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giovedì 24 marzo 2016

Platone: la dottrina delle idee e il mito della caverna.



Tratto dal saggio Il Sapere degli Antichi Greci, disponibile in formato cartaceo e digitale al seguente indirizzo, anche in download gratuito.


La dottrina delle idee è certamente la parte più nota e influente di tutto il pensiero platonico.

In essa vi si possono ritrovare dei tratti parmenidei, per quanto riguarda le disquisizioni intorno all'essere, ma anche delle tinte orfico-pitagoriche, per il tono religioso con cui Platone tratta la realtà, l'approccio alla matematica e alla musica. 

Il risultato del sincretismo tra la logica di Parmenide e il misticismo di Pitagora è una sintesi potente, e di rara bellezza, in grado di soddisfare sia l'intelletto che il sentimento religioso. Ecco perché ebbe un grande successo nel corso della storia.

La dottrina delle idee scaturisce dal tentativo di determinare il vero oggetto della scienza. 

Così come la vera scienza non ha niente a che fare con la conoscenza sensibile, ovviamente stando all'opinione di Platone, anche quest'oggetto non avrebbe dovuto far parte delle cose sensibili.

Ed ecco che s'inizia a delineare l'esistenza in un mondo sovrasensibile, o metafisico se preferite, l'Iperuranio, il mondo delle idee eterne ed immutabili, di cui noi nella realtà abbiamo esperienza solo attraverso copie imperfette delle matrici autentiche.

Il nostro mondo, quello sensibile, è un mondo delle apparenze, la vera realtà è al di là di esso, e può essere colta dall'anima in modo razionale mediante l'intelletto. 

Ma come si è potuti arrivare a tutto ciò? Prima di addentrarci nel vivo della trattazione, cerchiamo d'individuare e di ripercorrere i problemi e le riflessioni che condussero Platone a trarre le sue conclusioni. 

Il punto di partenza può essere individuato nella seguente affermazione: «Finché i filosofi non saranno re, o i re ed i prìncipi di questo mondo non avranno lo spirito ed il potere della filosofia, e la grandezza politica e la saggezza unite insieme, e non siano messe da parte le comuni nature che spingono uno di questi due elementi all'esclusione dell'altro, è impossibile che cessino i mali delle città e anche quelli della razza umana».

Se così stanno le cose è lecito domandarsi: che cos'è un filosofo? E, soprattutto: che cosa s'intende per filosofia? 

L'etimologia della parola filosofia, ossia “amore per la sapienza”, potrebbe suggerirci la risposta alla prima domanda.  

Il filosofo è colui che è socraticamente consapevole della propria ignoranza e al tempo stesso nutre il desiderio necessario per attuare quella ricerca incessante che lo condurrà a quel sapere di cui non è in possesso.

L'apprendere stabilisce tra l'uomo e l'oggetto della conoscenza un rapporto di volontà che viene identificato da Platone con l'amore (Eros).

La volgare curiosità di chi pone domande non fa di un uomo un filosofo; secondo Platone il vero  filosofo è colui che nutre un sentimento di amore nei confronti della visione della verità.

Per comprendere che cosa sia questa “visione” della verità, procediamo con un esempio.

Un uomo che ama le cose belle, come ad esempio i quadri o gli oggetti realizzati mediante la tecnica, e che ci tiene ad esser presente a rappresentazioni teatrali o musicali, ebbene quest'uomo non è un filosofo che ama la visione della verità; il vero filosofo non ama le cose belle del mondo, bensì la bellezza in sé, come entità metafisica.

Chi ama le cose terrene, perché sono belle, vive in un sogno ed è vittima di un'illusione, egli ha colto solo un'opinione; chi contempla la bellezza assoluta sovrasensibile è pienamente sveglio, ha compreso la verità ed è in possesso della conoscenza.

Il concetto di Amore secondo l'interpretazione platonica può aiutarci a chiarire ulteriormente il significato di questi passaggi. 

Il mito lo definisce figlio di Povertà (Penia) e di Acquisto (Poros), perché l'Amore desidera qualcosa che non ha, ma di cui ha bisogno. In questo senso Amore è mancanza. 

Egli non è un dio, ma un demone e perciò non ha bellezza ma la desidera, perché è il bene che rende felici, e non ha neanche la sapienza, perché solo gli dei ne sono in possesso, ma aspira ad averla.

Come Amore anche il filosofo è figlio di povertà, in quanto privo del sapere, ed è anche bisognoso di conoscere perché desidera ciò che non ha; 

ma essendo anche figlio di Acquisto, egli è in grado d'imboccare la via per arrivare al sapere, perché possiede la capacità di cercare e procurarsi ciò di cui manca.

