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domenica 30 settembre 2018

La disoccupazione reale è almeno il doppio rispetto a quella ufficiale!


Disoccupati, inattivi e scoraggiati

In molti non sanno che il tasso di disoccupazione ufficialmente dichiarato è ampiamente sottostimato, perché la definizione utilizzata per fini statistici non rispecchia affatto quel genere di disoccupato che ciascun individuo ha in mente.

Si consideri che per risultare “occupati” è sufficiente aver compiuto una sola ora di lavoro nella settimana di riferimento in cui avviene l'indagine statistica, in una qualsiasi attività che preveda un corrispettivo monetario o in natura.  

Inoltre, vengono considerati “occupati” anche tutti quegli individui che prestano almeno un’ora di servizio non retribuito nella ditta di un familiare con cui collaborano abitualmente. 

Ovviamente, sono considerati occupati anche i lavoratori assenti dal lavoro, ad esempio, per ferie o malattia. Un po' meno intuitivamente, risultano occupati anche quegli individui che, pur non lavorando, continuano a percepire almeno il 50% della loro precedente retribuzione (si pensi pure ai cassaintegrati).

Definire “occupato” un soggetto che lavora soltanto qualche ora nella settimana di riferimento dell'indagine statistica è una scelta alquanto discutibile, che però è assai utile ai governi per gonfiare i dati sull'occupazione. 

Ma i trucchi sintattici e semantici per mentire con le statistiche non finiscono qui...

Fissata una definizione di “occupato”, per quanto discutibile essa sia, ogni persona dotata di buon senso penserà che per stimare i disoccupati basti sottrarre al totale della popolazione i bambini, gli studenti e i pensionati. 

Così facendo si avrebbe a disposizione la forza lavoro potenziale e, conoscendo il numero degli “occupati”, si potrebbe facilmente calcolare il tasso di disoccupazione effettuando una divisione. Ma le cose non stanno affatto così! 

Vi sono delle ulteriori classificazioni per quei soggetti che l'uomo della strada farebbe rientrare nella categoria dei disoccupati, ma che invece, per finalità statistiche, vengono etichettati con un altro nome: si tratta degli "inattivi" e degli "scoraggiati".

Si definisce inattivo un soggetto senza lavoro che vorrebbe lavorare ma che non sta cercando attivamente un lavoro; tanto per incrementarne il numero, sono classificati come inattivi anche gli individui che stanno cercando lavoro, ma che per qualche motivo non sono disponibili a cominciare l'attività lavorativa entro un breve lasso di tempo.

Gli scoraggiati, invece, sono individui inattivi di 15-64 anni che non hanno cercato lavoro nelle 4 settimane precedenti l’intervista finalizzata alla realizzazione della statistica, perché ritengono già in partenza che non riuscirebbero a trovarlo!

Ciò detto, è ufficialmente considerato “disoccupato” ogni individuo che soddisfi le seguenti condizioni: 

1) età compresa tra i 15 e i 64 anni; 
2) non essere occupato, secondo la definizione sopra specificata; 
3) essere disponibile ad accettare un’offerta di lavoro nell’arco delle 2 settimane successive all'intervista (altrimenti si è considerati “inattivi”); 
4) aver attivamente cercato un’occupazione nelle 4 settimane precedenti a quella di riferimento dell'indagine (altrimenti si è considerati “scoraggiati”).

Fissate queste definizioni, la forza lavoro si calcola sommando gli "occupati" e i "disoccupati", escludendo così gli inattivi ed anche gli scoraggiati (che fanno parte di un'altra categoria definita forza lavoro potenziale), mentre per ottenere il tasso di disoccupazione basta fare il rapporto tra le persone disoccupate ma attive e la corrispondente forza lavoro.

In un certo senso, gli inattivi e gli scoraggiati vivono sospesi in una sorta di Limbo, e pertanto non fanno parte del conteggio, in quanto non risultano né occupati né disoccupati, dato che è vero che non hanno un lavoro ma o non stanno cercando un'occupazione da un po' di tempo o non sono disposti ad iniziare a lavorare a breve termine.

E in tutto ciò non abbiamo neanche preso in considerazione l'idea d'introdurre una definizione di "sotto-occupato", una questione che per il momento ci risparmiamo di affrontare.

Ricapitoliamo: quando si sente dire che il tasso di disoccupazione in Italia è del 10,8%, non significa che il 10,8% degli italiani è senza lavoro, ma che il 10,8% della "forza lavoro", così come precedentemente definita ("occupati" + "disoccupati") cerca un lavoro ma non riesce a trovarlo. In altri termini, ciò significa che la percentuale è calcolata in rapporto alla forza lavoro. 

Il tasso di occupazione e quello di inattività (e attività) vengono invece calcolati in rapporto alla popolazione di riferimento.

