1) Chi sono gli antichi?
Per questioni culturali quando pensiamo agli antichi ci vengono immediatamente in mente i Greci o i Romani… ma antichi sono anche i Sumeri o gli Egizi, e a maggior ragione lo sono i Nativi Americani e gli Aborigeni, le cui culture risultano ben più antiche e longeve di quelle sviluppatesi in Mesopotamia e in Egitto.
Se poi Platone ed Esiodo hanno detto il vero, antichi sono gli Atlantidei e, ancor più di tutti, gli uomini dell’Età dell’Oro che, secondo Esiodo, «vivevano al pari degli dei».
A quale popolo bisognerebbe fare riferimento per individuare questa presunta Saggezza Antica?
2) Non è tutto oro quel che luccica...
Addentrandoci in questo esperimento ideale bisogna fare molta attenzione a non esaltare nessuna cultura, visione filosofica, religione, ideologia politica, via spirituale... perché se si analizzassero le cose in profondità ci si renderebbe conto che ciascuna di esse ha raggiunto delle vette ed è sprofondata negli abissi, ha proiettato delle luci e delle ombre, ha affermato il vero e il falso...
2a) Non esiste una cultura perfetta: gli esempi di Atene e Sparta
Ad esempio, la polis di Atene, culla della filosofia, dell'arte teatrale, della politica, intensa come partecipazione attiva dei cittadini, nonché la prima città stato al mondo ad adottare un regime democratico... era caratterizzata da un sistema sociale fortemente patriarcale.
Fatta eccezione per le sacerdotesse, si pensi pure alla Pizia (l'oracolo di Delfi), e le etère, una particolarissima categoria di prostitute di alto rango che eccellevano in diverse arti ed erano libere di gestire la propria attività imprenditoriale, in generale, le donne ateniesi avevano un ruolo prettamente domestico, venivano date in sposa in giovane età, ricevevano un'istruzione inferiore rispetto a quella degli uomini e non potevano possedere delle proprietà, né gestire affari autonomamente.
Le cose andavano un po' meglio alle donne di Sparta, le quali, pur non essendo equiparate agli uomini, godevano di una maggiore considerazione e libertà rispetto alle ateniesi.
Le spartane venivano educate, addestrate ed allenate al pari degli uomini, potevano possedere terre e gestire attività economiche (in particolar modo quando i mariti erano impegnati lontani da casa a combattere le guerre), ed infine partecipavano liberamente a cerimonie pubbliche ed attività sociali senza che questo destasse scandalo.
Peccato che gli Spartani ad una lodevole riduzione dell'ingiustizia dovuta ad un sistema patriarcale affiancassero un'evidente deriva etica causata da una completa focalizzazione nei confronti della guerra, da essi intesa come fondamento della loro identità.
E che cosa c'è di più folle, demoniaco e lontano dalla saggezza dell'esaltare e del fare la guerra?
Se
le risorse, il tempo e l'energia che sono stati impiegati per
sviluppare armi, ammazzarsi a vicenda e distruggere cose, fossero
state impiegate per il bene comune, a quest'ora l'umanità avrebbe
potuto vivere in una sorta di paradiso terrestre già da molti
secoli.
2b) Anche i “grandi” sbagliano: gli esempi di Aristotele e Socrate
Lo stesso monito, a cui ho dato risalto all'inizio di questo scritto, sussiste anche nei riguardi del contributo dato allo sviluppo culturale umano da tutti quelli che vengono definiti i “grandi” della storia, a cui ovviamente non appartengono soltanto i filosofi.
Ad esempio, il grande Aristotele, l'ideatore della logica classica, l'uomo con cui tutti i pensatori successivi si sono dovuti confrontare per mille anni, era un teorico della schiavitù naturale e spese anche delle energie per sviluppare un'argomentazione filosofica nel tentativo di giustificare questa pratica disumana, contraria all'etica e all'intelligenza.
«Gli uomini sono liberi o schiavi per diritto di natura: la cosa e evidente. La natura stessa vuole la schiavitù, perché fa differenti i corpi degli uomini liberi da quelli degli schiavi: gli schiavi col vigore che richiedono i lavori a cui sono predestinati, gli uomini liberi incapaci di curvare la loro diritta statura a opere servili e adatti, invece, alla vita politica». Aristotele
Nei secoli a venire gli risposero in molti, argomentando in favore dell'uguaglianza degli esseri umani; tra di essi, ad esempio, vi furono gli Stoici, secondo i quali non può esservi differenza tra gli uomini per natura giacché tutti condividono la ragione.