La bellezza diviene il fine, in quanto oggetto dell'Amore, ma la bellezza ha diversi gradi che l'uomo può cogliere intraprendendo un cammino.

In primo luogo egli è attratto dalla bellezza di un corpo, poi si rende conto che la bellezza è in tutti i corpi; ma al disopra della bellezza corporea si trova la bellezza dell'anima, e poi quella delle istituzioni e delle leggi; ancora più in alto, vi è la bellezza delle scienze ed, infine, al di sopra di tutto la bellezza in sé: eterna, immutabile, perfetta, sempre uguale a se stessa nonché origine e fonte di ogni altra bellezza. 

E così, ci siamo elevati dal mondo sensibile a quello dell'essere, che rappresenta la vera realtà a cui gli esseri umani partecipano percependo delle proiezioni imperfette delle forme originarie, le idee, che sono i veri oggetti della scienza.

La vera scienza, infatti, non può parlare delle cose percepibili con gli organi di senso, perché la loro mutabilità e mutevolezza le rende incompatibili con il requisito fondamentale della conoscenza scientifica: la verità immutabile. 

Ciò nonostante Platone riconosce l'utilità dei sensi nel condurre l'uomo alla comprensione della verità. 

Mediante i sensi possiamo individuare degli oggetti simili che a prima vista ci sembrano uguali e perciò li diciamo tali. Ma ad un'analisi più accurata ci accorgiamo che non esistono due oggetti perfettamente uguali.

Questa considerazione conduce all'idealizzazione di un concetto di uguaglianza perfetta che però non è propria del mondo sensibile.

Ciò che consente di chiamare uguali quegli oggetti e al tempo stesso di accorgerci che tali non sono, è proprio il termine di paragone con il concetto dell'uguaglianza perfetta in sé. 

L'uguaglianza perfetta non può essere vista con gli occhi, ma può essere colta mediante l'intelletto; essa risiede nel mondo delle idee.

La filosofia consiste esattamente nel processo che consente di non fermarsi alle apparenze per procedere al di là di esse, ed in particolar modo di superare le apparenze sensibili.

Si tratta di un passaggio conoscitivo da ciò che è sensibile e visibile a ciò che è intelligibile e invisibile, in modo da poter cogliere l'essere in sé. 

In quanto oggetti specifici della conoscenza razionale le idee sono nettamente distinte dalle cose sensibili e vengono chiamate enti o sostanze. Ma le idee possono anche rappresentare criteri o principi di giudizio sulle cose naturali, e perfino le cause di esse. 

Ad esempio, per giudicare ciò che è bello, giusto o grande, si ricorre alle idee di bellezza, giustizia e grandezza perfette, ovvero gli enti a cui i rispettivi concetti corrispondono in qualche misura. 

Secondo Platone, però, le idee non sono astrazioni che l'uomo forma a seguito dell'esperienza, esse sono il modello grazie al quale è possibile individuare le qualità delle cose. 

Possiamo giudicare bello un oggetto perché già possediamo l'idea di bellezza, e non il contrario. 

L'idea è un universale del quale gli oggetti sensibili partecipano. Ciò significa che le cose di cui si predica una certa idea, ad esempio dicendole belle o giuste, sono soltanto degli esempi dell'idea.   

Per giustificare la dottrina che individua nelle idee le cause delle cose naturali, Platone si appella all'argomento di Anassagora, che egli porta fino alle estreme conseguenze.

Se la causa dell'ordine è da ritrovarsi nell'Intelletto, che organizza tutte le cose disponendole nel modo migliore, trovare la causa per la quale ogni cosa si genera, esiste o si distrugge, significa trovare qual è per essa il modo migliore di esistere, modificarsi e agire.

Adottando questo punto di vista, Platone conclude che l'unica causa possibile è da individuarsi nell'ottimo e nell'eccellente e, dice, di non voler commettere l'errore di Anassagora che fu infedele a questo principio. 

Pertanto egli non ammette altre cause al di fuori delle ragioni (logoi) delle cose, vale a dire la perfezione o il fine a cui sono destinate.

Se intendiamo spiegare perché un artigiano ha costruito un certo oggetto in un determinato modo e non in un altro, secondo Platone è sufficiente individuare il fine per cui quell'oggetto è stato realizzato.

Individuare questo fine, infatti, significa dire ciò che è meglio per esso, ma ciò che è meglio non può essere altro se non l'idea. Tutto ciò non vale solo per gli oggetti artigianali ma anche per le entità naturali.

Ed ecco che l'idea diviene la causa per cui le cose sono in un certo modo, e la conoscenza dell'idea consente di spiegare il “perché”. 

Ogni spiegazione che individua nel fine la causa per cui una cosa o un evento avviene è detta teleologica o finalistica.

