al potente connubio scaturito dall’unione della sua profonda conoscenza iniziatica con le sue rinomate virtù etico-spirituali, Plotino attrasse a sé una nutrita schiera di amici e di seguaci, essendo apprezzato anche tra il popolo, che riconosceva nella sua figura un esempio di serenità e saggezza a cui chiedere consiglio per risolvere delle controversie.


L’interesse verso gli insegnamenti di Plotino richiamò anche l’attenzione dell’alta borghesia romana, tra i cui membri egli riuscì a conquistare addirittura il favore dell'imperatore Gallieno e dell'imperatrice Salonina.


Il prestigio della sua scuola era così elevato che, non di rado, perfino alcuni dei più potenti uomini politici della sua epoca ne frequentavano le lezioni.


Per comprendere le ragioni di un simile successo, si deve considerare che il carattere della scuola di Plotino rappresentava un qualcosa di innovativo per la cultura occidentale ed era in grado di appagare i bisogni spirituali dell’umanità.


Platone, infatti, aveva creato l’Accademia per forgiare, mediante la filosofia, le migliori guide da mettere a capo dello Stato; l’intento di Aristotele, con il suo Liceo, consisteva nell’organizzare la ricerca del sapere; Pirrone, Epicuro e Zenone, con le rispettive concezioni dello Scetticismo, dell’Epicureismo e dello Stoicismo, avevano ricercato la ricetta per raggiungere l’atarassia, ovverosia l’imperturbabilità e la tranquillità dell’anima.


Plotino, invece, intendeva insegnare agli esseri umani come trascendere i vincoli materiali per ricongiungersi al divino, fino a raggiungere, nella sua più alta manifestazione, un’unione estatica con esso attraverso l’esperienza mistica dell’illuminazione.


È del tutto ragionevole ipotizzare che, così come in ogni tradizione iniziatica, anche nella scuola di Plotino vi fossero degli insegnamenti esoterici, rivolti ad una piccola cerchia di seguaci, e delle conoscenze essoteriche, destinate ad un più ampio pubblico.


È noto infatti che, almeno nella prima fase della sua attività di guida filosofico-spirituale, Plotino tenne lezione soltanto per via orale, avendo cura di non mettere nulla per iscritto, nel rispetto di un patto stretto con Erennio ed Origene il pagano in cui vi era fatto divieto di diffondere pubblicamente le dottrine del loro maestro Ammonio.


Tra i seguaci appartenuti alla cerchia più ristretta della scuola di Plotino si annoverano: Porfirio, il suo allievo più devoto; Amelio l’etrusco, un filosofo e scrittore romano; Eustochio di Alessandria e Paolino, entrambi medici; alcuni membri del senato romano di nome Castrizio, Marcello Oronzio, Sabinillo, e Rogaziano; Zethos, un arabo facoltoso che gli lasciò in eredità un pezzo di terra ed una discreta somma di denaro; Serapione di Alessandria, un vecchio retore che si era dedicato alla filosofia, pur continuando ad essere un uomo d’affari, nonché un usuraio; alcune donne, tra cui Gemina e sua figlia, nella cui casa romana egli risiedette per un certo periodo di tempo.


Parallelamente all’attività iniziatica, Plotino dedicava ampio spazio anche alla divulgazione filosofica, impartendo lezioni pubbliche ai non iniziati in cui leggeva e commentava le opere di Platone ed Aristotele, con l’intento di portare alla luce i veri insegnamenti in esse contenuti.


Ad un certo punto, però, l’atteggiamento di Plotino rispetto alla divulgazione delle dottrine esoteriche ereditate da Ammonio mutò: Erennio ed Origene infransero il patto di segretezza e così anch’egli iniziò a redigere dei trattati in cui vennero riportati gli insegnamenti più profondi che, fino ad allora, erano stati custoditi e diffusi con discrezione per via orale.


Ad onor del vero, va detto che più che di veri e propri trattati, tali opere erano piuttosto una sorta di appunti riguardanti le lezioni ed i dibattiti tenuti da Plotino.


Egli, inoltre, scriveva di getto e non rileggeva mai i suoi scritti, non curava affatto la prosa, badando soltanto al senso ma non alla forma, aveva una grafia orrenda, non separava in modo adeguato le parole e non di rado commetteva errori di ortografia!


In merito a ciò Porfirio riferisce che: «Quando scriveva qualcosa, Plotino mai vi sarebbe ritornato su; non si rileggeva nemmeno, perché la sua vista era troppo debole per potergli servire anche per la rilettura. Vergava male le lettere, non separava chiaramente le sillabe e non si dava alcun pensiero dell’ortografia. Sua unica preoccupazione era il senso; con grande nostra ammirazione, lui seguitò così per tutto il resto della sua vita. Lui, il suo trattato lo componeva dapprima dentro di sé, poi metteva per iscritto tutto quello che aveva pensato, senza interrompersi, come se stesse copiando da un libro».


Il compito di riprendere, revisionare, correggere ed organizzare in forma sistematica gli appunti di Plotino, fu affidato a Porfirio, il quale, con un poderoso lavoro editoriale, divise gli scritti plotiniani in sei gruppi da nove, ordinandoli a seconda del contenuto, in modo tale che le argomentazioni affrontate procedessero progressivamente dagli aspetti materiali a quelli trascendentali, passando per alcuni livelli intermedi metafisici, volendo così indicare al lettore il percorso di evoluzione spirituale che anche il singolo essere umano avrebbe dovuto compiere: nacquero così le celebri Enneadi (derivato da “ènnea”, che in greco “ἐννέα” significa “nove”) grazie a cui, al passare dei secoli, il sistema di pensiero neoplatonico elaborato da Plotino si è conservato, giungendo fino ai nostri giorni.


Tra le imprese degne di menzione che il più illustre esponente del neoplatonismo tentò di realizzare, non si può evitare di ricordare, per la sua peculiarità, il progetto di Platonopoli: tale era il nome che, secondo la visione di Plotino, avrebbe dovuto avere una nuova città che sarebbe sorta in Campania ed entro cui i cittadini avrebbero vissuto nell’osservanza delle leggi derivate dall’antica sapienza di Platone, realizzando l’unione dell’uomo con il divino.


Forte del sostegno dell'imperatore Gallieno e dell'imperatrice Salonina, Plotino si era convinto che Platonopoli sarebbe potuta venire alla luce ricostruendo un’antica città andata distrutta, alludendo forse addirittura a Pompei o ad Ercolano, ma per una serie di ragioni che non sono ben note, alla fine il progetto naufragò e Platonopoli rimase soltanto una città ideale.


In merito alla personalità del suo maestro, Porfirio riferisce che: «Plotino sembrava uno che si vergogna di essere dentro un corpo; ed in base ad un tale atteggiamento non tollerava di parlare né della propria nascita, nei dei genitori, né della sua patria».


È ben noto, inoltre, l’aneddoto secondo cui Plotino si rifiutò di farsi ritrarre, adducendo la seguente argomentazione: «Non basta trascinare questo simulacro di cui la natura ci ha voluto rivestire? Pretendete addirittura che io consenta a lasciare più durevole immagine di tale simulacro, come se davvero fosse qualcosa che valga la pena di vedere?».


Nell’ultima parte della sua vita, a causa di una malattia, Plotino dovette interrompere le sue lezioni e così, dopo 26 anni d’insegnamento, fu costretto a ritirarsi a vita privata nelle tenuta lasciatagli in eredità dal suo allievo ed amico Zethos.


Secondo Eustochio, cioè l’allievo medico che lo assistette fino al momento del trapasso, Plotino, ormai in punto di morte, mostrò per l’ultima volta la sua immensa saggezza, pronunciando le seguenti parole: «Cercate di ricongiungere il Divino che è in voi stessi al Divino che è nell’universo».

L’Uno

Il concetto fondamentale posto alla base dell’intero impianto filosofico di Plotino, nonché del suo messaggio esoterico-spirituale, è quello dell’Uno.


Secondo il fondatore del neoplatonismo, ciò che rende tale ogni particolare ente è la sua unità, tanto è vero che se cade l’unità, con essa, viene meno anche l’ente.


In particolare, ogni essere, a prescindere dal fatto che esso sia un organismo animale o vegetale, un oggetto come un sasso o una casa, o addirittura un aggregato come un esercito o un gregge, è ciò che è, in quanto è “uno”, ovverosia in quanto esso richiama e rinvia a quella particolare unità, senza cui cesserebbe d’essere ciò che è, dissolvendosi; detto in altri termini, l’unità è quella cosa che determina tutto ciò che esiste, rendendolo ciò che è.


Quindi, per Plotino, che il mondo della natura non si possa neppure pensare senza riferirsi all’unità, è del tutto evidente; così come è chiaro che una simile determinazione di ogni ente, intesa come rinvio all’unità, significhi anche rimandare ad un qualcosa che è distinto, diverso e quindi “altro” da sé.


Se a queste considerazioni si aggiunge il principio secondo cui ciò che è “meno perfetto” deve derivare necessariamente da un qualcosa di “più perfetto” rispetto ad esso, e si applicano le precedenti argomentazioni, non soltanto agli enti, ma anche al mondo intero, si deve concludere che vi sono diversi principi di unità stratificati su vari livelli di realtà, da cui risalendo a ritroso, lungo una ipotetica scala di perfezione, si giunge infine ad un primo principio supremo di unità, da cui deriva ogni altro livello di realtà: l’Uno.


Tale principio, secondo Plotino, è assolutamente trascendente ed è posto al di là di tutte le cose, perfino dell’essere, della sostanza e del pensiero, pur essendo la fonte da cui tutto deriva e che tutto mantiene in essere.


«In virtù dell’Uno» dice Plotino «tutti gli esseri sono quello che sono: infatti, che cosa sarebbe un essere se non fosse uno? […] In ogni cosa c’è un’unità alla quale si deve risalire e tutto si deve ricondurre all’unità che è antecedente, finché di grado in grado si giunge all’Uno assoluto che non ci riconduce ad altro».


Riuscire a rendere l’idea di che cosa egli volesse realmente intendere utilizzando questo termine è un’impresa ardua che tenteremo di portare a compimento nei seguenti paragrafi, senza avere alcuna pretesa di riuscirvi!


Lo stesso Plotino, infatti, precisò che il Principio Supremo non è nominabile e non è definibile con assoluta precisione, se non in senso negativo, vale a dire andando a specificare alcune delle qualità che non gli appartengono.


Perfino il termine “Uno” fu adottato soltanto perché era considerato come il meno inadeguato ad indicare il Principio Supremo ed il suo significato comune aiuta a rimandare alla mente il concetto fondamentale di unità, cioè di causa prima e unica di tutte le cose che, nella sua semplicità, si distingue da tutto ciò che viene “dopo”.


L’Uno è quindi unità, ovvero non-molteplicità, e non può essere identificato né con un qualche genere di realtà particolare esistente, né con la mera somma di tutte queste realtà, giacché il Principio Supremo, in qualità di determinazione diversa ed altra rispetto alla realtà di ciò che è, viene necessariamente “prima” di tutto ciò che esiste e dev’essere considerato distinto da tutto ciò che è.


L’Uno è sì “infinito”, ma non nel senso di una infinitudine spaziale, di tipo fisico, né tanto meno di una illimitatezza quantitativa, di tipo matematico; l’infinito del principio supremo va intenso nella dimensione dell’immateriale, come illimitata e perpetua potenza auto-produttrice e produttrice: «Dire che la natura divina è infinita – essa infatti non è certamente limitata – che cosa può significare, se non che essa non può esaurirsi? Ma se non può esaurirsi, vuol dire che è presente in ogni singola cosa. Infatti, se non potesse essere presente, mancherebbe e allora ci sarebbe un punto nel quale essa non è».


L’Uno è al di là di tutto ma al tempo stesso determina tutto e non può essere definito attribuendogli le determinazioni finite che sono sottostanti e posteriori ad esso.


L’Uno, pertanto, non può essere inteso come Idea, nel senso Platonico, perché i concetti di forma ed essenza implicherebbero la sua finitudine, e non può neanche essere definito in senso Aristotelico come intelligenza autopensantesi, giacché attribuirgli la capacità di pensare significherebbe rompere la sua unità, introducendo il dualismo pensato-pensatore.


Talvolta l’Uno è stato anche definito come Bene, inteso come bene in sé, ovverosia non come un qualcosa che possiede un particolare bene, o che ha il bene, ma che è il bene.


Ma anche questo termine è tutt’altro che soddisfacente e va intenso nel senso ora specificato: «L’Uno non può essere una di quelle cose alle quali è anteriore: perciò non potrai chiamarlo Intelligenza. E nemmeno lo chiamerai Bene, se Bene voglia significare una tra le cose. Ma se Bene indica colui che è prima di tutte le cose, lo si chiami pure così».


Che cos’è dunque l’Uno secondo Plotino?


È una semplice, unitaria, inconsapevole, involontaria, prima, infinita, e per questo inesauribile, forma di pura energia trascendentale auto-creatrice e creatrice, posta al di là di ogni cosa, perfino della sostanza, della forma e del pensiero.

La processione

Pur non essendo cosciente ed operando in modo necessario, secondo la sua natura, senza alcun progetto, intenzione o volontà, l’Uno svolge una funzione di fondamentale importanza: quella di auto-generare se stesso e, nel far ciò, di produrre ogni altro livello di realtà.


Secondo Plotino, infatti, l’Uno esiste, ed è ciò che è, in quanto si auto-pone, e tutto ciò che esiste nella realtà non è altro che una conseguenza di questa attività di auto-generazione.


Esistono dunque due attività svolte dall’Uno: la prima è quella per cui l’Uno è Uno, e fa sì che esso rimanga tale e quale a se stesso; la seconda è quella per cui l’Uno si espande, traboccante di un’infinita energia creatrice, riversandosi in una realtà ad esso inferiore, producendo, in questo modo, un qualcosa che è altro rispetto a sé, senza perdere, a causa di tale efflusso, nulla della sua essenza.


Questa seconda tipologia di processo è detta emanazione ed è paragonata da Plotino, per analogia, all’attività di irraggiamento di un sole che, nel diffondere la sua luce, non intacca in alcun modo la sostanza di cui è composto.


Altre immagini famose, che possono essere utilizzate per far comprendere in modo intuitivo il processo di emanazione, sono quella del calore diffuso da un oggetto perennemente caldo; di una sostanza odorosa che disperde incessantemente il suo profumo; di una sorgente inesauribile che genera fiumi; dell’attività vitale di un albero immortale che, partendo dalle radici, si accresce, pervadendo il tutto.


Ciascuno di questi esempi sta a significare che, compiendo l’atto di emanazione, l’Uno genera senza impoverirsi, ovvero produce un nuovo livello di realtà permanendo uguale a se stesso, giacché la sua energia infinita, pur traboccando, non può esaurirsi ed è dunque sufficiente a conservare se stesso e ad emanare altri livelli di realtà.


Si badi bene che l’emanazione non può essere definita come una creazione, in senso stretto, in quanto quest’ultima è frutto della volontà di un creatore di dare origine a qualcosa di nuovo che non esisteva prima d’esser creata; ma l’Uno, secondo Plotino, non ha alcuna volontà ed inoltre non può esistere da sé, ovvero senza che assieme a lui non esista anche ciò che esso emana.


In tal senso, l’emanazione è un atto atemporale, che ha luogo simultaneamente al di fuori del tempo.


Così come l’Uno, anche i livelli di realtà ad esso inferiori svolgono, a loro volta, due tipologie di attività: l’una volta alla conservazione di se medesimi e l’altra alla emanazione di un altro sottolivello di realtà.


Ma secondo Plotino, il processo di emanazione è inevitabilmente accompagnato anche ad una degradazione; ne consegue che da ogni piano di realtà discende, per emanazione, un nuovo livello ad esso “inferiore” che, a causa del suddetto processo di degradazione, sarà sempre più “imperfetto” rispetto a quelli ad esso precedenti.


In particolare, siccome ciò che è emanato è, in qualche misura, “inferiore” rispetto a ciò che lo ha emanato, ciò che emana dall’Uno non avrà né la sua perfezione né la sua unità, ma procederà, di emanazione in emanazione, sempre più verso l’imperfezione e la molteplicità.