Anche nel caso del tasso di disoccupazione giovanile, vale a dire quello riferito alla fascia di età compresa tra i 15 e i 24 anni, la percentuale va rapportata al numero di chi cerca lavoro, escludendo dal calcolo i giovani inattivi.

Capite che un simile metodo di calcolo può dar luogo ad una gran confusione, oltre ad impedire di riuscire a trasmettere al pubblico la realtà dei fatti in modo semplice e fedele. 


Disoccupazione ufficiale e realtà

In alcuni casi, con queste definizioni, si possono verificare delle dinamiche alquanto curiose...

Se la disoccupazione diminuisce, non è detto che ci siano più persone occupate, perché può darsi che la disoccupazione sia calata a causa di un aumento del tasso di inattività, ovvero a seguito del passaggio di un certo numero d'individui dalla condizione di ricerca attiva del lavoro alla condizione di scoraggiamento!

Ad esempio, se alcuni disoccupati perdono la speranza e smettono di cercare lavoro, divenendo scoraggiati, ecco che escono dal conteggio della forza lavoro, e così si verifica una diminuzione del tasso di disoccupazione, che però è solo apparente, perché in realtà il numero degli occupati è rimasto il medesimo! 

In modo duale, se la disoccupazione sale, non è affatto detto che l’occupazione debba scendere! 

Infatti, un aumento del tasso di disoccupazione potrebbe verificarsi a causa di una diminuzione dell’inattività, perché alcune persone scoraggiate si sono messe alla ricerca di un lavoro.

È del tutto evidente che per dare un resoconto completo e non ambiguo, si dovrebbe riportare il numero di occupati a tempo pieno, part-time, sotto-occupati assieme al quantitativo di disoccupati, inattivi e scoraggiati, e non soltanto la percentuale dei disoccupati calcolata con una particolare definizione di forza lavoro.

Ma a chi giova complicare oltremodo le cose alterando la percezione della realtà?

Un altro parametro di semplice comprensione, puntualmente omesso dal dibattito pubblico, è il montante delle ore lavorate, vale a dire il totale delle ore di lavoro effettivamente svolte dai lavoratori di un Paese in un certo periodo di tempo.

Anche in questo caso, però, bisogna fare attenzione, perché adottando le definizioni ufficiali le cose si complicano e si possono nuovamente verificare dei casi paradossali. Ad esempio, il tasso di disoccupazione può diminuire nonostante anche il montante delle ore lavorate si sia ridotto! 

Ciò può avvenire se assieme alla diminuzione del numero delle ore totali lavorate si verifica anche un calo dell'orario di lavoro dei lavoratori sufficientemente elevato, a patto che il numero di inattivi resti invariato (lascio al lettore l'analisi delle altre casistiche!).

Al netto della comprensione delle (simpatiche) dinamiche sopra descritte, è interessante smascherare le menzogne che si celano dietro alle statistiche ufficiali, cercando di stimare il “reale” tasso di disoccupazione.

Chi si è divertito a farlo, sostiene che in Italia l'effettiva percentuale dei disoccupati sia almeno il doppio rispetto a quella ufficiale, mentre se nel conteggio si considerano anche i sotto-occupati, secondo una certa definizione, si arriva addirittura ad un tasso del 39%. 

Del resto, la situazione italiana nel 2016 era le seguente: a fronte di una popolazione di 60 milioni e 441 mila abitanti, vi erano soltanto 22 milioni e 465 mila persone "occupate". Ne consegue che, per un motivo o per l'altro, 37 milioni e 976 mila italiani non lavoravano.

Tra questi, 8 milioni 371 mila erano decisamente troppo giovani per lavorare (<15 anni) mentre altri 12 milioni 534 mila erano troppo anziani per farlo (>64 anni): restano però ulteriori 17 milioni e 71 mila lavoratori potenziali.

Questo insieme di persone, a loro volta, si suddivide in due sottogruppi: quello dei "disoccupati" per fini statistici (3 milioni e 33 mila persone) e quello di chi non ha un'occupazione e nemmeno la cerca (14 milioni e 38 mila individui).

Approfondendo l'analisi sul gruppo di coloro che non hanno un'occupazione e nemmeno la cercano, si scopre che 10 milioni e 484 mila italiani non sono disponibili a lavorare, mentre il resto vorrebbe farlo, ma non cerca un impiego.  

Prima di pensare che gli italiani siano dei fannulloni, bisognerebbe togliere dal gruppo dei 14 milioni e 38 mila individui, tutti gli studenti con un'età maggiore o uguale a 15 anni che non avevamo ancora conteggiato (circa 2 milioni e 110 mila persone), le casalinghe (7 milioni e 338 mila) ed altre categorie, come ad esempio gli inabili al lavoro, che però, purtroppo, non riesco a quantificare con precisione (assumiamo che siano 1 milione e 36 mila per far tornare i conti)

È del tutto legittimo che uno studente voglia dedicare il suo tempo allo studio, senza dover lavorare, o che una donna scelga di godersi i primi anni di vita dei propri figli restando a casa, senza considerare che in molti devono/vogliono prendersi cura di anziani ed invalidi e/o magari non possono/vogliono pagare qualcuno che lo faccia al posto loro. 