Ad esempio, se Socrate decise di rimanere in carcere a subire la condanna, piuttosto che evadere e salvarsi, è perché a suo avviso quel comportamento rappresentava il meglio per se stesso.       

E ancora, il fornaio produce il pane perché sa che ci saranno delle persone disposte ad acquistarlo; il fine della vendita influenza la decisione del fornaio di produrre e ne diviene la causa.

Bisogna sottolineare nuovamente che per Platone le idee non sono delle semplici rappresentazioni mentali scaturite dal pensiero, ma sono effettivamente dotate di un'esistenza autonoma: esse fanno parte di ciò che “é”.

Arriviamo così alla teoria inerente la conoscenza. Secondo Platone ciò che assolutamente “è”, è anche assolutamente conoscibile, mentre ciò che in nessun modo “è”, in nessun modo è conoscibile.

All'essere corrisponde la scienza, che è la conoscenza vera, al non-essere corrisponde l'ignoranza, mentre ciò che al tempo stesso “è” e non-è, e quindi è suscettibile al divenire, va sotto il nome di opinione.  

Opinione e conoscenza costituiscono l'intero campo della conoscenza umana, ma che cos'è che li differenzia?

L'uomo che possiede la conoscenza conosce qualcosa che è, perché ciò che non-è non esiste e non può essere conosciuto. Quindi la conoscenza è infallibile.

Al contrario, l'opinione può essere errata. Non si può avere opinione su ciò che è, perché sarebbe conoscenza, e neanche su ciò che non-è, perché sarebbe impossibile. 

Quindi si ha opinione su cose che sono e non-sono, vale a dire che partecipano di caratteri opposti: sono in parte belle ma anche brutte, se viste da un altro punto di vista; giuste e ingiuste, e così via.

Secondo Platone tutte le cose sensibili manifestano questa caratteristica, perciò su di esse non si avrà mai conoscenza ma solo opinione.

Le cose del mondo combinano in sé caratteristiche contraddittorie, quindi non sono reali. 

La conclusione è che si può avere conoscenza solo in merito ad un mondo sovrasensibile ed eterno, che è la vera realtà, mentre per quanto riguarda il mondo che appare ai nostri sensi ci si può limitare solo all'opinione.

La dottrina delle idee è in parte logica e in parte metafisica. La parte logica riguarda il significato delle parole. Le riflessioni portate a supporto, pur essendo argomentative, sono forti e non dipendono dalla parte metafisica.

Se ci guardiamo intorno possiamo osservare degli oggetti che potremmo chiamare in modo veridico automobili. Ma cosa s'intende con il termine “automobile”?

Di sicuro non uno specifico modello, ma un qualcosa di più generale. Un certo oggetto può essere definito automobile perché partecipa di una sorta di natura generale comune a tutti i modelli di automobile.

Nel linguaggio non possiamo fare a meno di termini generali come “automobile” e questo termine, se ammettiamo che significhi davvero qualcosa, non significa quel particolare modello di auto piuttosto che un altro, ma sta a significare un'idea più ampia che racchiude tutti i modelli, vale a dire la classe universale delle automobili.

Questa classe non finirà, se mai un giorno gli esseri umani cessassero di produrre automobili, e in un certo senso non è neanche stata creata con la produzione della prima automobile; non ha neanche una posizione fisica nello spazio o nel tempo: l'idea è eterna e al di fuori del mondo sensibile.

La parte metafisica asserisce che con il termine “automobile” ci si riferisce ad un unico autoveicolo ideale, l'Automobile creata dalla divinità.

I singoli modelli partecipano della natura dell'Automobile, nel senso che sono soltanto delle imitazioni imperfette, ed è proprio questa imperfezione che ne rende possibile la molteplicità.

La conseguenza più stravagante è che solo l'Automobile ideale è reale, mentre i vari modelli di auto sono soltanto apparenti.

E ancora, nonostante ci siano molti oggetti a forma di letto, in realtà esiste solo un'unica forma o idea di letto, quella creata dalla divinità, e così via per tutti gli oggetti. 

Così come le immagini riflesse in uno specchio non sono reali, anche i vari letti del mondo sensibile non lo sono, essendo soltanto copie dell'idea di letto reale.

A proposito dei letti costruiti dai falegnami si può avere solo opinione, mentre sul letto costruito dalla divinità si può avere conoscenza.

Platone suddivide a loro volta conoscenza e opinione in due sotto categorie, ottenendo così quattro livelli a proposito di ciò che può essere percepito e conosciuto.

Nella posizione più in basso troviamo l'ambito delle ombre e delle immagini ritratte o riflesse degli oggetti sensibili. Il tipo di conoscenza che essi generano è l'eikasia, ovvero la supposizione o percezione delle immagini. 