Secondo Plotino, dunque, mentre l’essere umano produce nuove cose assemblando altri enti già esistenti, la natura opera all’esatto opposto, procedendo dall’unità alla dualità e dalla dualità alla molteplicità; allo stesso modo, l’universale intellegibile discende verso l’individuale sensibile, diminuendo la sua comprensione della realtà, allontanandosi sempre più dal Principio Supremo.


Dall’Uno, per emanazioni successive, viene così a delinearsi una realtà stratificata su vari livelli, via via “inferiori”, che viene paragonata da Plotino ad una successione di circonferenze concentriche, in cui il cerchio più interno emana quello di un livello più esterno rispetto ad esso.


Più precisamente, l’Uno emana lo Spirito, vale a dire la realtà spirituale, in cui risiedono l’Intelletto e le Idee; il regno dello Spirito, a sua volta, emana l’Anima, ossia la realtà animica, popolata da un’anima superiore o suprema, un’anima collettiva universale (l’Anima Mundi) e dalle anime individuali; ed infine, come margine estremo ed ultimo della realtà vi è il regno fisico materiale, inteso come assenza dell’Uno.


Ciascuna di queste diverse dimensioni della realtà, gerarchicamente generate, per emanazioni successive, ed appartenenti alla stessa sostanza divina, è detta ipostasi (dal greco “hypòstasis”, composto da “hypò”, «sotto», e “stàsis”, «stare», con il significato di «essere sussistente» o anche «sostanza»).


Il processo di emanazioni successive che, partendo dall’Uno giunge fino al livello più estremo ed imperfetto della realtà, vale a dire quello materiale, passando per i regni dello Spirito e dell’Anima, è altresì noto come processione.

Lo Spirito

Se si assume che la realtà suprema trascendentale sia la prima ipostasi, allora il regno dello Spirito, definito da Plotino come Nous (un termine greco antico che sta ad indicare l’attività mentale, ovvero l’intelletto), è da considerarsi come prima tappa della processione che va dall’Uno alla Materia, nonché come seconda ipostasi della realtà cosmica universale.


La genesi del Nous è qui di seguito sintetizzata: ciò che emana dell’attività dell’Uno fornisce la “sostanza” di cui questo livello di realtà è composto, ma tale “sostanza” non è altro che una sorta di energia informe il cui legame con l’Uno fa sì che essa si volga verso il livello di realtà superiore per “contemplarlo”.


L’originaria unità dell’Uno viene così spezzata, dando luogo al dualismo pensato-pensatore che caratterizza l’attività propria del regno spirituale: il pensiero.


Nel livello di realtà emanato, vi sono ora un soggetto contemplante e un oggetto contemplato ed è a questo punto che lo Spirito, riempito e fecondato dall’emanazione e dalla contemplazione dell’Uno, si volge verso se stesso per auto-contemplarsi: «L’atto di pensare non è primo né nell’ordine ontologico né in dignità, ma ha il secondo posto, e si produce perché il Bene lo fa esistere e, una volta generato, lo attrae a sé: e così il pensiero è mosso e vede. Pensare vuol dire muoversi verso il Bene e desiderarlo».


Hanno così origine, come pensiero di pensiero, tutte le idee concepibili che andranno a popolare il livello spirituale della realtà.


Le Idee, in quanto tali, non sono soltanto frutto del pensiero, ma sono esse stesse pensiero; in questo modo il regno dello spirito diviene la sede delle idee platoniche.


Sicché, mentre l’Uno può essere considerato come l’energia al di là di ogni cosa in grado di generare, in potenza, tutte le cose, lo Spirito è, al tempo stesso, intelligenza, che pensa la totalità degli intellegibili, ed esplicazione ideale di tutte le cose che sono.


Il Nous di Plotino, dunque, è intelligenza (intesa in senso aristotelico) che contiene entro di sé il mondo platonico delle idee, ed è costituito da pensieri e forme.


In qualità di pensiero supremo e di supremo pensato, quello dello Spirito può essere considerato come il regno dell’essere per eccellenza, nonché, se si considera la bellezza come forma ideale, il mondo della pura bellezza.


Ma affinché il Nous possa generare e reggere il mondo materiale è necessario che prima lo Spirito emani l’Anima.


Anche questo nuovo livello di realtà è generato, in modo involontario, in seguito ad una esuberanza energetica legata all’attività di auto-pensiero esercitata del regno spirituale.


Si comprende quindi il motivo per cui il Nous di Plotino non può essere assimilato al demiurgo di Platone, giacché quest’ultimo, a differenza dello Spirito, opera in vista di un fine.

L’Anima

Il regno dell’Anima costituisce la seconda tappa della processione che va dall’Uno alla Materia, nonché la terza, ed ultima, ipostasi della realtà concepita da Plotino.


Così come lo Spirito deriva dall’Uno, anche il livello animico deriva, per emanazione, da quello spirituale, secondo una dinamica analoga a quella già illustrata.


L’energia che trabocca dal regno spirituale si riversa in un nuovo livello di realtà, quello dell’Anima, fornendo la “sostanza” di cui esso è composto; tale “sostanza” si rivolge allo Spirito e, attraverso di esso, scorge l’Uno.


Ciò fa sì che il regno animico tragga la propria sussistenza e l’Anima cominci ad operare secondo la sua natura, guardando in primo luogo a se stessa e poi a ciò che viene dopo di lei.


Se l’attività propria dello Spirito è data dal pensiero, quella dell’Anima, invece, consiste nel vivificare tutte le cose.


Così come il regno spirituale, a causa della sua natura specifica, origina le idee, il regno animico dà vita, ordina e governa, ovverosia genera, fa vivere e regge, tutte le cose sensibili che sono costituite da “materia”.


L’Anima, dunque, è essa stessa movimento, nonché principio di movimento, e può anche essere intesa come l’insieme delle forze vitali che reggono il mondo.


Questa triplice attività svolta dal livello di realtà animico, grazie a cui esso trae la propria sussistenza, si conserva uguale a se stesso, pur generando e vivificando il mondo materiale sensibile, si riflette nelle tre tipologie di anime che popolano il regno dell’Anima, dando luogo ad una sorta di gerarchia.


In primo luogo, secondo Plotino, vi è l’Anima Suprema, intesa come pura ipostasi generata dal trabocco di energia del livello di realtà spirituale; ella è rivolta allo Spirito da cui proviene e mantiene con esso un rapporto più stretto rispetto alle altre tipologie di anime;


in secondo luogo, vi è l’Anima Universale, ovvero l’anima del tutto, anche nota come Anima Mundi (cioè l’anima del mondo), definita in questo modo in quanto responsabile della generazione e dell’ordine della natura, ovverosia dell’universo e del mondo fisico;


ed infine, vi sono le singole anime individualizzate particolari, il cui compito consiste nel vivificare tutte le cose sensibili, ivi inclusi piante, animali, esseri umani ma anche oggetti, montagne, pianeti, stelle... e così via.


Tutte queste tipologie di anime derivano dall’Anima Suprema e continuano a far parte di essa, pur avendo una loro individualità; in tal senso l’Anima è, allo stesso tempo, “una e molteplice”, “divisa e indivisa”, potendosi distinguere senza separarsi, mentre invece il Principio Supremo è soltanto “uno” ed i corpi sono solo “molti”.


L’azione specifica dell’Anima, che veicola le idee negli elementi del mondo sensibile, fa sì che queste ultime non siano concepite soltanto come un qualcosa di trascendente, ma anche di immanente rispetto al mondo.

La materia

La trinità formata dall’Uno, dallo Spirito e dall’Anima, ovvero dal Principio Supremo trascendentale, dal regno spirituale e da quello animico, costituisce il mondo intellegibile.


L’Anima è posta al “confine” con l’universo fisico, cioè con il mondo sensibile e corporeo.


Nel precedente capitolo abbiamo anticipato come, secondo Plotino, la natura ed il suo ordine scaturiscano dall’azione di produzione delle forme che è propria dell’Anima; ma affinché ciò possa compiersi, serve un’altra “sostanza” sulla quale l’Anima andrà ad operare, plasmando e vivificando le cose del mondo: la materia.


A differenza di altri pensatori, nella sue spiegazioni sull’origine del cosmo, Plotino non postula l’esistenza della materia, considerandola come un qualcosa di auto-evidente, ma ne deduce logicamente l’esistenza.


Siccome nel processo di emanazione ogni passo in “basso”, verso una realtà di livello inferiore, comporta anche una certa degradazione dell’energia originaria fuoriuscita dall’Uno, ad un certo punto si dovrà verificare, per forza di cose, un “esaurimento” di tale forza, progressivamente “dissipata” nella generazione e nella conservazione delle varie ipostasi, al pari d’un raggio di sole che si allontana via via sempre più nelle tenebre.


La materia sensibile, dunque, non è altro che il prodotto ultimo di questo processo di degradazione, indebolimento e dissipazione dell’energia produttrice traboccata dal Principio Supremo; la materia è oscurità che si manifesta laddove non vi è più luce, essa scaturisce proprio dall’assenza dell’Uno.


In tal senso, la materia è posta all’estremo inferiore dei livelli di realtà ed è anche considerata come “non-essere”, in quanto «è diversa dall’essere e giace al disotto di lui», nonché come privazione del Bene.


Di conseguenza la materia rappresenta anche il “male”, da non intendersi come forza malvagia che si oppone al “positivo”, operando per perseguire ciò che è “negativo”, bensì come semplice privazione, o assenza, del “positivo”.


Il motivo della mancanza del Bene nel livello materiale è ricondotto alla degradazione associata al processo di auto-contemplazione da cui ha origine la materia.


Quest’ultima, secondo Plotino, non è generata dall’attività dall’Anima Suprema, la quale è rivolta al Regno Spirituale e, attraverso di lui, all’Uno, ma dall’Anima Universale, la cui contemplazione, se analizzata da un punto di vista qualitativo, è del tutto omogenea a quella dell’anima ad essa superiore.


Ma siccome a differenza di quest’ultima, l’Anima Universale non è rivolta ai regni superiori, bensì a se stessa, ne consegue che, da un punto di vista quantitativo, la contemplazione da cui proviene la materia risulti illanguidita ed indebolita, rispetto a quella dell’Anima Suprema, così tanto da far sì che la sua forza svanisca.


Ed è proprio a causa di questa degradazione terminale che la materia è priva dell’energia necessaria per rivolgersi verso chi l’ha generata e dunque, a maggior ragione, è incapace di contemplare i regni superiori, ancor più “vicini” e partecipi dell’Uno-Bene.


Essendo ormai del tutto priva anche d’ogni residuo dell’energia traboccata dal Principio Supremo, la materia, di per sé, è anche inanimata e non può in alcun modo emanare un ulteriore livello di realtà ad esso inferiore.


Il mondo sensibile, quindi, è come l’estremità di una sfera di luce la cui intensità si è affievolita a tal punto da divenire oscurità, e non può esservi null’altro al di là del livello materiale; esso risulta confinato entro il regno animico, costituendone una sorta di limite interno caratterizzato dall’assenza di “essere” e di “Bene”.


Per questo motivo, nella concezione di Plotino, è la materia ad essere contenuta nell’Anima, o più precisamente nel regno animico, e non l’Anima ad essere contenuta nella materia.


Il compito di ordinare, vivificare, sorregge ed informare la materia, mantenendola agganciata ai livelli di realtà superiori, è svolto sempre dall’Anima; dopo che l’Anima Universale ha posto la materia, infatti, le anime particolari individuali si adoperano a conferirle una molteplicità di forme, popolando ed animando la realtà fisica, quasi a volerla recuperare dall’oscurità, per riportarla alla luce dell’Uno, infondendo in essa la sua energia.


Questo significa che, secondo Plotino, ogni singola cosa del mondo sensibile, a prescindere che sia un corpo animato o inanimato, un vegetale, un animale o un essere umano, è dotato di vita, anche quando ciò sfugge ai nostri sensi.


Ma le singole anime, pur avendo una loro individualità, fanno anche parte dell’Anima Mundi; di conseguenza, l’Anima, dando origine a tutte le cose del mondo, infonde in esse un senso di unità e simpatia universali, giacché queste ultime, avendo sia un’anima particolare propria che un’anima universale in comune, si richiamano l’una con l’altra, come fossero le parti d’un unico organismo.


La natura è dunque dominata dall’Anima ed è il risultato ottenuto da quest’ultima sulla materia operando in base alle idee contemplate nel mondo spirituale; di più: il cosmo fisico è la più bella immagine del modello originale ideale e, pur essendo una copia che imita il modello, e non di certo il modello in sé, risulta comunque perfetto.


«L’universo è stretto dai legami delle forme da cima a fondo», dice Plotino, e siccome anche la materia è una forma, seppur di infima fattura, allora anche tutte le cose dell’universo sono forma, perché i modelli erano già forme.


La vera realtà dunque, secondo Plotino, è interamente metafisica, giacché il mondo fisico è una sorta di riflesso delle idee del regno spirituale prodotto dallo specchiarsi in esse del regno animico.


Questo significa che, al di là dell’Uno, tutto è forma e, al tempo stesso, tutto è logos, ovverosia ciò che esiste è prodotto e retto dalla ragione universale, e dunque è perfezione: «L’universo è un vivente unitario che, come tale, deve necessariamente trovarsi in simpatia con se stesso e anche il ritmo della sua vita deve essere tutto in accordo con il piano razionale e con se stesso; non esiste casualità nella sua vita, ma un’unica armonia e ordinamento».


Per rendersi conto di questa perfezione bisogna guardare al tutto nella giusta ottica, essendo capaci di assegnare ad ogni singola cosa il suo posto e la sua specifica funzione, collocando gli specifici ruoli entro un disegno complessivo, anche quando la realtà appare imperfetta e cattiva.


È soltanto in questo modo che si può riuscire a comprendere come perfino la materia, pur essendo intesa come assenza di Bene, finisca per svolgere una funzione utile al tutto, portando con sé delle conseguenze positive per l’essere umano.


Come avremo modo di vedere nel prossimo capitolo, nel sistema di Plotino anche il male, intenso come inevitabile e necessaria manifestazione dovuta alla privazione dell’Uno, ha una sua ragion d’essere, consentendo agli individui di espiare la loro “colpa”.


E sebbene il livello materiale, in cui l’essere umano è costretto dalla necessità a compiere le sue esperienze di vita, sia il luogo delle illusioni sensibili e delle imperfezioni, dato che la materia, intesa come non-essere, assenza di Bene, nonché come la più infima delle forme, è quanto di più lontano ci sia dall’Uno, e nonostante anche il corpo, secondo Plotino, è forma e, di conseguenza, il moto non può essere altro se non un gioco di forme, non bisogna dimenticare che, a sua volta, la forma è agganciata alle Idee del regno spirituale, ed esse, a loro volta, sono agganciate al Principio Supremo.


La bellezza, la bontà e la perfezione, insiti nell’ordine del mondo materiale e nel destino dell’essere umano, sono quindi assicurati dall’opera dell’Anima, la quale è ispirata dallo Spirito e, di riflesso, dall’Uno; del resto, ogni livello di realtà del mondo sovrasensibile, da cui discende ed è governato il cosmo fisico, sensibile ed illusorio, esiste per l’Uno e guarda all’Uno, ovvero al Principio Supremo, nonché al Bene.


Assolutamente degna di menzione, in virtù della sua originalità e della sua bellezza, è la spiegazione data da Plotino in merito all’origine del tempo.


Quest’ultimo, in estrema sintesi, nasce con il passaggio dal mondo intellegibile, eterno ed atemporale, al mondo sensibile, ove invece vi è temporalità.


Secondo Plotino, infatti, anche l’Anima, così come lo Spirito e l’Uno, è al di là del tempo, ovvero non è soggetta al divenire e coglie l’essere nella sua totalità in modo simultaneo; ma volendo trasferire in un qualcosa di diverso la visione delle idee del mondo spirituale, l’Anima Universale ha generato il mondo fisico “uscendo” dall’unità, avanzando e distendendosi in un prolungamento che contiene una serie di atti.