Da un punto di vista storico, il primo che si oppose in modo formale alla concezione di Aristotele fu il giurista romano Gneo Domizio Annio Ulpiano, il quale arrivò a sentenziare che:
"Per quanto riguarda il diritto naturale, tutti gli uomini sono uguali". ("Quod ad ius naturale attinet, omnes homines aequales sunt").
Tuttavia né gli Stoici, né Ulpiano, trassero le dovute conseguenze dalle loro posizioni ed evitarono di condannare apertamente la schiavitù che infatti non venne abolita, né nel periodo greco-romano, né in quello medievale.
I movimenti abolizionisti esplosero ed iniziarono ad incidere nella società soltanto nel XVIII secolo, anche se in realtà - a mio avviso - la schiavitù non è mai stata eliminata: molto semplicemente ad un certo punto si è iniziata a chiamarla “lavoro”, illudendo i moderni lavoratori di essere persone libere.
Che cos'è cambiato?
Che un tempo gli schiavi dovevano essere mantenuti in condizione di subordinazione con la forza fisica, spesso si ribellavano e la complessiva gestione dei medesimi era una gran scocciatura; oggi invece i moderni lavoratori, sfruttati e oppressi al pari degli schiavi d'un tempo, si auto-schiavizzano in completa autonomia grazie all'illusione della propria libertà.
Ma come può dirsi libera una persona che non può disporre del proprio tempo?
Un altro personaggio del mondo greco antico che visse in povertà ma in libertà è senza dubbio il grandissimo Socrate.
Da molti reputato un maestro di vita, quest'uomo buono e giusto fino alle estreme conseguenze, nel momento più buio della sua esistenza sostenne che la legge va rispettata anche quando è ingiusta e che a suo avviso sarebbe preferibile subire un'ingiustizia piuttosto che compierla.
Per comprendere l'assurdità di questa tesi basta applicarla ad una situazione reale: il governo istituisce il Green Pass per andare al lavoro, una misura peggiore rispetto a quella che introdusse il Duce con la tessera fascista, giacché all'epoca per ottenere quel documento non vi era l'aggravio di doversi inoculare un veleno inutile e dannoso per l'organismo.
Se Socrate avesse ragione bisognerebbe sostenere che, nonostante il Green Pass sia una misura fascista, la legge va rispettata ed è giusto procurarsi questa tessera infame rischiando di farsi venire un malore per non commettere ingiustizia... un comportamento che non sarebbe degno neppure di una pecora, la quale perlomeno tenta di fuggire quando il pastore la preleva dal branco per condurla al macello.
La scelta di Socrate di subire una condanna a morte ingiusta, rifiutando la fuga che i suoi allievi gli avevano predisposto, è stata ampiamente dibattuta, ancor più se si considera che in passato il più sapiente dei filosofi di Atene si era rifiutato di eseguire ordini che, a suo avviso, erano ingiusti, mettendo l'etica personale e la virtù al di sopra della legge umana.
Gli stoici la pensavano esattamente alla stessa maniera, sostenendo che l'unica Legge da rispettare fosse quella conforme al Logos, e non di certo quella umana, la quale molto spesso differisce da ciò che invece suggerisce la ragione universale a cui essi erano dediti.
In ogni caso, bisognerà attendere Henry David Thoreau nel 1849, il teorico della disobbedienza civile, per rettificare questa falla nel sistema di pensiero di Socrate e chiarire il tutto in modo sistematico.
Secondo Thoreau, infatti, la giustizia non coincide sempre con la legalità. Pertanto quando una legge è ingiusta il cittadino ha il dovere morale di disobbedire agendo in base alla propria coscienza.
Se questo atteggiamento fosse stato adottato dalla maggioranza della popolazione, l'umanità si sarebbe risparmiata di vivere la follia della recente dittatura sanitaria pandemica che non aveva nulla a che fare con la sanità, ma era finalizzata al profitto, all'incremento del controllo sociale e ad un cambio di paradigma orientato verso una nuova forma di totalitarismo tecnologico, di cui l'esperimento pandemico ha rappresentato una sorta di grande prova generale di ciò che i potenti intendono implementare in modo permanente in futuro, grazie alla digitalizzazione ed all'intelligenza artificiale.