Subito dopo vi è la pitis, ovvero la credenza non verificata che riguarda gli oggetti sensibili veri e propri, come pietre, alberi e animali, forse così chiamata per il credito che solitamente si attribuisce ad essi.

Nel loro insieme questi due tipi di conoscenza costituiscono l'opinione (doxa), sebbene la pitis sia superiore all'eikasia, perché gli oggetti sensibili sono superiori alle loro ombre e immagini.

Si comprende la celebre condanna mossa da Platone nei confronti dell'arte imitativa. A suo avviso ogni opera d'arte sarebbe sempre e comunque una copia imperfetta delle vere idee che risiedono nel mondo ultrasensibile Iperuranio. 

Non c'è spazio per la creatività nella filosofia platonica, l'artista non è un genio creativo, ma uno scriba maldestro che ricalca le idee divine perfette ed immutabili, ed immancabilmente le raffigura in modo imperfetto, peggiorandole. 

Non oso immaginare che cosa avesse potuto pensare di quei pittori che ritraggono gli oggetti o la natura: essi avrebbero messo su tela una copia imperfetta di una copia già di per sé imperfetta, allontanandosi ancora di più dalle perfezioni del vero mondo ultrasensibile. 

Nelle posizioni più in alto si entra nell'ambito degli oggetti intellegibili, che a loro volta devono sottostare ad una gerarchia.

Prima vi è la dianoia, cioè la ragione (scientifica), ed infine, nel livello più alto di tutti, l'intelligenza (filosofica).

La ragione è propria della conoscenza matematica, che muove i suoi passi da assunti, chiamati assiomi, per trarre delle conclusioni, dette teoremi, in modo necessario secondo una logica prestabilita.

La matematica, infatti, è un sistema assiomatico formale ipotetico-deduttivo che non può dirci “ciò che è”, ma “ciò che sarebbe se”, nel quale gli assunti di partenza possono essere arbitrari. 

Quando un matematico parla di triangoli rettangoli assume che essi siano effettivamente dei triangoli rettangoli, senza disquisire su di essi, nonostante di fatto sia impossibile disegnare un triangolo rettangolo perfetto nella realtà sensibile.

Se vogliamo attribuire agli enti della matematica una realtà più che ipotetica dobbiamo ricercarla in un mondo sovrasensibile, nel quale i triangoli rettangoli siano effettivamente tali. 

Ciò non può essere fatto dalla ragione, ma dall'intelligenza che è in grado di mostrare l'esistenza dell'Iperuranio nel quale gli enunciati della matematica possono essere affermati in modo categorico e non più ipotetico.

Secondo Platone, l'intelligenza filosofica è superiore alla ragione matematica, perché meditante il metodo dialettico può analizzare le ipotesi mettendole in dubbio. 

L'intelligenza filosofica non considera le ipotesi come punti di partenza per derivare delle conclusioni, ma come base per risalire a ipotesi superiori, da sottoporre a discussione fin quando non viene individuato un punto di partenza indiscutibile poiché incontrovertibile (ammesso che ciò sia sensato e possibile!). 

E questo principio è individuato da Platone nell'idea del bene, che si trova al vertice del mondo delle idee, e rappresenta anche il punto culminante della ricerca e dell'addestramento filosofico. 

Ricapitolando, le ombre e le immagini riflesse sono copie degli oggetti naturali, che a loro volta sono copie degli enti matematici che sono copie delle sostante che costituiscono il mondo dell'essere.

Il mondo dell'essere è caratterizzato dall'unità e dall'ordine assoluto, gli enti matematici ne riproducono la proporzione e, a loro volta, le cose naturali riproducono i rapporti matematici; ecco perché quando indaghiamo il mondo sensibile ricorriamo alla misura.

Tutta la conoscenza non può che culminare nella conoscenza dell'essere, quindi l'educazione dell'uomo deve condurlo gradualmente dal mondo sensibile al punto più alto del mondo dell'essere che è il bene. 

Platone non definisce in modo diretto che cosa sia il bene, ma cerca di farlo avvalendosi di un'analogia. 

Nel mondo dell'essere il bene svolge le medesime funzioni del Sole nel mondo sensibile. In altri termini, sussiste la seguente proporzione: il Sole sta alle cose sensibili come il bene sta alle cose intellegibili.

Così come il Sole, che con la sua luce rende visibili le cose e consente anche agli esseri viventi di nascere, crescere e nutrirsi, il bene non solo rende conoscibili le sostanze del mondo intelligibile, ma gli conferisce l'esistenza di cui sono dotate.

Platone cerca di far intendere la chiarezza della visione intellettuale, e la confusione della visione percettiva, mediante un'analogia con la vista.