In questo modo, la copia di ciò che nello spirito è eterno e simultaneo, è venuta a disporsi secondo una certa successione di eventi che si susseguono l’uno l’altro: nasce così un prima e un poi, un ordine (temporale) e, con essi, il tempo.


Secondo questa concezione, dunque, il trascorrere del tempo nel mondo fisico è un susseguirsi di eventi generati, come un gioco di specchi, dall’azione dell’anima che riflette e pone, secondo una successione ordinata, delle copie di ciò che, nel regno dello spirito, è eterno e simultaneo e, in quanto tale, è sempre esistito, è, ed esisterà, tutto concentrato in un solo istante.


Si può quindi sostenere che, in virtù della sua molteplice natura, sebbene l’Anima sia al di là del tempo, ponendo in essere il mondo fisico, ella operi anche nella temporalità, in particolar modo nel ruolo di anima individuale.

L’essere umano

Tra tutte le idee plasmate e vivificate dall’Anima, una in particolare fa esperienza della temporalità nel mondo sensibile: quella dell’essere umano.


Secondo Plotino, gli umani non vengono in essere nel momento in cui l’Anima Mundi genera la realtà fisica; essi preesistono nel regno animico in qualità di anime pure individualizzate che poi si incarnano per effettuare delle esperienze di vita terrena nel mondo materico: «Anche prima che avvenisse questo nostro nascimento noi dimoravamo lassù: eravamo uomini individualmente determinati e anche dei, anime pure».


Il vero essere umano, per Plotino, è dunque essenzialmente un’anima, o meglio Anima individualizzata; di conseguenza, tutto ciò che l’individuo può compiere in seno al mondo sensibile viene ricondotto all’anima e spiegato attraverso di essa: il movimento è dovuto alla proprietà dell’anima di essere in grado di agire; la sensazione è un atto conoscitivo dell’anima; la memoria, i sentimenti, le passioni, la volizione, sono possibili in quanto costituiscono attività proprie dell’anima... e così via.


In particolare, la sensazione è dovuta alla capacità dell’anima di riconosce nelle impressioni sensoriali corporee un’orma delle forme intellegibili che popolano il regno dello spirito; ciò è possibile in quanto le anime, pur essendosi individualizzate, fanno pur sempre parte dell’Anima, ovvero partecipano anche dell’Anima Superiore, la quale è rivolta allo Spirito.


Ed è proprio in virtù di questa connessione fra le anime “inferiori” e quella superiore, e di quest’ultima con le idee spirituali, che gli esseri umani hanno percezione di ciò che è intellegibile cogliendo le forme sensibili; per questi motivi, la sensazione può essere intesa come una forma di contemplazione dell’intellegibile nel sensibile.


Per quanto riguarda l’escatologia, vale a dire la dottrina riguardante il destino ultimo dell’uomo, Plotino riprende e ricala, nei suoi punti essenziali, le tesi di Platone che ancor prima furono di Empedocle e Pitagora, i quali si ispirarono al credo degli antichi culti Orfici: «[...] l’anima, benché sia un essere divino e venga dagli spazi superiori, discende all’interno del corpo; essa, che è l’ultima entità divina, con inclinazione spontanea viene quaggiù per esercitare la sua potenza e porre ordine in ciò che si trova dopo di essa; e se poi riesce a fuggire al più presto, non riceve alcun danno per aver sperimentato il male e aver conosciuto la natura del vizio».


E ancora, in un altro passo delle Enneadi, si può leggere: «È una credenza universalmente ammessa che l’anima che ha commesso peccati li espia subendo una punizione nel mondo invisibile e poi passa in nuovi corpi».


Plotino dunque era un sostenitore della metempsicosi (dal greco “μετεμψύχωσις”, composto da “μετά” che indica il trasferimento, “ἐν” che significa “dentro” e “ψυχή” “anima”), vale a dire della dottrina della reincarnazione delle anime, da lui ridefinita con il termine, da alcuni giudicato più appropriato, di metensomatosi (dal termine greco “σῶμα”, ovvero “sôma”, che significa “corpo”).


Una volta generatesi in seno al regno animico, le anime individualizzate s’incarnano, per la prima volta, nel regno materico per una necessità ontologica: esse non possono sottrarsi al loro compito e così discendono nella materia per far sì che l’universo attui tutte le sue potenzialità.


Ma sebbene questa prima incarnazione sia ineluttabile e, in un certo senso, involontaria, non potendo le anime individualizzate far altro se non seguire la loro natura caratterizzata dalla voglia di appartenersi e ritirarsi nell’individualità dei singoli corpi materiali, Plotino sostiene che sarebbe stato meglio se tale discesa non fosse avvenuta, al punto da associarla ad una sorta di “colpa” originaria, il cui castigo consiste esattamente nella dolorosa esperienza della vita terrena: «Il castigo della prima colpa è il fatto stesso di discendere».


Così facendo, infatti, le anime incarnate si pongono alla massima distanza dall’Uno; discendendo nei corpi materici esse si allontanano al massimo grado dal Bene, in quanto la materia è assenza di Uno, ovvero mancanza di Bene.


Cadute nelle illusioni del mondo materiale, le anime iniziano a mettersi al servizio delle cose esteriori, prendendosi cura del loro corpo e delle cose materiali, rischiando così di smarrirsi, dimenticando se stesse e la loro vera natura.


È così che che le anime restano “intrappolate” nel ciclo di morte e rinascita dovuto alla reincarnazione, fin quando, con un atto di volontà, esse non riescono a riconoscere ed a liberarsi dalla loro vera “colpa”, ovverosia da ogni forma di attaccamento rispetto alle illusioni del mondo materico caratterizzato dalla molteplicità, ed in forza di ciò tentano di ricongiungersi all’Uno, riconoscendo l’unità del Tutto.


Secondo Plotino, le sofferenze, gli inconvenienti e gli orrori del mondo, sono dovuti all’affievolimento della luce traboccata dal Principio Supremo, ormai degradatasi in massimo grado a causa dei successivi processi di emanazione; per affrancarsi dalla miserabile condizione terrena e dai suoi mali, espiando le proprie “colpe”, l’essere umano deve elevarsi al di sopra del regno materiale.


Il destino ultimo dell’anima umana, dunque, consiste nello spezzare il ciclo della reincarnazione, ri-acquisendo coscienza della propria vera natura, al fine di ri-avvicinarsi ed infine ri-tornare a fondersi con l’Uno.


Pur essendo caduto nel regno materiale, all’essere umano è offerta, attraverso un percorso di ascesi, la possibilità di risalire i livelli di realtà superiori, fino a ricongiungersi al Principio Supremo.


Fra tutte le creature viventi, infatti, egli è l’unico che può invertire il percorso compiuto durante la processione, risollevandosi dalla materia ai regni superiori, per giungere infine all’Uno.


Le vie che possono essere intraprese per compiere questo ritorno sono molteplici, ma hanno sempre un carattere introspettivo e conoscitivo; l’ascesi non può compiersi dedicandosi alle attività pratiche ed all’agire esteriore, bensì esercitando la virtù, il pensiero e la contemplazione.


L’anima per liberarsi deve tendere all’immaterialità; la sua più alta attività consiste nell’esercizio della libertà, che, secondo Plotino, coincide con la volizione del Bene, cioè dell’Uno.


Attraverso il processo di ascesi, l’essere umano può riconoscere la propria vera natura animica, trascendere i propri limiti corporei terreni, distaccarsi dalla molteplicità materiale, oltrepassare l’illusione della separazione, elevarsi ai regni superiori, superare ogni forma di dualismo soggetto-oggetto ed, infine, ricongiungersi all’Uno e lasciarsi compenetrare interamente da esso, sperimentando così uno stato mistico di estasi (dal greco “ἔκστασις”, composto da “ἐκ” + “στάσις”, ovvero “ex + stasis”, col significato di «essere fuori»).


Mediante il concetto di estasi viene così a definirsi, nella concezione filosofica di Plotino, una sorta di circolo chiuso, in cui, attraverso la processione, dall’Uno si giunge all’anima umana, discendendo per i regni dello Spirito e dell’Anima, e poi l’anima umana, se ne ha volontà, attraverso la contemplazione, può far ritorno all’Uno, elevandosi e trascendendo i regni intermedi dell’Anima e dello Spirito.


Sebbene sia difficile da realizzare, questa peculiare esperienza mistica di iper-coscienza, in cui l’anima individuale si ricongiunge pienamente all’Uno, può essere sperimentata, con la giusta dedizione, per dei brevi periodi di tempo, anche nel corso dell’esistenza materiale e non soltanto al termine del ciclo delle reincarnazioni.


Si sappia però che, secondo Porfirio, nei sei anni in cui egli fu a stretto contatto col suo maestro, Plotino raggiunse l’estasi non più di quattro volte.


Ciò non deve stupire più di tanto, giacché soltanto le anime dei sapienti possono portare a termine una simile impresa.


La maggior parte degli esseri umani, invece, è cieca alla luce e per questo resta intrappolata nel doloroso meccanismo di nascita e morte, fin quando non riesce a comprendere quale sia il vero scopo della vita ed a espiare le sue “colpe”.


Viene così a delinearsi un vero e proprio percorso iniziatico di piena realizzazione di sé, che l’iniziato dovrà percorrere con volontà, consapevolezza e dedizione, se vorrà raggiungere la meta della liberazione.


Lungo il suo cammino, l’iniziato opererà su di sé una catarsi, cioè una purificazione, finalizzata alla liberazione dell’individuo dalle “catene” illusorie del mondo materiale che gli impediscono di elevarsi al di sopra di esso per riconoscere ed infine ricongiungersi all’Uno.


Avvalendosi di alcune immagini suggestive, Plotino sosteneva che la catarsi dell’iniziato è simile all’azione dello scultore che, lavorando su un blocco di marmo, elimina tutto il superfluo per trarne fuori una statua; alla ricerca del silenzio effettuata da parte di chi vuole ascoltare soltanto la voce desiderata, senza che essa sia disturbata da rumori profani; all’impresa solitaria compiuta da un uomo che intende fuggire da una terra straniera per far ritorno nella patria originaria.


Il primo passo da compiere per elevarsi al di sopra del regno materico ed avviare il percorso di ascesi, consiste nel ritorno a se stessi.


Dice Plotino che: «Il Saggio trae da se stesso ciò che rivela agli altri e guarda a se stesso» non soltanto «perché tende a unificarsi e a isolarsi dalle cose esterne» ma soprattutto perché rivolgendosi a se stesso «trova in sé tutte le cose».


Ed è proprio grazie all’introspezione che il saggio può espandere la sua coscienza, fino a cogliere le verità più profonde, nonché il principio stesso di tali verità, ovverosia l’Uno.


Non v’è dunque alcun bisogno di uscire al di fuori di sé per trovare la verità; per questo motivo il saggio è autosufficiente.


Siccome le tappe del processo di ascesi, coincidono con quelle di una progressiva interiorizzazione dell’essere umano, il secondo passo da compiere per elevarsi all’Uno consiste nel cercare di liberarsi da ogni forma di dipendenza rispetto alla materialità e di rapporto con l’esteriorità corporea.


In tal senso Plotino afferma che il dovere dell’essere umano consiste nel sottrarsi, per quanto possibile, ai legami corporei mediante l’esercizio delle virtù, e che queste ultime siano delle vere e proprie vie di purificazione, in quanto consentono di liberarsi dall’esteriorità.


Ad esempio, grazie all’intelligenza ed alla sapienza, l’anima può operare autonomamente, senza che intervengano i sensi corporei; la liberazione dalle passioni può essere ottenuta mediante la temperanza; per non temere la separazione dal corpo, c’è bisogno del coraggio; la giustizia, invece, fa sì che l’anima risponda soltanto alla ragione... e così via.


Oltre all’esercizio delle virtù, Plotino suggerisce delle ulteriori vie che consentono alle anime incarnate di elevarsi e continuare lungo il cammino di purificazione che le ricondurrà all’Uno, esse sono: la musica, l’amore, l’arte e la filosofia.


Ascoltando la musica l’essere umano può andare oltre i suoni sensibili, scorgendo in essa la bellezza data dall’armonia dei suoni.


Provando un sentimento d’amore, l’essere umano può avvicinarsi all’Uno, passando dalla contemplazione dei corpi materiali a quella delle forme spirituali, riconoscendo nelle idee l’origine della vera bellezza delle cose.


Difatti tanto più una cosa si avvicina all’Uno tanto più è bella; per questo una statua è più bella di un blocco di marmo, un corpo vivo è più bello di una statua, e la forma immateriale ideale d’un corpo vivo è ancora più bella d’un corpo vivo, giacché più le cose si avvicinano alla perfezione, ovvero all’Uno, più in esse risplende la vera bellezza.


Per lo stesso motivo, secondo Plotino, la materia che compone un’opera d’arte, non è bella di per sé, bensì in quanto in essa traspare l’Uno.


L’artista quando realizza un’opera non si limita soltanto ad imitare la natura; egli si innalza nei regni superiori e, dopo aver scorto in essi la bellezza di una forma ideale, tenta di trasportarla nel mondo materiale, rappresentandola.


Plotino corregge quindi il giudizio negativo dato da Platone nei confronti dell’arte, da lui intesa come imitazione di imitazione, sostenendo che essa rappresenti una delle vie in grado di riavvicinare l’essere umano all’Uno.


Non tutti però sono in grado di vedere al di là dell’aspetto esteriore: «L’occhio non vedrebbe mai il sole se non fosse già simile al sole, né un’anima vedrebbe il bello se non fosse bella. Ognuno diventi dunque anzitutto deiforme e bello, se vuole contemplare l’Uno e la Bellezza».


Sicché colui che è in grado di scorgere la vera bellezza insista nelle opere d’arte, sa già di aver compiuto un passo in avanti nel suo percorso di ascesi.


Musica, amore ed arte, nel loro significato spirituale più profondo, hanno tutte a che fare con la bellezza. E quest’ultima è intesa da Plotino, non come una mera manifestazione esteriore di ordine, simmetria e armonia delle cose del mondo sensibile, bensì come una traccia dell’Uno, che si manifesta nella materia attraverso una rappresentazione di una forma ideale del regno spirituale.


Per questo motivo, l’essere umano, quando scorge la bellezza riflessa nei corpi, è spinto a cercare la sua origine nei mondi superiori e dunque l’eros, inteso come un sentimento d’amore, è un fuoco mistico puramente ascensivo che fa sì che l’individuo sia attratto dal bello.


Ma per scorgere nell’Uno l’autentica sorgente della bellezza, l’essere umano deve compiere un ulteriore passo, cercando di elevarsi al di là della bellezza stessa ricorrendo alla filosofia.


In particolare, dopo aver utilizzato la dialettica per cogliere l’esistenza del Principio Supremo di unità della realtà, il saggio dovrà riconoscere l’esigenza di negare la dialettica stessa, in quanto l’estasi non può essere raggiunta né con i concetti né col pensiero, essendo uno stato mistico sovra-razionale, in cui l’anima individuale si trova al di fuori di sé ed al di là della ragione.


Oltre alle vie date dall’esercizio delle virtù, dalla triade musica-amore-arte, accomunate dalla ricerca dell’autentica bellezza, e dal metodo filosofico-dialettico, Plotino aggiunge un quarto ed ultimo metodo per ricongiungersi all’Uno: quello della semplificazione.


Lo scopo di questa via consiste nel superamento dell’illusione della molteplicità attuato mediante un processo di semplificazione della realtà, in cui tutti gli elementi particolari e contingenti vengono dissolti.


«Spogliati di tutto», dice Plotino, attraverso l’eliminazione delle differenziazioni e delle alterità, infatti, l’anima umana può elevarsi ai regni superiori, allontanandosi dal mondo sensibile e ritrovando se stessa, per poi continuare il suo percorso di elevazione verso l’Uno spogliandosi della propria parte affettiva, del linguaggio e addirittura della ragione, per immergersi e lasciarsi compenetrare dal Principio Supremo: «Tu accresci dunque te stesso, dopo aver gettato via il resto, e ti si fa presente, dopo tale rinunzia, il Tutto».