Le lezioni da apprendere sono due:
la prima è che, come sostenuto da Henry David Thoreau, «La disobbedienza è il reale fondamento della libertà» e che, di converso, gli obbedienti sono condannati ad essere schiavi.
La seconda è che gli uomini di genio sono coloro che riescono a spingersi al di là dei limiti del loro tempo, ma ciò non ci assicura che anch'essi non siano stati vittime dei condizionamenti dovuti alla propria cultura di appartenenza.
3) Che cosa si intende per saggezza antica?
In realtà, quando noi pensiamo alla “saggezza antica” non ci riferiamo ad un personaggio, o ad una cultura, particolare ma ad un ideal-tipo, per dirla alla Weber, vale a dire ad una sorta di uomo ideale che è saggio e sapiente perché incarna la summa filosofica di una certa tradizione.
Nel far ciò, si tende ad evidenziare il buono e a nascondere il marcio, a rendere coerente ciò che invece non lo è.
Questa operazione finalizzata all'individuazione di una ideal-cultura “superiore” è legittima ed auspicabile, in particolar modo qualora serva ad ispirare l'umanità, ma può e deve essere attuata nella consapevolezza di ciò che si sta facendo, ovvero dell'esistenza di quelle luci e di quelle ombre a cui ho accennato nei precedenti paragrafi.
Da un punto di vista filosofico non si dovrebbe neanche parlare di saggezza antica, perché la Saggezza, se è tale, non è né antica, né contemporanea, né futura, è universale, è eterna, è figlia della Verità.
Il motivo per il quale, con ogni probabilità, non è mai esistita una cultura perfetta, e quindi integralmente Saggia, è evidente: una simile conquista sarebbe possibile soltanto da parte di un popolo che abbia interiorizzato un'etica universale, una sorta di comunità di illuminati, più divini che umani.
Com'è facile intuire, una simile condizione dell'essere non è mai stata raggiunta in nessuna parte del mondo e in nessuna epoca della storia umana, fatta eccezione per l'Età dell'Oro, rispetto alla cui effettiva realtà storica però è lecito nutrire dei dubbi.
4) Il mito dell'Età dell'Oro
Il poeta Esiodo, nel suo scritto intitolato “Le Opere e i Giorni” narra di un'antica civiltà creata dai Numi che viveva al pari degli dei: la stirpe aurea.
Gli uomini dell'età dell'oro «passavan la vita con l'animo sgombro da angosce, lontani dalle fatiche (del lavoro) e dalla miseria»; la terra forniva in abbondanza il cibo da sé, senza bisogno di essere coltivata.
Gli uomini si nutrivano di cibi semplici, come il frutto dell'albero e l'acqua pura delle fonti;
nessuno uccideva gli animali e non li sacrificava agli dei (Porfirio sostiene che ciò avvenne soltanto in epoche successive a causa di una macchinazione operata dai demoni a danno dell'umanità).
Non esistevano il denaro e il mercato, ma più semplicemente le cose che servivano all'umanità venivano messe in comune in vista del bene di tutti.
Non c'erano confini e non si combattevano guerre per conquistare territori.
Non c'erano gerarchie, né leggi, né governi, né Re, eppure regnavano la pace e l'armonia, sia tra gli uomini che nei confronti della natura, perché ciascuno viveva secondo virtù e nel rispetto del prossimo.
La vecchiaia non esisteva, le persone si mantenevano forti di gambe e braccia fino all'ultimo giorno della loro vita e quando la morte arrivava «erano come vinti dal sonno».
Giunta al termine l'età dell'oro, Esiodo narra di altre quattro età, quella dell'argento, del bronzo, degli eroi, ed infine la nostra, quella del ferro, in cui però l'umanità è via via decaduta, innanzitutto moralmente, sperimentando di conseguenza condizioni esistenziali sempre peggiori.
La vicenda è complessa e non posso affrontarla in questa sede per brevità, ma in estrema sintesi Esiodo ci sta dicendo che la generazione di uomini che ha saputo vivere bene più di tutte era riuscita a mettere in atto una forma nobile di anarchia associata allo stato di natura.
Di certo da questo mito ciascuno può cogliere da sé dei saggi consigli per reindirizzare l'umanità verso il bene; non c'è invece da stupirsi più di tanto se uomini che si nutrivano in modo sano, vivendo senza turbamenti, obblighi e stress in un ambiente completamente incontaminato, dice Esiodo, non conoscessero neppure la malattia.
Ma che cos'era la medicina secondo gli antichi?