Il senso della vista non richiede solo l'occhio e l'oggetto da visualizzare, ma anche la luce.

Se la luce è fioca vediamo solo delle ombre confuse e senza di essa vi è il buio più totale, ma quando la luce investe l'oggetto si ha una visione chiara e nitida.  

Il mondo delle idee è ciò che vediamo quando gli oggetti sono illuminati dalla luce del Sole, mentre il mondo dei sensi è un mondo in penombra. 

In questa analogia l'occhio è paragonato all'anima, il Sole, vale a dire l'origine della luce, al bene (o anche alla verità).

Il bene non è un'idea tra le altre, ma è la causa delle idee; non è una sostanza al pari delle idee, ma è superiore alla sostanza. 

Il bene è la perfezione stessa, mentre le idee sono delle perfezioni, cioè forme del bene, che a sua volta è anche causa dell'essere.

L'idea suprema del bene è la causa della scienza, ciò che attribuisce verità al fatto conosciuto e conferisce il potere di conoscere a chi lo apprende.

Mediante la contemplazione del bene assoluto si può giungere alla meta del mondo intellegibile, e quindi, individuare il bene significa anche individuare la realtà (intesa in senso platonico), perché la realtà, nella contrapposizione con l'apparenza, risulta essere completamente e perfettamente buona. 

Per preparare gli uomini a questa visione sono di fondamentale importanza tutte quelle discipline che hanno come oggetto gli aspetti dell'essere, vale a dire: 

l'aritmetica, come scienza del calcolo e dei rapporti; la geometria, come disciplina delle forme immutabili e perfette; l'astronomia, in quanto scienza del moto più ordinato e perfetto, quello dei cieli; ed infine la musica, che favorisce lo studio dell'armonia.

La vera finalità dell'acquisizione della conoscenza del bene non è la contemplazione del bene in sé, ma consiste nell'impiegarla per fini politici, per la fondazione di una comunità giusta e felice. 

E chi meglio dei filosofi, che hanno conosciuto il vero esemplare bel bene, sono adatti a governare la città?

In questo modo lo Stato potrà essere guidato da persone sveglie che non bramano il potere, perché la loro massima attrazione è il sapere, e che conoscendo il bene non saranno in grado di fare altrimenti che usare la conoscenza per il bene della città.  

Per far comprendere al meglio ai suoi interlocutori il percorso di formazione del filosofo destinato a reggere la città, Platone ricorre ad un celebre mito: quello della caverna.

All'interno di una caverna ci sono dei prigionieri che sono stati incatenati fin dall'infanzia con la testa e le spalle adiacenti ad un muro.

Dietro di loro si trova l'uscita, in mezzo, tra l'uscita ed il muro, vi è un grande fuoco ed un corridoio, dove alcune persone trasportano oggetti di varie forme che superano in altezza il muro.

L'unica cosa che gli schiavi riescono a vedere sono le ombre degli oggetti che la luce del fuoco proietta sul fondo della caverna che si trova difronte agli schiavi. 

Così facendo, essi scambiano le ombre degli oggetti per oggetti reali; paradossalmente se gli uomini che trasportano questi oggetti parlassero, gli schiavi, a causa dell'eco, si direbbero convinti che la voce provenga dalle ombre proiettate. 

Gli schiavi incatenati stanno evidentemente sperimentando il livello più basso della conoscenza: le ombre degli oggetti sensibili. La loro non è conoscenza ma opinione, eppure essi nel corso degli anni si sono convinti che le ombre rappresentino la realtà.

Se uno di essi riuscisse a liberarsi potrebbe anche comprendere la verità, ma il percorso non sarebbe facile perché volgendo lo sguardo verso il fuoco ne resterebbe abbagliato e preferirebbe tornare a guardare le ombre piuttosto che gli oggetti da cui esse provengono.

Una volta adattatosi alla luce del fuoco, quell'uomo riuscirebbe a scorgere l'uscita della caverna, e recandosi al di fuori di essa riuscirebbe a vedere la luce del Sole, ma dovrebbe ancora una volta abituarsi progressivamente alle nuove condizioni d'illuminazione.

Nella prima fase il prigioniero riuscirebbe a distinguere soltanto le ombre delle persone e le loro immagini riflesse nell'acqua; con il passare del tempo potrebbe guardare gli oggetti stessi illuminati dal Sole. 

Successivamente, di notte, potrebbe volgere lo sguardo al cielo a contemplare i corpi celesti ed, infine, di giorno, il Sole stesso.

A quel punto si accorgerebbe che è proprio il Sole a produrre le stagioni e gli anni, e a governare tutte le cose del mondo visibile e ad essere causa, in un certo modo, di tutto quello che egli e suoi compagni possono vedere.