Al netto di queste situazioni, a mio avviso più che comprensibili, giungiamo alla cifra di 3 milioni e 554 mila individui che dovrebbero far parte della forza lavoro ma che in realtà non sono conteggiati ai fini statistici nel calcolo della percentuale dei disoccupati: si tratta di persone che vorrebbero lavorare ma che non cercano lavoro, non perché non vogliono lavorare ma magari perché, dopo numerosi tentativi andati a vuoto, hanno perso fiducia nelle loro possibilità di trovare un lavoro.

Sulla base di questi dati, nel 2016 il tasso di disoccupazione ufficiale in Italia era pari all'11,9%, ma si sarebbe più correttamente dovuto segnalare un tasso del 22,67% ottenuto includendo perlomeno gli scoraggiati: chissà che reazione avrebbe avuto l'opinione pubblica se si fossero diffusi questi dati, peraltro anch'essi sottostimati, visto che ad esempio abbiamo escluso dal conteggio in modo piuttosto arbitrario più di 7 milioni di casalinghe. 

Recentemente alcuni politici italiani hanno dichiarato che l'occupazione è tornata ai livelli pre-crisi, peccato però che, se si analizzasse il numero di ore lavorate, si scoprirebbe che nei primi 6 mesi del 2008 i lavoratori dipendenti trascorsero in fabbrica ed in ufficio un totale di 23,1 miliardi di ore, mentre nel 2017 il montante è sceso a 21,9 miliardi di ore.

Osserviamo che, se il numero di ore lavorate è più basso rispetto al livello pre-crisi, affermare che il numero degli occupati è analogo, significa dire che la quantità di contratti a tempo pieno è diminuita.

Per completezza, segnaliamo anche che, attualmente, in Italia il numero di persone di età compresa tra i 15 e i 64 anni che lavorano mediamente meno di 10 ore alla settimana è di poco superiore alle 560.000 unità e che nel periodo compreso tra il 2002 e il 2015 la percentuale di lavoratori part time è salita del 9,8%. 

Quello dell'Italia non rappresenta un caso isolato. Si consideri che in Europa la percentuale di inattivi sul totale della popolazione in età lavorativa (15-64 anni) è mediamente del 27,1%, una percentuale che corrisponde a circa a 89 milioni d'individui.

Tra questi il 35% dichiara di essere uno studente o di frequentare un corso di formazione; il 16% di essere in pensione, un altro 16% di essere affetto da disabilità o da malattie gravi e un 10% sostiene di accudire bambini o adulti disabili; inoltre, il 78% degli inattivi intervistati ha risposto di non desiderare un lavoro. 

In Europa, quindi, ci sarebbero almeno 19,6 milioni di scoraggiati non conteggiati nella percentuale ufficiale di disoccupazione, a fronte di circa 18,7 milioni di individui ufficialmente classificati come disoccupati. 

La situazione è talmente eclatante che perfino la Banca Centrale Europa è costretta ad ammettere che il tasso di disoccupazione reale sia ben più alto di quello ufficiale, e si attesterebbe a circa il doppio rispetto a quanto usualmente dichiarato. 


Disoccupazione e orario di lavoro

Dati alla mano, per risolvere l'annoso problema della disoccupazione presente in Paesi ricchi come l'Italia, sarebbe più che sufficiente diminuire l'orario di lavoro, seguendo l'indicazione suggerita dal celebre motto: lavorare meno, lavorare tutti.

Per cominciare, sarebbe già un ottimo passo vietare gli straordinari. E invece no: da una parte c'è chi si ammazza di lavoro e non ha tempo per vivere e dall'altra c'è chi non riesce a vivere perché non ha un lavoro. 

Del resto, se in Germania si lavora in media soltanto per 1.363 ore all'anno e si segnala un tasso di disoccupazione del 3,6 %, non si capisce perché in Italia i lavoratori debbano dedicare al lavoro 1.730 ore, vale a dire 367 ore (circa 46 giorni lavorativi) in più rispetto ai loro colleghi, ricevendo per giunta una paga inferiore. 

Come chiunque può intuire, se gli italiani lavorassero come i tedeschi, improvvisamente il tasso di disoccupazione crollerebbe, oppure, in modo duale, se i tedeschi lavorassero quanto gli italiani, ecco che in Germania il tasso di disoccupazione crescerebbe in modo considerevole e la situazione non sembrerebbe più così rosea come invece viene usualmente dipinta. 