4) la medicina secondo Platone
Secondo Platone esistono due tipologie di medicine: quella destinata agli schiavi e quella riservata agli uomini liberi.
La prima agisce esclusivamente sui sintomi della malattie così da fare in modo che lo schiavo torni il prima possibile al lavoro; questa medicina non si cura né di prolungare l'esistenza dell'individuo né della qualità della stessa, giacché lo schiavo è sacrificabile e rimpiazzabile quando non più ritenuto utile ed efficiente.
La seconda tipologia di medicina indaga ed interviene sulle cause della malattia al fine di rimuoverle, si concentra sulla prevenzione mediante la dieta, la ginnastica e pratiche di rigenerazione, ed infine predispone i mezzi affinché non solo l'individuo prolunghi la sua esistenza ma nel far ciò sia anche in grado di vivere bene.
Osservando l'odierna società non vi è alcun dubbio che quella destinata alle masse sia una medicina da schiavi: la medicina nell'ultimo secolo ha fatto così tanti progressi che ormai è un miracolo trovare una persona sana che non abbia bisogno di assumere farmaci per sopravvivere, anche in giovane età.
Non ci si cura minimamente delle cause delle malattie, anzi si fa di tutto per incrementarle.
Aria, acqua e terra sono pesantemente inquinante. Viviamo immersi all'interno di campi elettromagnetici dannosi. Le città sono diventate dei forni a microonde a cielo aperto.
Il cibo non ha più il potere nutritivo di una volta ed è pieno zeppo di sostanze tossiche per l'organismo.
I farmaci spacciati come presidi atti alla “prevenzione” causano degli effetti avversi e collaterali ancor più gravi delle malattie da cui in teoria dovrebbero assicurare una protezione e oltretutto vengono somministrati a persone sane, peggiorando le loro difese immunitarie naturali.
È il minimo che possa accadere che tutta l'umanità sia perennemente ammalata.
Ogni anno si spendono miliardi di dollari per trovare la cura contro il cancro e non si riesce a risolvere questo problema, nonostante la soluzione sia talmente evidente che nessuno riesce più a vederla: se vivessimo in un mondo senza inquinamento nutrendoci in modo sano, che fine farebbero i tumori?
Eliminare l'inquinamento e focalizzare gli sforzi sulla dieta, lo stile di vita, utilizzando principalmente rimedi naturali privi di effetti collaterali: è questo l'approccio che la scienza medica adotterebbe se il vero fine fosse quello di combattere le malattie.
5) Realizzazione personale
Platone sosteneva anche che: «Il più grande errore nella cura delle malattie è che ci siano medici per il corpo e medici per l’anima, perché corpo ed anima non possono essere separati».
Per assicurare il benessere, l'approccio medico volto alla salute del corpo non è sufficiente, è necessario anche che l'essere umano si realizzi, nel senso più ampio e autentico del termine, che l'anima di ciascuno dia alla luce se stessa ed adempia ai propri fini.
Molte affezioni umane, infatti, sono malattie dell'anima che trovano la loro origine nei fallimenti esistenziali, nelle costrizioni sociali, nelle relazioni malsane... e così via.
È quindi del tutto evidente che senza andare ad incidere anche su questi aspetti, non solo non risolveremo il problema della salute, ma non riusciremo neanche a vivere con serenità.
Non a caso nelle più antiche e diffuse tradizioni sciamaniche si fa riferimento al fenomeno della perdita dell'anima, inteso come un processo di frammentazione e distacco che comporta un indebolimento dell'ascolto nei riguardi del proprio sé più autentico.
Se da un lato la disconnessione dalla propria anima può portare allo sviluppo di problemi esistenziali di varia natura, nonché a malattie fisiche e mentali, dall'altro il processo di riconnessione ed integrazione può essere inteso come una via di guarigione: è questa la tesi elaborata e sostenuta nell'approccio psicologico junghiano.
La salute e la felicità non andrebbero quindi perseguiti come fini primari, ma sarebbero il risultato di un viaggio di realizzazione autentico che può avvenire attraverso un processo noto come “individuazione”.
Individuarsi significa:
diventare ciò che si è operando al di là dei condizionamenti sociali ricevuti;
manifestare i fini inconsci suggeriti dalla propria anima e non quelli dettati dalla società;
realizzare il proprio potenziale coltivando doni, talenti e passioni;
scoprire e portare a compimento le proprie missioni animiche agendo in un quadro di elevazione spirituale.