Tenendo in mente che il Sole sta al bene, si comprende come quell'uomo sia risalito via via sino al gradino più alto della conoscenza.

A questo punto, se è un vero filosofo, sentirà il dovere di ridiscendere nella caverna per salvare gli altri, mettendo al loro servizio il sapere che è riuscito ad acquisire. Ma l'impresa non sarà facile.

Tornando nella caverna la sua vista sarà offuscata e non riuscirà a distinguere le ombre; così verrà deriso dai prigionieri che lo chiameranno “uomo dagli occhi rovinati”.

La sua temporanea inabilità gli sarebbe da ostacolo nell'opera di convincimento, perché gli schiavi riconoscono la conoscenza solo a chi meglio sa distinguere le ombre. 

Ma il filosofo sa che quella non è la verità e prova pietà per essi; se però tentasse di liberarli e gli indicasse l'uscita dalla caverna, essi proverebbero dolore a causa della luce; se li portasse al di fuori della caverna con la forza, potrebbero addirittura ribellarsi e ucciderlo.

Si comprende allora che la ricerca della verità è un atto individuale che non può che muovere i suoi passi dalla volontà sincera e autentica di comprendere la realtà delle cose.

Dopo aver esposto il pensiero platonico riguardante la dottrina delle idee, e il relativo Mito della caverna, è necessario addentrarsi in un breve commento.

L'importanza della dottrina delle idee risiede nell'aver messo in risalto per la prima volta il problema degli universali.

Platone comprese che non è possibile esprimersi in un linguaggio che ricorre soltanto a nomi propri di cose e persone: i nomi comuni, come “automobile”, “uomo” o “cane”, sono necessari. Oltre a quest'ultimi, ci serviamo anche di termini che stabiliscono delle relazioni, come “uguale”, “maggiore” o “dopo”.

Tutte queste parole per noi hanno un senso, ma se ammettessimo che il mondo fosse costituto solo da singole cose, come quelle designate dai nomi propri, difficilmente riusciremmo ad attribuirgli un significato.

Entro certi limiti, questo argomento può essere considerato valido, e costituisce una prova a supporto degli universali.

Al netto di ciò, e del fascino che può suscitare nel lettore, la dottrina delle idee contiene degli errori, ed è lo stesso Platone ad accorgersene, tanto che nel Parmenide compirà uno dei più grandi atti di autocritica della storia del pensiero. 

Nel Parmenide il fratellastro di Platone, Antifone, narra di una famosa discussione tra Parmenide, Zenone e Socrate, avvenuta quando Parmenide era avanti con gli anni e Socrate invece era giovane.

Socrate espone la teoria delle idee. Ma che cos'è un'idea? Parmenide precisa che l'idea è una forma unica di una molteplicità di cose, che appare tale a chi guarda questa collezione di cose con l'intelletto. Ma di quali cose ci sono le idee?

Socrate si dice certo che esistano le idee di rassomiglianza, giustizia, bellezza, bontà; ha qualche dubbio a proposito dell'esistenza delle idee di cose come uomo, fuoco, acqua; respinge con forza che vi siano idee di cose spregevoli, come fango, capelli e sudiciume.

Poi, però, confessa che vi sono momenti in cui pensa che non vi sia nulla che non abbia un'idea, ma che rifugge da questa eventualità perché teme di cadere in un pozzo senza fondo di contraddizioni e assurdità.

Parmenide replica che i dubbi di Socrate sono dovuti alla sua giovinezza, e verrà il tempo in cui non disprezzerà neanche le idee delle cose più spregevoli. 

Socrate fa notare che, da questo punto di vista, ci sono cose di cui tutte le altre partecipano, e da cui derivano i loro nomi; ad esempio, i simili diventano simili perché partecipano della somiglianza, le cose grandi perché partecipano della grandezza e così via.

Parmenide inizia a sollevare delle difficoltà. Gli oggetti sensibili partecipano dell'idea interamente o solo in parte?

Nel primo caso, sarebbero contemporaneamente in più posti, nel secondo, l'idea sarebbe suddivisibile e una cosa che partecipasse all'idea della piccolezza assoluta sarebbe ulteriormente divisibile, il che è assurdo.

Dalla moltiplicazione delle idee scaturisce la moltiplicazione all'infinito delle idee stesse. 

Se per ipotesi si ha un'idea per una certa collezione di oggetti, allora anche quella collezione di oggetti sommata alla loro idea darà luogo ad una nuova idea che abbraccia sia gli oggetti particolari che l'idea originaria. 

Il risultato sarà una terza idea, che a sua volta ne genererà una quarta, considerando gli oggetti originari più le precedenti idee, e così via...