L’essere umano, infatti, non riuscirebbe mai a cogliere l’Uno con l’intelletto, giacché se utilizzasse il pensiero egli resterebbe intrappolato nel dualismo pensato-pensatore, mentre invece il Principio Supremo è caratterizzato da un’unità assoluta; né potrebbe ricongiungersi all’Uno attraverso una visione, bensì con un processo fatto di quiete, dedizione, spoliazione, semplificazione, contemplazione ed, infine, completa congiunzione.


Ma per compiere l’ultimo passo verso l’estasi mistica, l’anima umana deve essere disposta a fuoriuscire da sé, attraverso uno slancio di puro amore provato nei confronti dell’Uno: «Questa è la vita degli dei e degli uomini divini e beati: liberazione dalle cose di quaggiù, vita sciolta dai legami corporei, fuga del solo verso il Solo».


Contrariamente a quanto sostenuto dalla teologia cristiana, secondo cui Dio fa dono di sé e delle sue creazioni all’uomo, Secondo Plotino l’estasi, e la liberazione dal ciclo terreno di nascita e morte, non rappresentano un dono elargito da una divinità, ma piuttosto una conquista individuale, in quanto sono gli stessi esseri umani che, in virtù della loro natura, dispongono del potere e delle capacità per recidere i vincoli materiali, elevarsi nei regni superiori ed, infine, ricongiungersi con l’Uno.


La salvezza, dunque, non è negata a nessuno, purché la si voglia veramente ottenere, ed il suo compimento non dipende dal giudizio o dal potere di una qualche divinità, ma esclusivamente dalla volontà dell’individuo.


«Fuggiamo dunque verso la nostra cara patria», dice Plotino, «questo è il consiglio più vero che si può raccomandare», precisando che: «L'insegnamento giunge solo a indicare la via e il viaggio; ma la visione sarà di colui che avrà voluto vedere».


Porfirio


Porfirio di Tiro (Tiro, 233-234 – Roma, 305 circa) fu un filosofo, poeta, teologo e Ierofante greco antico di origine fenicia, considerato uno dei più illustri esponenti della dottrina neoplatonica.

La vita

Della vita di Porfirio si sa ben poco; venuto alla luce in prossimità di Tiro, una città facente parte dell’antica provincia romana di Siria, i suoi genitori gli assegnarono il nome Malco che, tradotto dal fenicio, significa “Re”.


In giovane età si trasferì ad Atene, ove si formò alla scuola di Cassio Longino, un retore e filosofo greco antico soprannominato, in virtù della sua erudizione, la «biblioteca vivente» o anche il «museo che cammina».


Sotto la guida di Cassio, il giovane Malco maturò a suon di lezioni di filosofia, critica letteraria, ma anche di retorica e grammatica, spiccando tra tutti per capacità e talento.


Oltre all’amore per l’erudizione, per merito del suo primo maestro egli acquisì anche il soprannome di Porfirio (latinizzato in Porphyrius): un nome derivato dal greco antico Porphýrios (Πορφύριος), a sua volta tratto dal termine porphyra (πορφυρα, cioè “porpora”) che significa letteralmente “purpureo” (o anche “rosso come la porpora”), che secondo alcuni gli venne attribuito, con bivalenza di significato, sia per la regalità del portamento della porpora regia imperiale che pare fosse solito indossare, che con riferimento alla porpora, ovvero al colorante secreto da alcuni molluschi di cui la sua patria natia era ricchissima.


Giunto all’età di trent’anni, il filosofo di Tiro si trasferì a Roma dove, grazie alle sue capacità letterario-dialettiche, alla sua conoscenza erudita ed ai suoi modi regali, ebbe modo di frequentare gli ambienti senatoriali e di essere introdotto nel circolo iniziatico di Plotino, il quale, negli anni a seguire, sarebbe divenuto per lui ben più che un maestro, determinando la propria maturazione filosofica in modo assai più profondo rispetto a quanto non avesse già fatto il retore Cassio Longino.


Plotino, del resto, non mancò di cogliere l’immenso potenziale di Porfirio e lo pose sotto la sua ala per farlo maturare, fin quando la stima che egli nutriva nei confronti del suo discepolo non crebbe a tal punto da affidargli il compito di organizzare in forma sistematica gli appunti delle lezioni in cui egli aveva annotato le conoscenze esoteriche-iniziatiche che, fino ad allora, erano state elargite per via orale, nel rispetto d’un vecchio patto stabilito con il suo maestro Ammonio.


Se fosse dipeso dalla sua volontà, Porfirio non si sarebbe mai separato da Plotino, e gli sarebbe restato vicino fin quando la sua anima non si fosse disincarnata, ma ad un certo punto, per ragioni che non sono ben note, egli cadde in una depressione così profonda da prendere in considerazione il suicidio.


Fu così che, nel 268, il suo maestro, ben consapevole della malinconia di Porfirio, gli suggerì come cura di recarsi in viaggio in Sicilia, per ritrovare se stesso e la gioia di vivere.


Tale consiglio, a cui Porfirio obbedì, favorì effettivamente la sua guarigione ma, come egli stesso ammise, gli costò la separazione dal suo maestro, del quale apprese la morte due anni più tardi, mentre ancora si trovava lontano da lui.


È noto anche che, in tarda età, Porfirio sposò un’anziana vedova, nonché madre di sette figlie, di nome Marcella, della quale apprezzò, non di certo l’aspetto esteriore, bensì l’intelligenza e la cultura, ed alla quale dedicò una celebre epistola, scritta nel corso di un viaggio ed intitolata Lettera a Marcella, in cui il filosofo di Tiro delineava le sue opinioni teologiche e filosofiche esortando la propria compagna a cercare conforto in esse.


Essendo riuscito, a suo dire, a raggiungere l’estasi mistica professata da Plotino soltanto una sola volta nel corso di tutta la sua esistenza terrena, precisamente all’età di 68 anni, l’anima di Porfirio si separò dal corpo fisico, forse per l’ultima volta, nei primi anni del quarto secolo, poco dopo aver onorato la promessa fatta al proprio maestro di riuscire a riorganizzare e pubblicare in forma scritta il suo pensiero.

La filosofia

Da un punto di vista strettamente filosofico, Porfirio non si discostò di molto dalla visione del suo maestro, tanto è vero che, al netto di alcune piccole modificazioni di scarso rilievo, egli può essere considerato a tutti gli effetti un neoplatonico di stampo Plotiniano.


Così come sosteneva Plotino, infatti, anche secondo Porfirio i vari livelli di realtà discendono dall’Uno per emanazioni successive; l’Uno però non può intendersi come un principio primo posto al di là dell’essere, né è lecito pensare che il Principio Supremo sia un qualcosa d’altro rispetto allo Spirito, ovvero all’essere, perché se così fosse anche l’Uno sarebbe coinvolto in una relazione di alterità risultando dunque “limitato”.


Ne consegue, secondo Porfirio, che il Principio Supremo è l’essere in sé e dunque i livelli di realtà definiti dall’Uno e dallo Spirito vengono a coincidere.


Anche per quanto riguarda l’escatologia, vale a dire la dottrina riguardante l’origine dell’essere umano ed il suo destino ultimo, Porfirio ricalca l’antica credenza della metempsicosi, ribattezzata dal suo maestro in metensomatosi: le anime umane sono eterne e preesistono in un regno metafisico (quello dell’Anima), discendono sulla Terra per una necessità ontologica, ovverosia perché è proprio così che funziona la realtà, per poi restare “intrappolate” in un ciclo di nascita, “morte” e reincarnazione, al quale ogni individuo può porre fine riconoscendo la propria vera natura e scegliendo di ricongiungersi all’Uno.


La via della liberazione è qui di seguito sintetizzata: «Conosci te stesso, cioè rientra in te stesso, per risalire al dio che abita in te, per trascendere te stesso, abbandonando il corpo e ricondurre l’anima all’Uno».


La stessa vita è quindi intesa da Porfirio come una processione dell’essere al di fuori di sé, mentre il percorso “inverso” di rientro in sé e risalita all’Uno, ovvero all’essere, è detto conversione: è questo il cammino che attende ogni essere umano.


Se noi non ricordiamo nulla della realtà sovrasensibile, in cui eravamo già vivi prima di nascere e rinascere sulla Terra, è perché quel luogo è situato al di là del tempo e dunque, non essendovi né passato né futuro, le anime disincarnate non hanno bisogno di una memoria: nel regno dell’anima, infatti, si conosce simultaneamente nell’eternità, e non in modo lineare, così come invece accade sulla Terra, ove si è soggetti al trascorrere del tempo.


Per quanto riguarda le virtù, che anche Porfirio considerava come delle vie di elevazione spirituale, l’allievo prediletto di Plotino sosteneva che esse fossero tanto più degne di valutazione quanto più la loro pratica avesse allontanato l’essere umano dalle passioni del corpo e dalle cose pratiche, tipiche della vita terrena, per avvicinarlo ad una ben più alta forma di esistenza incentrata sulla pura contemplazione teoretica.


A tal fine egli delineò una teoria etico-ascetica che trae il suo fondamento dal ben più antico e autorevole pensiero di Platone; essa è composta da quattro virtù fondamentali, qui di seguito riportate in ordine crescente di difficoltà ed importanza in relazione agli aspetti iniziatico-spirituali:


1) le virtù politiche (o civili) che consistono nella capacità di moderare le passioni al fine di riuscire a vivere bene in comunità, operando secondo natura;


2) le virtù catartiche (o purificatrici) con cui l’anima incarnata si predispone alla contemplazione del vero essere, astenendosi da alcune azioni fisiche e liberandosi dal gravame delle passioni;


3) le virtù teoretiche (o contemplative) che consistono nella capacità propria dell’anima purificatasi di riuscire a contemplare l’Intelletto divino e quindi di agire in accordo con l’Anima universale, la cui saggezza è ispirata dal livello di realtà ad essa superiore;


4) le virtù paradigmatiche (o esemplari) che sono date dalle idee perfette di tutte le virtù che risiedono nell’Intelletto e costituiscono, appunto, delle virtù paradigmatiche, ovverosia dei modelli di assoluto riferimento. Esse sono superiori alle virtù dell’Anima, in quanto queste ultime non sono altro che una loro immagine.


Conquistando progressivamente ciascuna di queste virtù, l’essere umano può infine ricongiungersi all’Uno: esso infatti è il principio di ogni virtù, sicché essere virtuosi al massimo grado, in un certo senso, significa ri-assimilarsi all’Uno.

La magia

La caratteristica che più di ogni altra distinse Porfirio da Plotino, consiste nell’atteggiamento tenuto rispetto alle pratiche magico-rituali, a cui l’allievo attribuiva una importanza assai più grande rispetto al maestro.


Porfirio, infatti, esaltò gli aspetti etico-religiosi del neoplatonismo plotiniano, e lo fece accentuando il dualismo anima-corpo, introducendo degli aspetti mistici, delle pratiche ascetico-rituali ed alcuni elementi dottrinali di carattere magico-esoterico, tratti dalle antiche tradizioni sapienziali iniziatiche occidentali ed orientali.


È noto per certo che Porfirio fosse stato iniziato ai misteri eleusini, considerati come il più famoso tra i riti religiosi segreti dell’antica Grecia che si celebrava, con cadenza annuale, nel santuario di Demetra situato nell’antica città di Eleusi.


Egli, inoltre, ebbe modo di venire in contatto con numerosi esponenti, più o meno illustri, del cristianesimo, dello zoroastrismo, della tradizione caldea e con molti cultori dell’antica religione egizia.


Si dice anche che Porfirio fosse uno tra i massimi esperti nei campi dell’astrologia e della divinazione, nonché nelle pratiche di evocazione ed invocazione di esseri immateriali, quali demoni e divinità.


Il lettore faccia attenzione a non attribuire alla parola “demone” l’idea di essere demoniaco successivamente introdotta dal cattolicesimo; ai tempi di Porfirio, infatti, un demone, ovverosia un daimon (dal greco antico δαίμων) era un essere che si poneva a metà strada tra il divino e l’umano ed era ritenuto in grado di interagire con i viventi.


E si sappia anche che fu proprio Porfirio ad utilizzare per primo il termine angelo per distinguere un daimon benevolo da uno malvagio, suggerendo così ai teologi cristiani la moderna dicotomia tra angeli e demoni.


Nella sua demonologia, egli sostiene che i demoni sono nati in seno all’Anima Universale, possiedono un corpo pneumatico, fatto d’aria e di fuoco, e la loro anima, così come quella umana, è dotata di una parte razionale e di una irrazionale.


Un daimon diviene un angelo se egli riesce a far predominare la parte razionale su quella irrazionale; viceversa, se la componente irrazionale dell’anima sovrasta quella razionale, si ha un demone malvagio.


I demoni buoni operano entro la natura, dirigendo le anime di piante e animali, regolando i fenomeni meteorologici e portando equilibrio e benessere.


Essi interagiscono anche con gli esseri umani in vista del loro bene, ispirandoli e guidandoli nell’esercizio di arti di varia natura, come l’educazione, la medicina la ginnastica... e così via.


Pur non avendo un corpo fisico, talvolta gli angeli possono manifestarsi sotto varie forme e possono anche inviare dei messaggi secondo diverse modalità ma sempre al fine di aiutare l’umanità.


Alcuni demoni svolgono anche la funzione di messaggeri tra gli uomini e gli dei, veicolando le preghiere degli uni e le volontà degli altri.


Secondo Porfirio, vi sono però anche dei demoni malvagi che, a differenza degli angeli, sono cattivi, violenti e subdoli; pur non avendo un corpo fisico, essi popolano delle zone assai vicine alla Terra ed è anche per questo che gli esseri umani subiscono il loro influsso malevolo in misura maggiore rispetto a quello dei demoni buoni.


Oltre ad essere responsabili di calamità di varia natura ed a presiedere gli atti magici volti ad azioni riprovevoli, i demoni malvagi attaccano ma soprattutto ingannano gli individui, distogliendoli dalla retta via e conducendoli abilmente alla rovina.


L’insidia più grande è dovuta proprio alla loro rinomata capacità affabulatoria con cui seducono le masse, e talvolta perfino i filosofi, promettendo loro ricchezza, sesso, potere e vanagloria, e facendogli credere che quanto di male capita agli uomini sia dovuto agli esseri divini che invece operano in vista del bene.


Talvolta il loro raggiro può essere così grande da presentare all’umanità il capo dei demoni malvagi come il dio supremo del bene.


È così che queste entità negative riescono a farsi officiare riti sacri in loro onore, gettando gli esseri umani tra le peggiori sciagure della vita.


Porfirio avvisa anche che gli esseri che operano al servizio del male accrescono la loro forza mediante il sacrificio degli animali ed è per questo che il saggio si asterrà sia da ogni sorta di rituale cruento che dal consumo di carne, evitando così, al tempo stesso, sia di attrarre a sé le entità malvagie che di alimentare il loro potere.


Secondo alcuni, la conoscenza di Porfirio della società dei daimon era tale, da permettergli di riconoscere ogni sorta di demone malvagio e di opporsi ad essi con assoluta risolutezza e grande efficacia.


Tanto è vero che la tradizione riporta alcuni aneddoti riguardanti la figura di Porfirio che interagisce coi demoni, arrivando addirittura a scacciarli da alcuni luoghi in cui questi si manifestavano creando problemi di varia natura, come accadde, ad esempio, in un bagno pubblico.


Di tutte le arti magico-rituali di cui era a conoscenza, Porfirio prediligeva la Teurgia (in greco antico θεουργία, a sua volta composto dai termini thèos, cioè “dio”, e urghìa, derivato da ergon, cioè “opera”, complessivamente tradotto come “opera divina”), una pratica religiosa con cui realizzare una sorta di unione con degli esseri divini, rendendoli vicini e propizi agli esseri umani, senza piegare la loro volontà.


Tale termine fu introdotto per la prima volta da Giuliano il Teurgo nella sua opera intitolata Oracoli caldaici, in cui l’autore definì le caratteristiche di questa arte magica che si contraddistinse dalla teologia in quanto, a differenza di quest’ultima, la teurgia non si occupa di disquisire delle divinità da un punto di vista teorico, bensì di evocarle ed interagire con esse fisicamente, ovvero da un punto di vista pratico.