Non molto dissimili sono le indicazioni esistenziali dovute alla summa della saggezza degli antichi greci, i quali sostenevano che per raggiungere l'eudaimonia, vale a dire una condizione stabile e duratura di realizzazione esistenziale intesa, non tanto come felicità, ma più precisamente come massima fioritura umana, bisognerebbe conoscere se stessi ed agire secondo misura, vivendo in modo virtuoso ed operando in accordo alle indicazioni suggerite dal proprio daimon, ovvero ascoltando la guida interiore che accompagna ciascun individuo, orientandolo verso il suo vero sé e la sua più autentica realizzazione.
Il termine eudaimonia, infatti, è il risultato della composizione delle parole “eu”, che significa buono, e “daimon”, che significa demone (o anche guida spirituale divina); pertanto nell'antica Grecia questo termine indicava anche il processo di manifestazione di uno stato esistenziale prodotto grazie alla guida di un buon demone.
Il vivere secondo virtù (areté) invece significava orientare la propria vita in conformità a un ideale di massima eccellenza, che a loro avviso per esser tale doveva come minimo risultare in accordo con la natura, la ragione e il bene comune.
Per raggiungere questo obiettivo era ritenuto importante coltivare la saggezza (filosofia), moderare le passioni (con la ragione e la temperanza), agire con giustizia (verso gli altri e la comunità) e coltivare il coraggio richiesto per affrontare a testa alta le sfide della vita.
5) Realizzazione nella società
Un altro grande insegnamento che deriva dalla cultura greca è che l'uomo non è una monade isolata ma un animale sociale la cui realizzazione ha luogo nella società e dipende dalla società.
Questa constatazione impone di riflettere su tre importantissime domande:
1) che cosa intendiamo per realizzazione personale?
2) Che impatto ha la mia realizzazione sugli altri (umani, animali e natura)?
3) La società consente a tutti di realizzarsi?
In primo luogo è bene osservare che la realizzazione personale deve essere compatibile con il proprio bene e con quello degli altri; ed inoltre per far sì che tutti si realizzino è necessario che esista una società che consenta la realizzazione di tutti.
Questi punti di vista non devono essere trascurati ed invece è proprio ciò che sta accadendo oggi producendo un disastro totale...
la società capitalistica, infatti, ci dice di pensare esclusivamente al nostro profitto, realizzato anche a danno di tutto e di tutti, ed essendo una società piramidale e competitiva consente, per sua costituzione, che si realizzi soltanto una piccola parte della popolazione.
Di fatto, per ogni persona che emerge e si realizza - nel senso folle e degenerato oggi inteso - ce ne sono altri mille che, per forza di cose, sono condannati al fallimento (pur avendo capacità anche superiori rispetto a chi ha avuto successo).
Gli antichi greci si interrogavano spesso rispetto al telos, vale a dire al fine, lo scopo, l'obiettivo.
E anche noi oggi dovremmo ricominciare a chiederci:
1) qual è il fine del nostro agire?
2) Qual è il fine della nostra società?
3) Dove ci stiamo dirigendo e dove invece dovremmo dirigerci?
Che senso ha competere per far sì che soltanto una minoranza di privilegiati emerga, condannando al fallimento esistenziale ed alla schiavitù tutti gli altri?
Che senso ha devastare la natura per mantenere in essere un sistema economico consumistico che non produce eudaimonia ma devastazione, morte ed infelicità?
Che senso ha continuare ad obbedire alle richieste diaboliche dell'odierna società invece di sottrarsi ad esse comportandoci in modo differente ed orientandoci verso altri fini?
Che senso ha spendere energie per porre rimedio agli effetti senza andare ad intervenire sulle cause?
Per generare il vero benessere per tutti non dovremmo continuare ad operare all'interno degli schemi mentali dettati dall'odierno sistema, perché questo sistema è concepito per farci sfruttare e parassitare a vicenda; bisogna cambiare il paradigma socio economico culturale rifondandolo su presupposti completamente differenti.
Come minimo, bisognerebbe passare dalla competizione finalizzata al profitto individuale a una logica fondata sulla cooperazione volta al bene comune.
Bisognerebbe inoltre chiedersi: qual è il mio talento ed in che modo posso utilizzarlo per produrre il mio bene e quello degli altri?
Se
ciascuno di noi si ponesse questa domanda e intraprendesse questo
sentiero, allora sì che avrebbe luogo una vera rivoluzione...
Mirco Mariucci
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