La discussione procede e le criticità continuano ad emergere, fin quando Parmenide chiede a Socrate: che cosa ne farai ora della filosofia? Di fatto, non si raggiunge alcuna conclusione definitiva.

Un altro errore commesso da Platone consiste nel non saper intendere la sintassi filosofica: egli commette un errore analogo a dire che “umano è umano”. 

Si può affermare che Socrate è umano, o che è brutto, perché umano e brutto sono degli aggettivi, ma non si può dire che la bellezza sia bella o la bruttezza brutta.

Platone entra in crisi anche con i termini relativi: egli pensa che se una cosa A=3 è più grande di B=2 e più piccola di C=5, allora debba essere allo stesso tempo grande e piccola, un fatto che ai suoi occhi appare contraddittorio.

Contro la realtà degli oggetti sensibili sostiene che essi sono al tempo stesso belli e brutti, il doppio e la metà... ma non vi è alcuna contraddizione nel sostenere che, ad esempio, a nostro giudizio una parte di un'opera d'arte sia brutta ed un'altra sia bella, o che 2 sia il doppio di 1 ma la metà di 4. 

In merito alle conseguenze dovute alla distinzione tra apparenza e realtà, si può argomentare in modo decisamente forte contro Parmenide e Platone. 

Infatti, se l'apparenza appare in realtà, seppur sotto forma di cose sensibili, non si può dire che non sia niente, quindi in qualche modo fa parte essa stessa della realtà. 

Se invece l'apparenza non appare in realtà, a proposito di cosa, o se preferite, per quale motivo, decidiamo di discutere di e su essa? 

Parmenide e Platone potrebbero replicare che l'apparenza non appare in realtà, ma sembra che appaia. 

Al che, si potrebbe nuovamente chiedere: ma sembra che appaia realmente, o sembra solo apparentemente che appaia? Ben presto si dovrà concludere che essa faccia parte della realtà.

Proseguiamo con alcune considerazioni riguardanti gli aspetti religiosi ispirati al pensiero di Platone. 

La concezione platonica del bene come causa dell'essere, portata alle massime conseguenze, è alla base delle successive interpretazioni religiose della dottrina filosofica di Platone.

Alcune correnti di pensiero, tra le quali il neoplatonismo fu l'iniziatrice, insistendo sulla causalità del bene finirono per identificarlo con Dio. 

Tutto ciò, però, non trova alcun riscontro negli scritti platonici; ciò che Platone intende sostenere è la tesi dell'identificazione del potere causale con la perfezione, ovvero che una cosa è tanto più causa quanto più è perfetta.

Quanto è stato appena affermato fu fatto proprio dal neoplatonismo ma le implicazioni teologiche che essi vi trovarono sono estranee a Platone.

Dalle dottrine platoniche ha origine un'altra questione davvero interessante, che turbò profondamente molti teologi.

Se Platone ha ragione, le idee possono essere oggetti del pensiero, ma non sono pensiero in sé; inoltre, risultano essere entità al di fuori del tempo.

Ora, risulta davvero difficile immaginare coma la divinità possa aver creato, ad esempio, l'idea del letto senza che, nell'atto della decisione, il suo pensiero abbia avuto per oggetto proprio quell'idea del letto platonico cui dette l'esistenza.

Ne consegue che ciò che è fuori dal tempo deve essere increato; ma il mondo dello spazio e del tempo, invece, in linea teorica, può esser stato creato.

Il problema è che quel mondo andrebbe a coincidere con il mondo di cui abbiamo quotidiana esperienza, vale a dire il mondo sensibile, esattamente ciò che Platone aveva giudicato imperfetto, illusorio e cattivo.

Da qui, la logica ci porta a concludere che la divinità abbia creato soltanto l'illusione e il male, e così, secondo i canoni cattolici, la divinità sarebbe più vicina a Satana che non al buon Dio.

Un cristiano seguace di Platone potrebbe sostenere che così come il compito del filosofo è quello di tornare nella caverna per aiutare gli uomini, Dio stesso si sarebbe incarnato per tornare sulla Terra a migliorare la sua creazione.

Ma a differenza della divinità, il filosofo conosceva già la caverna e vi fa ritorno spinto dalla sua bontà d'animo.

Ciò che continua a non spiegarsi, è perché un dio buono e perfetto non si sia semplicemente accontentato del mondo delle idee e abbia voluto creare un mondo imperfetto, quando avrebbe potuto evitare di crearlo o, al limite, di creare le “caverne”.

Il mito platonico della Caverna si presta a molteplici interpretazioni, anche decisamente attuali.

Il tutto può essere rivisto come una descrizione della vita di Socrate, il maestro di Platone, che, dopo aver risalito la strada verso la verità, fu condannato a morte per aver cercato di far compiere agli uomini, vittime della loro ignoranza, il medesimo cammino. 