Attraverso rituali di carattere cerimoniale, caratterizzati da gesti solenni, simboli e formule, il teurgo evocava un daimon e, in virtù di questa sorta di collaborazione divina, riusciva ad operare in modo prodigioso, sfruttando l’energia daimonica.


Inoltre, per mezzo della realizzazione di un’unione mistica, in cui un daimon animava un oggetto oppure un corpo caduto in uno stato di trance, il teurgo poteva agire, o far agire le cose, e gli individui, al pari di una divinità.


Egli si faceva anche carico del compito di ricevere ed interpretare correttamente i messaggi ed i segnali che i demoni intendevano comunicare agli individui ed all’umanità.


Non a caso, dunque, Plotino apostrofò Porfirio con le seguenti parole: «Ti sei dimostrato, al contempo, filosofo, poeta e ierofante», riconoscendo l’indiscussa autorevolezza acquisita dal suo allievo nel campo dei culti misterici.


Si sappia che nell’Antica Grecia, lo ierofante (in greco antico ἱεροφάντης, tradotto come “colui che spiega le cose sacre”), era il sacerdote più importante dell’Attica, nonché guida massima del culto di Eleusi, incaricato di officiare i riti iniziatici con cui i nuovi adepti venivano introdotti agli insegnamenti esoterici più segreti delle antiche religioni misteriche.


Il motivo per cui Porfirio attribuì un valore così grande alle arti magico-rituali è presto detto: egli si era accorto dell’esistenza di una verità universale di origine divina, che fin dai tempi più antichi è stata trasmessa agli esseri umani particolarmente inclini verso le pratiche spirituali, senza alcuna distinzione di religione, ceto sociale o sesso.


Per delineare questo insieme di conoscenze filosofico-religiose rivelate, Porfirio introdusse, per primo nell’ambito del neoplatonismo, il termine Teosofia (dal greco antico θεός, Theós, cioè “Dio”, unito a σοφία, sofìa, cioè “sapienza”, solitamente tradotto come saggezza, sapienza o scienza riguardante Dio, le divinità o, più in generale, le cose divine).


Egli osservò come tra i primi teosofi, dediti esclusivamente al divino, a cui fu concesso di ricevere la conoscenza teosofica, si potessero senza dubbio annoverare i sacerdoti dell’antico culto egizio, i gimnosofisti indiani, i Magi caldei e perfino alcuni tra i profeti ebraici.


Anche ai greci fu concessa la sapienza divina, ma essi, secondo Porfirio, l’avrebbero più volte corrotta e ripresa, col passare del tempo.


Del resto, la tradizione insegna come i poeti fossero divinamente ispirati dalle Muse, mentre le profetesse dovessero le loro capacità oracolari al potere delle divinità, come accadeva, ad esempio, nel caso della sacerdotessa del santuario di Delfi, Pizia, che grazie alle sue capacità era in grado di creare una sorta di “ponte” che consentiva di far comunicare gli esseri umani con il dio Apollo.


La teurgia e la lettura allegorica degli oracoli, rappresentavano dunque una via d’accesso privilegiata per l’ottenimento diretto della più reale e autentica conoscenza divina: la teosofia.


A queste pratiche, però, doveva essere affiancato un percorso ascetico di purificazione personale ed uno studio teorico razionale, grazie a cui il filosofo, mosso dall’eros e sempre volto alla ricerca della bellezza, sarebbe riuscito ad individuare ed a percorrere la via che alla fine l’avrebbe ricondotto al Principio Supremo.


Grazie ad un simile viatico, l’essere umano avrebbe potuto cambiare il proprio destino terreno, spezzando il ciclo della reincarnazione, acquietandosi nell’Uno.


La Teurgia e la lettura oracolare, assieme alla pratiche di purificazione, erano dunque intesi come dei mezzi per la liberazione e la salvezza dell’anima umana.


Consapevole che l’esercizio filosofico, le pratiche catartiche ed il percorso ascetico di elevazione spirituale verso il divino, culminante nell’unione estatica con esso, rappresentassero un viatico ad appannaggio di pochi, Porfirio riconosceva la dovuta importanza alla pratica ritualistica dei culti pagani effettuata da parte di coloro che erano ancora indietro nel percorso iniziatico e, per questa ragione, avrebbero potuto trarre un qualche genere di giovamento dall’adorazione delle antiche divinità greco-romane, nonostante, a suo avviso, la vera divinità, per essere contemplata, non richiedesse né di essere rappresentata con delle statue, né di essere omaggiata con dei rituali sacrificali, ma soltanto che si fosse praticato un pensiero puro ottenuto da uno stato di silenzio puro.

Le opere

Come abbiamo già anticipato, Porfirio è principalmente ricordato per aver revisionato ed ordinato gli appunti di Plotino in sei gruppi formati da nove trattati, preceduti, per completezza, da una biografia in cui vengono narrate le gesta del suo maestro: nacquero così le Enneadi e la Vita di Plotino.


In realtà l’elenco delle opere composte da Porfirio è decisamente più vasto e, anche se molte di esse sono andate perdute, fornisce una prova inequivocabile del suo enorme spessore filosofico-spirituale.


Tra i numerosi scritti attribuiti a Porfirio spiccano, per influenza e portata, oltre ai testi già citati:


1) l’Isagoge (“Εἰσαγωγή”, letteralmente “Introduzione”), un’introduzione alla logica aristotelica che, nei successivi dieci secoli, sarebbe divenuta un testo di riferimento, ed un Commento alle categorie di Aristotele in sette volumi (andato perduto);


2) Sull'identità di platonismo e aristotelismo (andata perduta) e Sulle facoltà dell’anima, due scritti volti al superamento della contrapposizione storica tra alcuni aspetti delle concezioni filosofiche di Platone ed Aristotele;


3) una Vita di Pitagora (Βίος Πυϑαγόρου), vale a dire una biografia facente parte, secondo alcuni, di una ben più vasta storia della filosofia di cui, ad oggi, però non vi è più traccia;


4) una poderosa opera polemica rivolta al cristianesimo intitolata Contro i Cristiani (Κατὰ Χριστιανῶν, Contra Christianos) composta da ben quindici libri ma a noi nota soltanto in minima parte grazie ad alcune citazioni ed altri modesti frammenti;


5) una pregevole apologia della dieta a base vegetale intitolata Astinenza dagli animali (in greco Περὶ ἀποχῆς ἐμψύχων, reso in latino come De abstinentia ab esu animalium, talvolta tradotto come Sull’astinenza dalle carni degli animali) in cui Porfirio illustra gli effetti dannosi della dieta carnea, e quelli benefici attribuiti alla dieta vegetariana, in relazione ai comportamenti sociali umani ed alle pratiche spirituali, riconoscendo e difendendo i diritti degli animali;


6) si è inoltre soliti ricordare anche: i Commenti al Parmenide, al Timeo ed al Trattato di armonica di Tolomeo, una lettura allegorico-esoterica dei testi Omerici intitolata L’antro delle ninfe (De antro Nympharum) ed una Lettera ad Anebo incentrata sul tema della Teurgia.


In virtù della loro portata storico-filosofico-culturale, nei prossimi capitoli illustreremo, in estrema sintesi, i contenuti riportati nell’Isagoge, nell’opera scritta Contro i Cristiani e nel trattato Sull’astinenza dagli animali, invitando i lettori più volenterosi ed appassionati ad approfondire lo studio dei numerosi testi porfiriani in autonomia.

L'Isagoge

Scritta nel periodo in cui Porfirio si trovata in Sicilia, indicativamente fra il 268 ed il 270, l’Isagoge è una introduzione alle Categorie di Aristotele, in cui vengono discussi i modi e le qualità dell’essere e la maniera in cui l’essere umano vede e interpreta ciò che è.


Quest’opera è principalmente ricordata per il celebre Albero di Porfirio e per una citazione che diede adito alla maggiore disputa filosofico-teologica di tutto il medioevo: quella in merito agli universali.


Rinomata anche per aver reso comprensibile l’opera di Aristotele su cui era basata, l’Isagoge fu tradotta in latino e commentata da diversi pensatori, tra cui il più illustre fu il filosofo e senatore romano Severino Boezio, e nel corso del millennio successivo alla morte dell’autore si diffuse e si affermò a tal punto da diventare un testo classico del pensiero medioevale, comunemente utilizzato nelle università europee.


Nel mentre, l’opera venne anche tradotta in siriaco, armeno ed arabo, influenzando le rispettive zone del mondo in cui gli studiosi utilizzavano quelle lingue.


L’Albero di Porfirio consiste in uno schema di classificazione della “sostanza” in termini di coordinazione e subordinazione di generi e specie, ottenuta partendo da un genere sommo fino ad arrivare a delle specie individuali, attraverso un processo discendente basato su delle suddivisioni dicotomiche successive.


Ad esempio, la sostanza può essere corporea o incorporea; a sua volta la sostanza corporea può essere animata o inanimata; a sua volta ancora la sostanza corporea animata può essere sensibile o insensibile; a sua volta ancora la sostanza corporea animata sensibile può essere razionale o irrazionale, e nel caso in cui sia razionale può essere mortale o immortale.


Ora, se si disponesse opportunamente su di un foglio di carta la precedente concatenazione logica, avendo cura di completarla nelle parti che sono state omesse, si noterebbe che essa assume la forma di un albero la cui chioma ha origine da una serie di biforcazioni successive: questo spiega il nome attribuito al metodo di classificazione ideato da Porfirio.


A cosa serve un simile schema? A catalogare le cose che esistono nella realtà; ad esempio, gli esseri umani sono individuati dal ramo dell’albero della sostanza corporea animata sensibile razionale mortale, gli dei invece da quello della sostanza corporea animata sensibile razionale immortale... e così via.


Pur non essendo esente da una serie di problematiche, di cui per brevità non ci occuperemo, alcune delle idee poste alla base dello schema ideato da Porfirio vengono ancora oggi utilizzate, ad esempio, nella classificazione tassonomica degli organismi viventi.


In relazione agli universali, nella sua Isagoge egli si limitò a sostenere che: «Per il momento, mi rifiuto di parlare, per quanto riguarda generi e specie, se essi sussistano o se siano nudi e isolati concetti puri; e, se sussistono, se siano materiali o immateriali; o se siano separati o incorporati negli oggetti sensibili, ed altri argomenti correlati. Questo tipo di problema è uno dei più profondi che vi siano e richiede indagini più ampie»; tanto bastò ad alimentare le indagini in quello che sarebbe diventato uno dei maggiori campi di ricerca dei filosofi medioevali, i quali, a differenza di Porfirio, tentarono di dare delle risposte alle seguenti domande: in che senso “esistono” gli universali?


Essi esistono soltanto nelle menti degli individui oppure hanno una loro specifica sussistenza nella realtà?


Se gli universali esistono nella realtà, a quale livello di realtà ci stiamo riferendo: una realtà fisica o una realtà metafisica?


Se gli universali esistono nel livello di realtà fisica, essi sono separati dai corpi o, in qualche senso, sono parte di essi?

Contro i cristiani

Contro i Cristiani è il titolo del trattato che Porfirio scrisse al tempo di Diocleziano per destituire di ogni fondamento il cristianesimo e tentare così di arrestare l’avanzata del nuovo culto che ormai stava avendo il sopravvento sulle religioni tradizionali pagane.


Già nel secolo precedente, sotto Marco Aurelio, il filosofo medioplatonico Celso aveva compiuto un’analoga impresa anticristiana, dimostrando, con il suo scritto intitolato Alethès lógos (solitamente tradotto come il Discorso vero), che Gesù Cristo non era né l’incarnazione del Logos greco, né il Messia profetizzato dagli ebrei; tesi che furono successivamente riprese e contestate da Origene di Alessandria.


Nella sua opera, Porfirio non si limitò a riprendere le argomentazioni di Celso, con l’intento di rispondere alle obiezioni mosse da Origine, ma attaccò frontalmente la dottrina cristiana mediate un complesso, vasto ed accurato esame storico, filologico, filosofico e teologico dell’Antico e del Nuovo Testamento.


In questo modo egli provò che le Sacre Scritture, essendo false, contraddittorie e colme di errori, non possono di certo contenere il Verbo divino.


I pochi frammenti a nostra disposizione non consentono di ricostruire nella sua compiutezza il progetto originario di Porfirio, né è noto con precisione quali dei numerosi testi oggi ritenuti sacri dai cattolici vennero analizzati e contestati.


È invece del tutto evidente, sia dall’analisi dei frammenti che dalle reazioni che seguirono alla pubblicazione dei suoi scritti anticristiani, che gli argomenti mossi da Porfirio colsero nel centro, richiedendo addirittura che la sua opera fosse dapprima proscritta da Costantino, poco prima del Concilio di Nicea (325 d.C.), e poi che ogni singola copia di essa fosse definitivamente distrutta nel 448 d.C., per ordine congiunto di Teodosio II e Valentiniano III, vale a dire i due nipoti di Teodosio che, in quell’epoca, regnavano rispettivamente sull’Impero d’Oriente e d’Occidente.


In base a quel poco che ci è dato sapere, nella sua critica al Vecchio Testamento Porfirio sostenne che il libro di Daniele fosse un falso storico: ciò si evince, ad esempio, dall’analisi della struttura grammaticale del racconto di Susanna con gli anziani, in cui il costrutto linguistico utilizzato non ha alcuna correlazione con la lingua ebraica, ma presenta una struttura grammaticale tipicamente greca.


Con le sue analisi Porfirio non solo dedusse che il libro di Daniele, in realtà, era un falso storico, ma anche che i suoi contenuti furono riportati post eventum dal sacerdote Esdra durante la cattività babilonese, vale a dire circa quattro secoli dopo i fatti narrati nel testo biblico.


Pertanto, l’autore non aveva predetto alcun evento futuro, come sostenevano i credenti cristiani, bensì si era limitato a parlare di fatti già passati.


Un altro genere di argomentazione che Porfirio utilizzò contro i cristiani, consisteva nell’interpretare i fatti profetici riportati dai testi sacri come dei comuni eventi storici, di cui il filosofo di Tiro aveva la premura di ricostruire ed indicare in quale luogo ed in che periodo di tempo essi si fossero realmente verificati.


Ciò accadde, ad esempio, nella sua analisi volta a provare che, in realtà, il temibile Anticristo che secondo i cristiani proferiva parole insolenti contro Dio, non era di certo la manifestazione terrena di Satana, ma semplicemente il sovrano seleucide Antioco IV Epifane; di conseguenza, Daniele, vale a dire colui che aveva messo per iscritto la presunta profezia accettata come vera dai cristiani, non era affatto un profeta di Dio.


Analizzando il celebre passo del Genesi in cui Dio proibisce ad Adamo ed Eva di mangiare i frutti dell’albero della conoscenza del bene e del male, Porfirio sottolinea come il divieto di accedere a questi principi cagioni un danno gravissimo all’anima umana, giacché senza sapere cosa sia il bene ed in cosa consista il male, ella non riuscirà a purificarsi ed a condurre una vita santa e giusta, elevandosi ai livelli di realtà superiori, riscoprendo e contemplando gli Intellegibili, al fine di ricongiungersi all’Uno.


Passi pure che Dio voglia celare la cognizione del male all’umanità, ma il voler negare l’accesso alla conoscenza del bene è del tutto incomprensibile e, agli occhi di Porfirio, appare addirittura come una malvagità fine a se stessa.


Sulla base dell’analisi dei testi neotestamentari, il filosofo di Tiro attacca direttamente l’elemento dottrinale centrale della fede cristiana, sostenendo che Gesù fosse soltanto un uomo e non di certo il figlio di Dio.


Che l’origine divina del Cristo sia soltanto presunta e non trovi corrispondenza nella realtà, lo si evince dalle numerose incongruenze che vi sono sia tra le parole di Gesù e i suoi comportamenti, che tra i precetti del Cristo e le azioni dei suoi discepoli.


La ricostruzione della realtà storica degli episodi riportati nelle sacre Scritture smaschera la finalità dei cristiani di voler presentare la storia dell’umanità reinterpretandola faziosamente secondo la volontà ed il progetto del loro dio, che, a loro avviso, sarebbe intervenuto tramite suo figlio, per la salvezza degli uomini.