Ma si potrebbe pensare che gli schiavi incatenati siano gli odierni membri della società che hanno accettato acriticamente il modello socio-economico capitalistico così come gli è stato presentato mediante l'istruzione, l'indottrinamento e la propaganda.

Essi non hanno mai intrapreso una riflessione originale, ma si sono soltanto limitati ad assorbire come delle spugne le informazioni diffuse dalla scuola e dai mass media, per farle proprie senza neanche degnarsi di cercare di stabilirne la veridicità, per poi ripeterle come degli amplificatori in modo da rafforzare la visione dominante: esattamente ciò che è utile al potere

Così finiscono per credere che la ricetta della felicità consista nel trovarsi un impiego per 8-10 ore al giorno, al fine di consumare beni e servizi.

Questa visione è rafforzata dal fatto che senza alimentare una continua crescita dei consumi l'economia entra in crisi, i lavoratori vengono licenziati e così non solo non possono più consumare il superfluo, ma neanche il necessario.

Quando l'occupazione diminuisce, si cerca di aumentare il lavoro con ogni mezzo: sostituendo oggetti ancora funzionanti con incentivi e diminuendone scientemente la durata in vita media, creando mansioni pretestuose aumentando l'inefficienza ad esempio mediante la burocrazia. E così via...

Ma ad un certo punto un filosofo potrebbe iniziare ad esercitare il libero pensiero, superando i condizionamenti mentali e comprendendo la verità.

La domanda che può dare il via alla riflessione può essere la seguente: i fini dell'economia sono anche i nostri fini? 

Il filosofo potrebbe comprendere che l'uomo è diventato un servo dell'economia, che fa ciò che è bene per il sistema nonostante ciò lo conduca ad una deriva dalla felicità.

Intorno a sé non vede persone felici, ma individui omologati privati della propria unicità, che cercano di colmare invano il proprio vuoto esistenziale consumando.

La ricerca di un consumo crescente ha condannato l'umanità ad essere schiava del lavoro, ed ha prodotto un inquinamento ambientale di una tale portata da compromettere l'intero ecosistema, mettendo in dubbio la sopravvivenza stessa del genere umano.

L'uomo non dovrebbe vivere per lavorare, ma lavorare per vivere, e dovrebbe iniziare a consumare il giusto, il necessario. 

E ancora, lo scopo della vita non può ridursi al lavoro, gli esseri umani dovrebbero essere liberi di poter esprimere la propria unicità. 

Il lavoro non dovrebbe essere neanche obbligatorio, ma una matura, libera e volontaria espressione del proprio essere.

Grazie ai robot e ai software informatici gran parte del lavoro umano non è più necessario, e lo sarà sempre di meno. 

I beni dovrebbero durare più a lungo possibile, e il lavoro dovrebbe essere automatizzato, in modo da minimizzare l'impatto ambientale e massimizzare la libertà umana.

Ma tutto ciò è incompatibile con il sistema economico, ecco perché quest'ultimo dev'essere ripensato. 

Se oggi chi detiene il potere intende ridurre l'umanità in schiavitù nei confronti del lavoro, è perché un lavoro totalizzante è un ottimo mezzo per esercitare il controllo sociale. 

Persone stanche e occupate, che dipendono totalmente dalla propria subordinazione lavorativa per sopravvivere, non riusciranno mai a ribellarsi, perché non hanno tempo per pensare e temono di finire in povertà.

Il filosofo, allora, scriverà un saggio nel quale sostiene queste tesi, e organizzerà delle conferenze per divulgare la verità, ma la massa non comprenderà il suo logos, e fraintenderà il suo pensiero.

Lo chiameranno “pazzo”, gli diranno che egli intende “toglierli il lavoro”, ovvero ciò a cui essi ambiscono e grazie al quale pensano di poter “vivere”, senza rendersi conto che in questo modo stanno soltanto facendo il gioco del potere, annullando le proprie esistenze. 

Potrebbero essere liberi dal lavoro, pur avendo accesso ai beni ed ai servizi prodotti dal sistema automatico, se solo i mezzi di produzione fossero dell'umanità e il fine del loro impiego consistesse nel soddisfare i veri bisogni di tutti gli esseri umani. 

E invece preferiscono continuare a competere e ad essere sfruttati, invocando a gran voce il lavoro, ovvero la propria schiavitù. 

Così facendo la massa continuerà a lavorare, a consumare e a inquinare e sarà infelice, ma se avesse usato la ragione avrebbe potuto comprendere la soluzione per vivere libera e felice ripristinando l'integrità e la stabilità dell'ecosistema.

Mirco Mariucci

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