Secondo Porfirio anche la profezia sulla resurrezione dei morti non sarebbe altro che una rilettura forzata dei fatti effettuata dai cristiani, i quali hanno voluto introdurre nella loro dottrina un avvenimento che, oltre ad essere fisicamente impossibile, non è neppure presente nelle Sacre Scritture.


Gli evangelisti, inoltre, nel comporre le loro opere, furono così poco accorti da commettere errori ed aporie di varia natura; omettere volutamente alcune cose per far tornare numericamente certe ricorrenze; descrivere eventi differenti e di diversa durata come se fossero accaduti nella medesima giornata; ricorrere a false attribuzioni di citazioni... e così via.


Tutto ciò a riprova che i redattori degli Evangeli erano persone inesperte, non solo nelle scienze profane, vale a dire nella conoscenza posta al di là dell’ambito religioso-spirituale, ma anche nelle Sacre Scritture, che invece sarebbe dovute essere il terreno di loro competenza.


Porfirio sminuisce anche le azioni prodigiose attribuite a Gesù, da un lato accusando gli evangelisti di aver intenzionalmente esaltato episodi ascrivibili alla normale quotidianità, spacciandoli per miracoli, con l’intento di ingannare le persone più semplici e meno avvedute, e dall’altro ricordando che sono esistiti dei personaggi in grado di compiere prodezze ben superiori a quelle di Cristo sia prima che dopo la sua venuta, senza per questo pretendere di essere considerati come figli di Dio (si pensi ad esempio ai maghi egizi e persiani ed alle figure di Apollonio di Tiana e Apuleio).


La critica di Porfirio non risparmia neppure alcuni dei più vicini seguaci del Cristo, vale a dire Simone detto Pietro e Paolo di Tarso.


Sulla base dell’analisi di una loro celebre disputa avvenuta in merito a quale fosse il giusto modo di evangelizzare, il filoso di Tiro imputa a Pietro di essere caduto in errore ed a Paolo di essere un impudente che non ha neppure rispetto dell’apostolo più anziano.


Secondo Porfirio, questi due missionari di Cristo non solo non concordano tra loro su quale sia l’insegnamento di Gesù, ma addirittura professano entrambi una dottrina falsa e ingannevole, lontana dalla parola di Dio.


Citando un passo degli Atti degli Apostoli, il filosofo di Tiro fece notare anche che, facendo morire di vergogna i due coniugi Anania e Saffira, perché questi, mediante un sotterfugio, avevano evitato di dare a Pietro tutto il ricavato ottenuto dalla vendita del loro terreno, il discepolo di Cristo aveva addirittura tradito gli insegnamenti del suo stesso maestro, il quale predicava di perdonare «settanta volte sette».


Con riferimento alla Prima lettera ai Corinzi, in cui Paolo descrive l’effetto purificatorio dell’acqua battesimale, Porfirio mette in seria discussione il rito del battesimo, chiedendosi come sia possibile che «fornicazione, adulterio, ubriachezza, furto, pederastia, veneficio e infinite cose basse e disgustose» siano così facilmente eliminate, «come un serpente depone le vecchie squame», con della semplice aspersione d’acqua.


Se fosse così semplice liberarsi dalle proprie macchie e diventare puro, aggiunge, «chi non vorrebbe commettere ogni sorta di nefandezza, sapendo che otterrà attraverso il battesimo il perdono dei suoi crimini?».


Se ne deduce che il cristianesimo, secondo Porfirio, incita all’illegalità, inficia la legge e fa venir meno la giustizia stessa; esso, inoltre, introduce una forma di convivenza illegale e spinge a non avere timore dell’empietà: ecco spiegato perché tra i cristiani «chi è onesto non viene chiamato».


Nei decenni successivi alla pubblicazione dell’opera polemica di Porfirio, molti ferventi seguaci del cristianesimo cercarono di sminuire la portata delle sue critiche, omettendo di replicare ad alcune obiezioni, calunniando il filosofo di Tiro, sostenendo rispetto alle critiche ritenute corrette che esse fossero ininfluenti rispetto al messaggio autentico, attribuendo gli errori presenti nei testi sacri all’opera dei copisti ed interpretando alcuni passaggi scomodi in senso allegorico... fin quando qualcuno non pensò che forse sarebbe stato assai più semplice ed efficace mettere al riparo il proprio credo distruggendo tutte le copie dell’opera di Porfirio, la qual cosa lascia intendere che quegli scritti contenessero delle obiezioni così forti e veritiere da non poter essere confutate.


Se così non fosse stato, i padri della Chiesa avrebbero certamente sfruttato la debolezza delle argomentazioni dei loro avversarsi volgendole a proprio vantaggio, invece di spendere così tante energie per farle sparire dalla faccia della terra.


Come appare evidente dai precedenti argomenti, l’opera redatta da Porfirio Contro i Cristiani rappresentava la pars destruens, cioè la critica alle idee e alle posizioni dei seguaci di Cristo.


Ma il progetto porfiriano di contrasto al cristianesimo era ben più ampio e prevedeva anche una pars costruens, vale a dire un’indicazione propositiva della strada da seguire, da prospettare come ben più solida ed edificante alternativa al credo cristiano: essa veniva chiaramente individuata da Porfirio nella concezione filosofico-religiosa del Neoplatonismo, messo a punto dal suo maestro Plotino, che egli aveva avuto personalmente cura di mettere per iscritto, arricchendola e completandola dando la dovuta importanza anche ai già citati aspetti magico-rituali della teurgia e dell’interpretazione oracolare.


Ma come è ben noto, nonostante gli sforzi del filosofo di Tiro, nel secolo successivo, il progetto di restaurazione dei culti pagani, a più riprese avallato anche da alcuni imperatori romani, naufragò definitivamente nel 380 d.C. a seguito dell’emanazione dell’editto di Tessalonica, in cui il cristianesimo, elaborato secondo i canoni del credo niceno, divenne la religione ufficiale dell’Impero romano, non senza ricorrere a mezzi cruenti per vincere le ultime resistenze dei pagani.

Astinenza dagli animali

Sull’astinenza dall’uso degli animali (in greco Περὶ ἀποχῆς ἐμψύχων, reso in latino come De abstinentia ab usu animalium) scritta da Porfirio è, al tempo stesso, un’apologia della dieta vegetariana, nonché la prima grande opera in difesa dei diritti degli animali di cui si abbia traccia nella storia del pensiero occidentale.


Dall’incipit del trattato si scopre che il testo è stato scritto dall’autore per far comprendere ad un suo amico, che, con gran sorpresa di Porfirio, aveva abbandonato il regime alimentare vegetariano, «da quale altezza a quale abisso» egli fosse precipitato a causa della sua scelta alimentare, facendo emergere, nel rispetto della verità, le prove degli errori dei ragionamenti utilizzati per legittimare il consumo di carne.


Dalla letture dell’opera, però, risulta del tutto evidente che il testo abbia anche una valenza esoterica e che in realtà esso sia destinato ad un più ampio gruppo di iniziati, come testimoniato dalle stesse parole di Porfirio: «Noi ci rivolgiamo a chi sospetta, una volta per tutte, che la nostra permanenza in terra, e la dimora in cui trascorriamo l’esistenza, non sono che un incantesimo; a chi ha riconosciuto che è proprio della sua natura restare insonne e ha scoperto il potere soporifero della regione in cui viviamo: a costui noi intendiamo raccomandare un’alimentazione coerente con la sua diffidenza verso la dimora terrena e con la sua conoscenza di sé».


Le argomentazioni utilizzate per perorare la causa del vegetarianesimo e dei diritti degli animali, sia da un punto di vista materiale che spirituale, erano così vaste e motivate da riempire quattro libri.


Per far comprendere al lettore la portata di quest’Opera, a noi pervenutaci nella sua interezza, schematizziamo qui di seguito i punti salienti utilizzati nell’argomentazione di Porfirio, avvalendoci di alcune citazioni significative.


1) Animali e umani condividono la medesima natura


Gli animali devono essere considerati della medesima natura degli umani; le differenze che si manifestano tra l’una e le altre tipologie di esseri viventi dotati di anima sono quantitative e non qualitative.


Per giustificare la tesi dell’uguaglianza della natura umana ed animale, Porfirio adduce una lunga serie di esempi ed argomentazioni, volti a provare che, proprio come gli esseri umani, anche gli animali sono dotati di sensibilità, anzi addirittura in certi casi «ne hanno più degli uomini», e che essi, inoltre, «hanno il discorso interiore», ovverosia sono dotati di coscienza, e «sono ragionevoli per natura», cioè sono esseri razionali per loro costituzione.


«Passiamo a discutere della giustizia. Visto che i nostri avversari hanno affermato che la si deve estendere solo agli esseri simili a noi e pertanto escludono gli animali dal suo dominio, in quanto li ritengono privi di ragione, è venuto il momento di esporre l’opinione vera – ossia quella dei pitagorici – e di mostrare che ogni anima dotata di percezione e di memoria non può che essere razionale».


Del resto: «Anche se noi abbiamo un’attività intellettiva più sviluppata rispetto agli animali, non per questo possiamo negare loro tale facoltà, come non si può affatto non riconoscere la facoltà di volare alle pernici perché i falchi volano più in alto o agli altri falchi perché l’avvoltoio vola più in alto di loro e di tutti gli altri uccelli».


Se si è intellettualmente onesti: «si può osservare che non solo in tutti gli animali il ragionamento è presente, ma che in molti di loro presenta i presupposti per svilupparsi fino al grado della perfezione».


Se ciò non accade è perché: «Il ragionamento in sé si ingenera naturalmente, ma la sua forma eccellente e perfetta si acquisisce con la cura e l’apprendimento».


Le capacità degli animali, da alcuni ritenute (a torto) una caratteristica esclusiva degli umani, sono innegabili e possono essere osservate sia negli esemplari che vivono in natura che in quelli mantenuti in cattività.


Che gli animali talvolta possiedano una sensibilità ben superiore alla nostra, non è affatto difficile da constatare: «Chi può vantare un udito più fine delle gru, che odono i suoni da una distanza tale che nessuno ci arriverebbe neppure con la vista?».


«I corvi e le ghiandaie, i pettirossi e i pappagalli» invece «imitano la voce umana, ricordano ciò che hanno udito e, quando vengono ammaestrati, obbediscono a chi li ammaestra. [...] Noi stessi, a Cartagine, abbiamo allevato una pernice che era volata docilmente fino a noi. Il trascorrere del tempo e il contatto continuo le fecero acquisire una straordinaria familiarità con noi. Ebbene, ci accorgemmo che l’animale non solo ci faceva le feste, attirava la nostra attenzione e giocava con noi, ma che con la sua voce faceva eco alla nostra [...]».


«È noto pure che alcuni animali, anche se non hanno la parola, rispondono al loro padrone con estrema prontezza: un uomo nei confronti dei suoi familiari non saprebbe fare di meglio. Per esempio, la murena appartenuta al romano Crasso, se si sentiva chiamare per nome, gli si avvicinava e talmente vivo era l’affetto che aveva ispirato a quell'uomo che egli, il quale pure aveva tollerato con dignità la perdita di tre figli, quando l’animale morì scoppiò in lacrime».


«Dopo il parto ogni animale netta il suo piccolo come se stesso. L’osservazione dimostra che gli animali sono sempre in ordine e si presentano a colui che li nutre con manifestazioni di gioia, sapendo riconoscere il proprio padrone e denunciare l’uomo malevolo».


«Chi non ha sentito parlare della fedeltà delle colombe verso i compagni? Esse, quando vengono molestate, se riescono a sorprendere l’animale che le ha indotte all’adulterio, lo uccidono. O, ancora, chi ignora il sentimento di giustizia delle cicogne nei confronti dei genitori?»


«E tra gli animali, dicono, non vi sono neppure leggi scritte: ma nemmeno tra gli uomini v’erano leggi, almeno fin quando la loro vita è trascorsa nella felicità».


«E chi non sa quale rispetto della giustizia verso gli altri si ritrovi fra gli animali che vivono in società, tra le formiche, le api e i loro simili?».


«Un solo vizio è sconosciuto agli animali: la malevolenza per colui che si manifesta loro amico; essi rispondono sempre con una amicizia assoluta. E tanto grande è la loro fiducia nell’uomo benevolente, che lo seguono dovunque li conduca, fosse anche al sacrificio o a un pericolo manifesto. E benché non li si nutra per loro, ma per sé, essi provano amicizia per il padrone».


«È l’ingordigia che fa apparire gli animali, agli occhi degli uomini, privi di ragionamento» non la loro vera natura, la quale è del tutto manifesta alle menti di coloro che sono in grado di osservare le cose senza pregiudizi di specie, dovuti alle proprie abitudini alimentari.


2) L’alimentazione vegetariana è benefica sia dal punto di vista fisico che spirituale


Porfirio sostiene che l’essere umano può procurarsi facilmente il sostentamento senza sfruttare e uccidere gli animali, evitando di arrecare loro inutili sofferenze; di più, la dieta a base vegetale, caratterizzata dall’astinenza dal consumo di carne «contribuisce alla salute e nello stesso tempo ad acquisire una resistenza commisurata agli sforzi che l’esercizio della filosofia richiede».


«Come dunque l’acqua che scorre attraverso la roccia è più pura di quella che passa per un terreno fangoso, poiché trascina con sé una minore quantità di fango, così anche l’anima che compie le proprie attività con un corpo asciutto e non impregnato dagli umori di carni a lui estranee, è migliore, non corrotta e più incline all’attività intellettuale».


In virtù del fatto che gli esseri umani e gli animali condividono la medesima natura, ed in forza della dottrina della metempsicosi, ovvero della trasmigrazione della anime degli uomini, le quali possono reincarnarsi non solo in altri corpi umani ma anche nei corpi animali, di fatto, cibarsi di carne equivale ad una forma di cannibalismo e costituisce un’azione di una tale gravità da non consentire di per sé di liberarsi dal ciclo delle reincarnazioni terrene.


Ne consegue che la dieta vegetale rappresenti una condizione necessaria, anche se non sufficiente, per la liberazione e dunque la salvezza dell’anima: «Un’alimentazione priva di carne, essenziale e facile da procacciarsi per chiunque […], procura un senso di pace alla ragione che predispone i mezzi per la nostra salvezza».


Del resto: «l’astinenza dalla carne degli animali non ci impedisce né di vivere né di vivere bene».


3) La stirpe aurea non uccideva gli esseri animati


Gli esseri umani vissuti nell’età dell’oro non si nutrivano di animali, né li sacrificavano alle divinità: «gli uomini nati nell’età antica e perciò vicina agli dèi – uomini di natura eccelsa i quali conducevano una vita meravigliosa tanto che, paragonati ai contemporanei, costituiti di materia adulterata e scadente, sono considerati “stirpe aurea” – non uccidevano gli esseri animati».


E ancora: «Il sacrificio animale è posteriore ed è anche il più recente. Esso però non trae origine dalla gratitudine, come quello compiuto con le offerte vegetali, bensì da una circostanza sfavorevole provocata dalla fame o da qualche altra disgrazia. Per esempio, le uccisioni di animali perpetrate ad Atene affondano le radici nell’ignoranza, nella collera o nel timore».


Bisogna inoltre considerare che sfruttare gli animali, facendoli soffrire per poi ucciderli per sacrificarli alle divinità o per nutrirsi di essi, è una pratica magico-rituale che, da un lato, ottenebra l’essere umano, sia nel corpo che nell’anima, e, dall’altro, alimenta e rafforza i demoni malvagi.


Siccome le vibrazioni negative provocate dall’ingiustizia, dalle sofferenze, dalla violenza e dalla paura, operate su, e provate da, esseri innocenti, rappresentano il nutrimento prediletto dai demoni orientati al male, essi hanno fatto di tutto per ingannare gli uomini, affinché l’umanità deviasse dalla sana e benefica abitudine di alimentarsi in modo nonviolento ed inoltre ritenesse utile, giusto e sacrosanto, celebrare ed ingraziarsi il favore delle divinità sacrificando alle forze maligne degli esseri puri ed innocenti.


Anche per questi motivi: «Non bisogna lordare di sangue gli altari degli dei e gli uomini non dovrebbero neppure sfiorare tale alimento [la carne], come del resto non toccano il corpo dei loro simili».


«E se per caso qualcuno sostenesse che oltre ai frutti della terra la divinità ci ha messo a disposizione anche gli animali perché ne facessimo uso, io gli risponderei che quando si sacrificano animali noi facciamo loro un torto, poiché li derubiamo dell’anima e che pertanto non bisogna sacrificarli! [...] Come ci può essere santità quando chi viene derubato di qualcosa che gli appartiene non è che la vittima di un atto di ingiustizia?»


4) l’astinenza dalla carne incrementa la bontà umana


Secondo Porfirio l’inclinazione ad amare gli animali rimanda all’amore nei confronti degli esseri umani: «È chiaro infatti che chi ha la sensibilità di declinare la violenza assassina contro i viventi di altre specie, avrà anche l’intelligenza di non fare del male a quelli della sua stessa specie».


Dall’osservazione empirica, a suo avviso, emerge che i vegetariani sono tendenzialmente più buoni dei carnivori: «Come dice Diogene, infatti, dai mangiatori di farina non provengono né ladri né nemici, mentre è dai mangiatori di carne che nascono spie e tiranni».


Se è vero che l’uomo ama la natura, allora, in nome della giustizia, egli deve tradurre il suo amore in un’attenzione particolare rispetto a tutte le creature, in particolar modo verso quelle più innocenti, ovvero gli animali: «Chi ama tutta la natura animata non odierà nessuna classe di esseri innocenti e, quanto maggiore sarà il suo amore per il tutto, tanto più profondamente egli coltiverà la giustizia verso una parte di esso, quella parte a cui è più legato».


Pertanto «Come in passato non era lecito agli uomini toccare gli animali, allo stesso modo anche oggi l’atto di ucciderli per trarne nutrimento si deve ritenere un’infrazione a tale legge. [...] Infatti, se non altro, a comportarci così otterremmo il grande risultato di porre tregua alla violenza che ci infliggiamo reciprocamente».


Questo significa che l’alimentazione vegetale non rappresenta soltanto una prerequisito indispensabile per la salvezza dell’anima, ma è anche un mezzo di innalzamento del livello di benessere sociale.


L’unica eccezione ammessa da Porfirio nei confronti dell’uccisione di animali, riguarda gli esseri aggressivi e nocivi, che, a causa del loro istinto di sopravvivenza, tendono ad aggredire e fare del male agli uomini; in tutti gli altri casi la violenza è sempre da considerarsi illegittima ed ingiustificata.


«Bisogna però esaminare anche la questione seguente. Noi avvertiamo un senso di parentela verso tutti gli uomini, ma riteniamo comunque necessario eliminare e punire tutti i malfattori e chiunque sia spinto da un impulso di naturale malvagità a nuocere a qualcun altro.


Probabilmente è giusto agire alla stessa maniera con gli animali privi di ragione, tra cui occorre sopprimere quelli che per natura sono aggressivi o nocivi o inclini a fare del male a chi si avvicina a loro.


Quanto invece a tutti gli altri esseri viventi che non commettono alcuna ingiustizia né tendono per natura a fare il male, non c’è alcun dubbio: trucidarli e farne strage è un atto d’ingiustizia non meno grave che sopprimere uomini altrettanto innocenti. È solo un’apparenza che tra noi e gli altri animali non sussiste alcun diritto comune».


Si sappia però che l’aggressività degli animali, sia rispetto ai loro simili che verso gli esseri umani, non è dovuta alla loro malvagità, ma alle condizioni di ristrettezza degli spazi e del nutrimento che essi si trovano costretti a subire: «E se ve ne sono che attaccano l’uomo, di questo non c'è da stupirsi; perché è vero, come dice Aristotele, che se il cibo fosse offerto agli animali a profusione, essi non sarebbero feroci né tra loro né verso di noi, i loro odi e le loro amicizie derivano solo dalla necessità di assicurarsi il nutrimento, ancorché limitato allo stretto necessario, e lo spazio vitale».


Per quanto sostenuto fino ad ora, agli animali vanno riconosciuti dei diritti comuni a quelli degli esseri umani e l’esercizio della giustizia deve essere esteso anche nei loro confronti: «È verosimile peraltro che chi ha ritenuto di far derivare la giustizia dalla parentela tra gli esseri umani, ne ignori il carattere peculiare.


Intesa in tal modo, essa si risolverebbe infatti in una sorta di filantropia, mentre la giustizia consiste nel trattenersi e nell’evitare di nuocere a qualunque essere vivente che a sua volta è innocuo, a prescindere dalla specie cui esso appartiene. È così che la pensa l’uomo giusto, non in quell’altro modo, ed è per questa ragione che la giustizia, che consiste nel non ledere nessuno, va estesa fino agli animali».


Giamblico di Calcide


La vita

Giamblico di Calcide (Calcide, 250 circa – 330 circa) fu un filosofo neoplatonico di origine siriaca vissuto in età romana.


Quel poco che si sa di certo sulla sua vita può essere riassunto in alcune righe: nato nell’antica città di Calcide, situata in Celesiria, il giovane Giamblico fu dapprima scolaro del peripatetico Anatolio ma poi aderì al neoplatonismo, divenendo allievo di Porfirio.


Giunto ormai a maturazione filosofica, dopo aver assimilato le tesi di stampo plotiniano del suo maestro, entrò in polemica sia con la concezione filosofica di Plotino che con l’atteggiamento religioso di Porfirio.


Fece dunque ritorno nella provincia romana di Siria, ad Apamea, ove fondò una scuola, da lui diretta fino alla fine dei suoi giorni.


Nacque così la cosiddetta Scuola neoplatonica di Siria, che vantò tra i suoi continuatori Teodoro di Asine, Sopatro di Apamea e Dessippo, a cui viene attribuita una scarsa originalità, ma che, con i suoi motivi caratterizzanti, riuscì comunque ad ispirare i più ben noti Plutarco di Atene e, per mezzo di lui, il filosofo e matematico bizantino, nonché scolarca dell’Accademia neoplatonica di Atene, Proclo.


Sebbene già nei circoli filosofici neoplatonici, come ad esempio quello romano di Plotino, la lettura ed il commento delle opere di Platone ed Aristotele era una prassi consolidata, Giamblico, per primo, pensò di creare una raccolta di opere disposte in ordine crescente di difficoltà di comprensione e profondità di pensiero, in modo tale che gli studenti della sua scuola fossero indirizzati a seguire una sorta di percorso di studi comune, così come avviene nelle odierne università.


E noto inoltre che egli inaugurò un peculiare metodo di interpretazione dei dialoghi platonici, postulando la possibilità di attribuire a ciascuno scritto un significato autentico analizzando il grado ontologico di realtà a cui esso si riferisce.


Secondo Giamblico, quindi, gli scritti platonici avevano un campo d’indagine ben definito ed in base a ciò essi potevano essere classificati inquadrandoli entro delle opportune discipline (scritti politici, purificatori, di fisica, di teologia... e così via).

La filosofia

Più che un vero e proprio filosofo, Giamblico è considerato da alcuni come un teologo che, con il suo operato, riuscì ad influire profondamente sull’evoluzione del neoplatonismo, introducendo una minuziosa e dettagliata moltiplicazione dei livelli di realtà precedentemente definiti da Plotino ed accentuando i motivi magico-religiosi introdotti da Porfirio fino al massimo grado.


Egli, infatti, imputava al maggiore esponente del neoplatonismo di aver operato, con le sue tre ipostasi (Uno, Spirito e Anima), una eccessiva semplificazione che non consentiva di descrivere in modo accurata la realtà, ed al suo allievo prediletto di non aver avuto il coraggio di attribuire alla teurgia il giusto peso, omettendo di sancirne l’assoluta superiorità rispetto all’indagine razionale in merito alla comprensione dei regni divini.


A tal fine, Giamblico, pur confermando lo schema proposto da Plotino, operò una complessificazione del cosmo metafisico neoplatonico, ripartendo i livelli di realtà dello Spirito e dell’Anima secondo degli schemi triadici.


Così, ad esempio, la sfera spirituale dell’intelletto, vale a dire il nous plotiniano, venne suddivisa in un “mondo intelligibile”, popolato dagli oggetti del pensiero, ed in un “mondo intellettuale”, sede degli esseri pensanti, a cui era affiancata una terza sfera che svolgeva la funzione propria di mediatrice tra il regno dello Spirito e la sfera dell’anima.


È noto inoltre che anche questi livelli fossero, a loro volta, ancor più finemente suddivisi con una ulteriore tripartizione, e che lo stesso schema di complessificazione triadica fu adottato per organizzare anche il regno dell’Anima.


Pare anche che Giamblico si spinse così oltre da sdoppiare il principio supremo, unitario ed originario dell’Uno, ponendo al sommo vertice della realtà un Primo principio, assolutamente trascendente e completamente ineffabile, e subito dopo di esso, ma prima del regno spirituale, un Secondo principio, il cui compito consiste nell’avviare il processo di produzione della molteplicità partendo dall’assoluta semplicità che caratterizza l’Uno.


Grazie a questa straordinaria moltiplicazione dei gradi ideali delle ipostasi, Giamblico riuscì a stabilire una sorta di continuità lungo il percorso di emanazioni successive che va dall’assolutamente semplice e universale a ciò che è via via sempre più composto e individuale, appianando così quei “salti” concettuali che erano assai più evidenti nella gerarchia del cosmo concepita da Plotino.


Egli, inoltre, associò ai principi speculativi propri del neoplatonismo, gli dei, gli angeli, i demoni e gli eroi della tradizione religiosa e mitologica greco-romana, tanto è vero che le numerose ipostasi intermedie vennero addirittura identificate con le divinità della religione pagana.


In questa sua nuova veste il neoplatonismo si prestava a giustificare razionalmente il politeismo, riconferendo vigore e spessore alle antiche credenze pagane.


Non a caso l’imperatore Giuliano, detto l’Apostata, nel suo noto tentativo di restaurazione della religione pagana, utilizzò proprio la concezione neoplatonica così come l’aveva elaborata Giamblico.


Quest’ultimo individuava il fondamento della propria dottrina nella tradizione pitagorica che, a sua volta, era basata sull’antico sapere iniziatico egiziano.


Secondo Giamblico, la vera filosofia ha origine divina ed è ispirata direttamente dagli dei; la sola indagine filosofica, per quanto rappresenti uno strumento indispensabile, di per sé, non è sufficiente per cogliere la verità.


Se ci si vuole elevare ai livelli superiori di realtà, avendo così accesso al sapere più profondo, bisogna trovare un modo per comunicare con il divino.


Per questo motivo, alle pratiche religiose del volgo, Giamblico oppone la ben più elitaria, raffinata ed efficace disciplina della teurgia, attraverso la quale il saggio può mettersi in comunicazione con gli esseri divini al fine di ottenere informazioni di varia natura.


Porfirio, dunque, era in errore nel limitare l’impiego della teurgia alla sola liberazione della parte irrazionale dell’anima, giacché l’iniziato può operare come un medium in grado di mettere in connessione le anime umane con l’Uno, gli angeli ed i demoni.


Plotino, invece, sbagliava quando sosteneva che l’essere umano potesse riunirsi estaticamente all’Uno attraverso un percorso di elevazione catartica; secondo Giamblico, invece, il più alto livello di esperienza che un individuo può compiere nel corso della sua vita terrena, consiste nel raggiungere l’Intelletto divino, realizzando con esso, e non con l’Uno, un’unione mistica (henosis) resa possibile proprio dalla pratica dei rituali teurgici.


Anche nel campo dell’etica si ravvisa in Giamblico una spiccata tendenza alla minuziosa classificazione delle virtù, le quali vennero distinte in virtù teoretiche, a sua volta suddivise in virtù politiche, catartiche (cioè di purificazione) e paradigmatiche, e virtù ieratiche (cioè sacrali).


Egli, inoltre, riconobbe grande importanza allo stile di vita vegetariano ed alla tutela degli animali, i quali venivano considerati da Giamblico come dei fratelli:


«C’è affinità di natura tra noi e gli animali, giacché questi, dal momento che hanno in comune con noi la vita e gli stessi elementi e la mescolanza che di questi si compone, sono legati a noi uomini come fossero nostri fratelli».


Del resto, già il sommo Pitagora aveva indicato quale fosse la via da seguire; anch’egli, infatti: «viveva in questo modo, astenendosi dall’alimentarsi con carne di animali, prosternandosi davanti agli altari incruenti e desiderando che anche gli altri cercassero di non eliminare ciò che è di natura simile a noi [cioè gli animali]».


Pitagora, inoltre, dava testimonianza della sua condotta etica: «educando gli animali selvatici con le parole e con le opere, ma senza far loro del male con punizioni» ed «anche tra i politici, inoltre, impose a coloro che dettavano le leggi di astenersi dal mangiare carne di animali, poiché era necessario che quelli che intendevano fare giustizia al più alto livello mai fossero ingiusti con gli animali che sono nostri simili».


A detta di Giamblico uno tra i tanti motivi che spinsero Pitagora a stabilire la norma dell’astinenza dal mangiare esseri viventi era dovuto al fatto che egli considerasse il regime vegetariano come «una pratica pacificatrice».


Infatti: «Coloro che si fossero abituati a provare ribrezzo per l’uccisione degli animali, come fatto illecito e contro natura, ritenendo che era molto più ingiusto uccidere l’uomo, non avrebbero più fatto la guerra».

Le opere

Giamblico fu un autore fecondo, che si interessò di molti campi del sapere, spaziando dalla matematica alla teologia, passando per la magia e la filosofia, ma disgraziatamente la maggior parte delle sue opere sono andate perdute.


In ambito più propriamente filosofico si dedicò alla stesura di alcuni commentari alle opere di Platone ed Aristotele; è noto inoltre che una sua raccolta di epistole filosofiche ebbe grande fama e circolò in tutto l’Impero.


Egli, inoltre, scrisse un paio di trattati Sulle Virtù e Sull’Anima, ed, avvalendosi di alcuni estratti selezionati dai testi di altri autori, redasse anche un Protrettico, vale a dire un testo di esortazione nei confronti dello studio e della pratica della filosofia.


Tra gli scritti teologici vi era una pregevole Teologia caldaica, di cui ad oggi non è rimasto nulla.


Tra le opere che ci sono pervenute, invece, i suoi due testi più noti e significativi sono l’imponente trattato Sul Pitagorismo, di cui disponiamo di cinque volumi sui dieci che formavano il testo originario, e la lettera conosciuta come Sui misteri degli Egizi, il cui titolo originario era Del maestro Abammone, risposta alla lettera di Porfirio ad Anebo, e spiegazione delle questioni che essa pone.


Nella prima di queste due opere, Giamblico illustra la vita e la filosofia di Pitagora, il quale viene descritto al pari di un essere divino, ed espone il sistema filosofico dei pitagorici, dando ampio peso al tema del vegetarianesimo; nella seconda opera scritta in risposta a Porfirio, egli, fingendosi un sacerdote egizio di nome Abammone, delinea la teurgia, chiarendo il ruolo svolto da questa pratica rituale, e dall’arte della divinazione (la mantica), nel percorso dell’anima umana verso l’assimilazione al divino.


Gli scritti di matematica di Giamblico forniscono notizie preziose sull’aritmetica greca; grazie ad essi, ad esempio, ci è pervenuto un metodo detto epantema usato da Timarida di Paro per risolvere un problema che, con le odierne conoscenze, può essere tradotto in un particolare tipo di sistema composto da n equazioni lineari in n incognite.


Plutarco di Atene

Plutarco di Atene (metà del IV secolo circa – 431 o 432 d.C.), da non confondere con il suo omonimo e precedessore Plutarco di Cheronea (Cheronea, 46 d.C./48 d.C. – Delfi, 125 d.C./127 d.C.), fu un pensatore greco solitamente ricordato in qualità di iniziatore della scuola neoplatonica d’Atene.


Della sua vita non si sa quasi nulla così come delle sue opere, di cui ad oggi non v’è traccia.


Eppure Plutarco fu senza dubbio una personalità di grande spessore, se si considera che gli esponenti della successiva tradizione neoplatonica lo venerarono attribuendogli gli appellativi di “grande” e “mirabile”.


Da alcune citazioni, pare che egli abbia composto alcuni commentari ai dialoghi platonici ed alle opere di Aristotele e che tentò di conciliare il platonismo con l’aristotelismo.


In relazione alla concezione filosofica, non si discostò di molto dalla dottrina di Plotino, anche se, a differenza di quest’ultimo, Plutarco riconobbe come veri cinque livelli di realtà: l’Uno, l’Intelligenza, l’Anima, le forme materiali e la materia, osservando come l’Uno fosse uno, cioè unitario; l’Intelligenza si trovasse in un rapporto di uno a molti tra l’Uno ed i pensieri; l’Anima fosse, al tempo stesso, uno e molti, con evidente riferimento all’anima collettiva ed alle anime individuali; le forme materiali fossero molte rispetto all’unità dell’Uno; ed infine la materia rappresentasse soltanto i molti.


Plutarco svolse il ruolo di scolarca della scuola di Atene fino alla fine dei suoi giorni; dopo di lui l’incarico fu ricoperto dal suo allievo più dotato, Siriano, il quale si distinse dal maestro per una maggiore propensione alla speculazione metafisica e per aver avuto l’onere e l’onore di iniziare alle conoscenze neoplatoniche Proclo.


Quest’ultimo, divenuto a sua volta scolarca dell’Accademia di Atene, dette al neoplatonismo la sua forma definitiva, facendo toccare a questa corrente di pensiero il livello di speculazione filosofica più elevato di sempre.


Tra gli altri scolari di Plutarco d’Atene degni di menzione, vi fu anche Ierocle di Alessandria, per mezzo del quale gli insegnamenti della scuola di Atene influenzarono anche la scuola neoplatonica alessandrina.


Proclo

La vita

Proclo Licio Diadoco (Costantinopoli, 8 febbraio 412 – Atene, 17 aprile 485) fu un filosofo e matematico bizantino, che divenne scolarca, nonché massimo esponente, dell’Accademia neoplatonica di Atene.


Venuto alla luce a Costantinopoli, il giovane Proclo trascorse la prima fase della sua vita a Xanto, nella Licia (ciò spiega l’attribuzione del secondo nome “Licio”).


Essendo benestanti, i suoi genitori provvedettero ad impartirgli una istruzione di alto livello, con l’intento di fargli intraprendere la medesima carriera del padre, cioè l’avvocatura.


Per questi motivi, Proclo si recò ad Alessandria d’Egitto e, per alcuni anni, si dedico allo studio, spaziando negli ambiti della grammatica, della retorica, della filosofia, del diritto e della matematica.


Forte della sua preparazione, fece rientro a Costantinopoli, ove risiedette per un certo periodo di tempo, guadagnando una discreta fama come uomo di legge; ma ad un certo punto della sua vita, sentì entro di sé il richiamo della filosofia.


Ritornato ad Alessandria, approfondì le sue conoscenze filosofiche sotto l’ala di Olimpiodoro il Vecchio, il quale, alcuni anni addietro, aveva fondato in quella città una scuola neoplatonica.


Successivamente, però, decise di muovere alla volta di Atene, che all’epoca era ancora uno dei più importanti centri culturali dell’Impero.


Fu così che Proclo iniziò a frequentare la Scuola neoplatonica d’Atene negli ultimi anni dello scolarcato di Plutarco; quest’ultimo, avendo colto la grande intelligenza del nuovo arrivato, non esitò ad accoglierlo come allievo e si legò ad esso al punto da trattarlo come un figlio.


Da lì in avanti, fatta eccezione per un anno di esilio caginatogli dai cristiani a causa della sua attività politico-filosofica, Proclo restò ad Atene per tutto il resto della sua vita, gravitando nella scuola fondata da Plutarco.


Alla scomparsa di quest’ultimo, dapprima Proclo divenne allievo di Siriano, che nel frattempo era diventato scolarca, e poi, alla sua morte, continuò a frequentare la scuola neoplatonica ateniese sotto la guida del nuovo rettore Domnino, fin quando anch’egli non venne a mancare.


Fu così che Proclo, giunto ormai a piena maturazione filosofica, assunse a sua volta l’incarco che un tempo era stato di Plutarco, dirigendo la Scuola neoplatonica di Atene fino alla fine dei suoi giorni.


In questo lasso di tempo Proclo contribuì, più di tutti, alla sistemazione del pensiero neoplatonico, che grazie al suo apporto acquisì una forma definitiva e toccò il più alto livello di speculazione.


A riprova di ciò, si sappia che i diversi pensatori che seguirono le sue orme, ivi inclusi i suoi diretti allievi ed il suo diretto successore nello scolarcato, cioè Marino di Neapoli, non riuscirono più ad offrire alcuno spunto originale per perfezionare ulteriormente il neoplatonismo.


Stando alla testimonianza di Marino, per Proclo il piacere necessario che si trae dai cibi e dalle bevande non è nulla di più che un mezzo per tenere lontane le malattie e l’angustia; per questo motivo si dice che egli mangiasse e bevesse pochissimo, osservasse delle giornate di digiuno e, da buon neoplatonico, evitasse scrupolosamente di nutrirsi con la carne.


Si dice anche che Proclo avesse l’abitudine di vegliare di notte per raccogliersi in preghiera, che celebrasse i noviluni e si recasse annualmente a far visita alle tombe degli eroi attici e dei filosofi, offrendo sacrifici espiatori per le anime dei defunti.


Quando la sua anima lasciò il suo corpo, Proclo fu sepolto in una montagna in prossimità di Atene, proprio accanto al suo maestro e predecessore Siriano.


Sulla sua tomba fu apposto il seguente epitaffio: «Io, Proclo, fui Licio di stirpe, e Siriano mi formò qui per succedergli nell'insegnamento. Questa tomba comune accolse il corpo di entrambi; oh, se un solo luogo ricevesse anche le anime!».

Le opere

Proclo fu un saggista dai molteplici interessi. Le sue opere più propriamente filosofiche possono essere suddivise in due gruppi:


i commentari agli scritti di Platone, quali ad esempio la Repubblica, il Timeo, l’Alcibiade primo, il Cratilo e il Parmenide, che egli cominciò a pubblicare già all’età di 28 anni;


gli scritti di carattere teologico, quali l’Elementatio Theologica e la Theologia Platonica in cinque volumi.


Pregevoli e degni di valenza storica sono anche le opere pubblicate da Proclo negli ambiti dell’astronomia e della matematica, di cui si ricordano una introduzione alle teorie astronomiche di Ipparco e Tolomeo intitolata Hypotyposis astronomicarum positionum ed un Commento al primo libro degli Elementi di Euclide.


Nel primo di essi Proclo illustrò la teoria del moto dei pianeti basata sugli epicicli e sugli eccentrici, esprimendo la tesi (corretta) che un tale modello sia soltanto una finzione matematica impiegata per calcolare le orbite dei corpi celesti; il secondo, redatto sulla base della grande Storia della Geometria di Eudemo peripatetico, rappresenta ad oggi una delle principali fonti storiche riguardante la geometria antica.


A Proclo viene attribuita anche la paternità di un teorema geometrico, dalla cui applicazione scaturisce un peculiare compasso ellittico, vale a dire una macchina, nota come Ellissografo di Proclo, che consente di disegnare su di un piano un’ellisse.

La filosofia

Rispetto alla concezione di Plotino, che Proclo sposa nella sua essenza, egli si contraddistinse per una spiccata tendenza alla moltiplicazione delle ipostasi ma, soprattutto, per aver chiarito i meccanismi posti alla base del processo dell’emanazione.


Ispirato dalle riflessioni di Giamblico, che aveva sdoppiato l’Uno in un Primo e Secondo principio, Proclo si spinse ancora più in là, da un lato concordando con Plotino che l’Uno sia causa prima, bene assoluto e la sua vera natura risulti inconoscibile ed inesprimibile, e dall’altro introducendo una molteplicità di Unità, dette Enadi, le quali, così come l’Uno, sono beni supremi ed hanno natura divina, ma il cui compito consiste nello svolgere un’azione di intermediazione tra il Principio Supremo, cioè l’Uno originario, ed il successivo livello di realtà, ovvero il mondo dell’Intelletto.


A sua volta, questo regno, secondo Proclo, è tripartito nell’intellegibile che è l’essere ed è inteso come oggetto; nell’intellettuale che è inteso come soggetto; e nell’intellegibile-intellettuale che è la vita.


Si sappia che essere e vita sono ancor più finemente specificati, avvalendosi di ulteriori momenti che però, per brevità, ometteremo di riportare.


Pure il successivo livello di realtà, quello dell’Anima, è tripartito da Proclo in tre specie: l’anima divina, quella daimonica e quella umana, a cui, grosso modo, corrispondono i concetti dell’anima del mondo, delle anime degli esseri disincarnati a metà strada tra il divino e l’umano, cioè i daimon, e delle anime individuali degli esseri umani.


Proclo, però, suddivise ancor più finemente sia l’anima divina che quella daimonica, arrangiando una corrispondenza tra tali suddivisioni e le divinità della religione popolare.


La stessa cosa fu fatta anche per gli altri momenti della gerarchia cosmica da egli definita, andando così a creare, ricorrendo all’espediente del metodo allegorico, una teologia ancor più ricca di quella di Giamblico, in cui vi è una completa identificazione dei numerosi livelli ipostatici della realtà con gli esseri e le divinità temuti e venerati dai pagani.


In virtù di tale corrispondenza, viene altresì a delinearsi una sorta di organizzazione gerarchica e piramidale delle divinità, secondo cui quanto più gli esseri divini si trovano in basso nella scala che definisce il loro ruolo, tanto più si accrescono in numero perdendo progressivamente di potere.


Si passa così dall’assoluta perfezione e dalla piena potenza delle enadi, alle divinità pagane ed alle anime daimoniche, i cui attributi sono in qualche ragione diminuiti rispetto a quelli degli esseri divini ad essi gerarchicamente superiori.


Per Proclo il potere divino, nelle sue varie forme, opera ad ogni livello di realtà; in particolare il mondo è ordinato e retto dall’anima divina.


In tal senso, Proclo sostiene che le divinità siano provvidenti, non in quanto esse si lascino toccare dagli eventi e quindi agiscano intenzionalmente e deliberatamente, ma per il semplice fatto di esistere, ovvero in qualità di principi generatori e ordinatori.


Siccome ogni cosa deriva dalla divinità, che è Uno e Bene, secondo Proclo, Plotino è in errore ad identificare la materia con il male, giacché anch’essa è stata creata dalla divinità ed è necessaria per il mondo.


Il male dunque non ha origine divina, ma è dovuto alle imperfezioni dei livelli più bassi di realtà, degradatisi a causa delle emanazioni successive, ed alla scarsa accettazione da parte di essi del bene divino.


Secondo Proclo, inoltre, ogni emanazione che governa la processione della realtà è determinata da una legge ontologica basata su di un ritmo triadico costituito dai seguenti momenti principali:


1) la manenza (moné) vale a dire il permanere della causa in sé stessa;


2) la processione (pròodos), ovverosia la fuoriuscita dell’essere dalla causa, il quale, in virtù della sua somiglianza con essa, al tempo stesso si allontana dalla causa rimanendone in qualche modo legato;


3) il ritorno, o conversione (epistrophé), cioè il ricongiungimento dell’essere entro la causa originaria da cui esso si è allontanato.


Secondo Proclo, tale legge ha una validità di carattere universale, in quanto è in grado di esprimere il ritmo della realtà, sia in generale che in particolare, cioè sia per quanto riguarda la totalità delle cose che per tutti i singoli momenti.


Ogni processo di produzione si compie in forza della somiglianza delle cose che procedono con la causa da cui esse sono procedute.


Tutti gli enti produttivi, infatti, dall’Uno ad ogni altra realtà che produce qualcos’altro, in virtù della loro perfezione, permangono in se stessi immutati ed indiminuiti; ed è proprio grazie a tale sovrabbondanza di potere che essi possono produrre.


Di conseguenza, il prodotto generato attraverso la processione non è una parte divisa del produttore, ma è una moltiplicazione di quest’ultimo dovuto alla sua potenza.


Chi produce resta immutato in sé ma genera un qualcosa che gli somiglia, giacché ogni cosa che procede è sempre simile a ciò da cui essa procede.


Più precisamente, l’essere prodotto è dissimile rispetto a ciò che lo ha prodotto soltanto in quanto il produttore è “migliore” rispetto al prodotto, ovvero, in particolare, ciò che viene prodotto risulta anche diminuito in potenza rispetto al produttore.


In questo senso, si può dire che, in virtù delle loro similitudini, il prodotto resta entro il produttore, ma in forza delle loro differenze, il prodotto procede dal produttore.


Dunque il prodotto, rispetto al produttore, è, al tempo stesso, simile e dissimile, manente e procedente, e non può fare nessuna di queste due cose senza compiere anche l’altra.


In virtù dell’affinità strutturale e del legame che le cose prodotte hanno con le loro rispettive cause, ogni essere che procede da un produttore resta in contatto e tende a ritornare verso di esso.


Ciò accade in quanto tutti aspirano al bene e per ciò che è prodotto la propria causa rappresenta esattamente il bene.


Con le precedenti riflessioni, Proclo intendeva chiarificare, in modo rigoroso, quel processo di emanazione che Plotino aveva introdotto avvalendosi di alcune metafore, come quella della luce e dell’odore, portando l’intuizione del suo predecessore ai massimi livelli di raffinatezza speculativa.


Il rapporto dialettico tra la causa e la cosa causata, per il quale il principio, e ciò che da esso è prodotto, si separano, pur rimanendo connessi, per poi ricongiungersi, dà luogo ad un processo circolare, in cui l’inizio e la fine risultano coincidenti.


Ma la manenza, la processione ed il ritorno, non vanno intesi come momenti distinti e susseguenti, secondo un ordine temporale cronologicamente distinto in termini di prima e dopo, bensì come un fenomeno in cui si ha una coesistenza di tali momenti che risultano distinti da essi da un punto di vista logico.


Sicché nella realtà, per Proclo, avrebbe luogo un continuo multiplo e perenne, permanere, procedere e ritornare.


Né nella sua cosmogonia egli ammette che vi sia stata una creazione dell’Universo, giacché la ragione rifugge l’idea che il tutto possa provenire dal nulla: «Con quale intenzione Dio, dopo una inerzia di durata infinita, penserà di creare? Perché pensa che è meglio? Ma prima, o lo ignorava, o lo sapeva. Dire che lo ignorava è assurdo; ma se lo sapeva, perché non ha cominciato prima?».


Ciò che è, è sempre stato, è e sarà, un ciclo eterno, infinito ed increato, in cui ogni cosa permane, procede e ritorna, secondo il ritmo triadico che regge il funzionamento del cosmo intero.

Per quanto riguarda l’escatologia, vale a dire il destino ultimo dell’essere umano, Proclo si rifà alla dottrina di Plotino, in cui l’anima dell’individuo è chiamata ad elevarsi, moralmente ed intellettualmente, fino a ricongiungersi estaticamente con l’Uno.


A suo avviso, tre sono i principi che consentono all’essere umano di compiere un simile viatico di ascesi: l’amore, la verità e la fede.


Attraverso l’amore, infatti, si può scorgere la bellezza divina; la ricerca della verità permette di acquisire la sapienza divina; ma soltanto la fede consente di spingersi al di là della bellezza e della conoscenza, fino al compiersi della riunione mistica con il principio supremo inconoscibile ed inesprimibile dell’Uno.


Fonti



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Storia della filosofia, di Nicola Abbagnano.

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Porfirio, Filosofia rivelata dagli oracoli, con tutti i frammenti di magia, stregoneria, teosofia e teurgia, testi greci e latini a fronte, a cura di G. Girgenti e G. Muscolino, Bompiani, Milano 2011.

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Mediaeval Sophia, la demonologia di Porfirio e il culto di Mitra, Giuseppe Muscolino.

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