Come sostenuto dal sociologo Domenico De Masi, in Italia il montante delle ore lavorate è prossimo ai 40 miliardi di ore all'anno, che divise per circa 1.730 ore di lavoro pro-capite restituiscono un totale di circa 23 milioni e 121 mila posti di lavoro.

Ma se si dividesse il medesimo monte ore per l’orario di lavoro francese (1.472 ore all'anno pro capite) si avrebbero circa 4 milioni di posti di lavoro in più, mentre se gli italiani lavorassero come i tedeschi (1.363 ore all'anno pro capite), come per magia, si otterrebbero circa 6 milioni e 200 mila posti di lavoro in più.

A quel punto, basterebbe redistribuire la ricchezza esistente, ad esempio diminuendo la quota dei profitti per far aumentare quella dei salari, riuscendo così a ripristinare i precedenti livelli di retribuzione, pur lavorando di meno! 

Ed ecco che, nel breve termine, l'annoso problema della disoccupazione sarebbe risolto.

Del resto, se la produttività è aumentata, e con essa è aumentata anche la ricchezza (o meglio la ricchezza è aumentata se s'ignorano i disastri ambientali causati dalle attività umane, ma per il momento lasciamo stare...) com'è possibile che, come minimo, i lavoratori non possano guadagnare il medesimo stipendio, lavorando di meno?

Mirco Mariucci

Fonti
  1. Disoccupazione in Europa, nei numeri qualcosa non torna. Il Fatto Quotidiano,  24 febbraio 2018.
  2. Inattivi, disoccupati e scoraggiati:come ci si orienta con i dati dell'Istat. La Stampa, 19 aprile 2012. 
  3. Che differenza c’è tra un inattivo e un disoccupato? Guida a una corretta lettura dei dati sul lavoro. Morning Future, 12 giugno 2017. 
  4. Occupati, disoccupati, inattivi. In Genere, Roberto Cicciomessere, 18 dicembre 2012. 
  5. Ma chi sono i lavoratori scoraggiati? Il Sole 24 Ore, Maurizio Sgroi, 28 dicembre 2016. 
  6. Italiani al lavoro: in 22 milioni ne mantengono 38. True Numbers, 12 dicembre 2017. 
  7. Chi sono le casalinghe italiane, in cifre. Il Post, 19 luglio 2017.
  8. Scuola: quanti sono gli studenti nel 2016-2017? Omnium Education, 18 settembre 2016.
  9. Quanti sono gli universitari in Italia? In quale ateneo ce ne sono di più? University Equipe, Paolo Cirica, 13 ottobre 2017. 
  10. Italia: la disoccupazione “reale” supera il 30%. Linkiesta, Lidia Baratta, 30 settembre 2014. 
  11. Il tasso di disoccupazione reale sfiora il 40%. Gruppo EFDD, 4 settembre 2017. 
  12. Disoccupazione reale in Italia al 24%, terzo peggior dato nell’Eurozona. Investire Oggi, Giuseppe Timpone, 8 febbraio 2017. 
  13. Il tasso di disoccupazione reale negli Usa e in Europa è più alto. Ecco perché. Il Sole 24 Ore, Vito Lops, 24 ottobre 2013. 
  14. La disoccupazione reale europea è il doppio di quella ufficiale. Luigi Tedeschi, 18 maggio 2017. 
  15. Crisi lavoro, record di inattivi in Italia: primi in Europa, il doppio che in Svezia. Investire Oggi, Giuseppe Timpone, 5 luglio 2017. 
  16. L’esercito europeo degli inattivi. Advise Only, Jacopo Caretta Mussa, 6 luglio 2017. 
  17. In Europa cresce l’occupazione e in Italia è record di inattivi. La Stampa, Emanuele Bonini, 18 luglio 2017. 
  18. Europa: crisi alle spalle, ma restano 20 milioni di disoccupati. Perché i numeri non dicono tutto... Agen Sir, Gianni Borsa, 3 marzo 2017. 
  19. Disoccupazione, Italia prima in Europa per numero di scoraggiati. Termometro Politico, Giancarlo Manzi, 9 luglio 2018.  
  20. Unione europea, cresce (seppur poco) occupazione e offerta di lavoro: +1,7. Eunews, 12 febbraio 2018. 
  21. Lavoro, in Italia il record europeo degli "scoraggiati". Repubblica, 22 maggio 2016. 
  22. La Bce ammette: disoccupazione reale molto più alta. Finanza Report, 10 maggio 2017.
  23. 18 milioni di disoccupati in Europa su 500 milioni di abitanti. Art News, 3 ottobre 2017.
  24. Quanti sono gli italiani che lavorano 1 ora la settimana. True Numbers, 25 luglio 2018. 
  25. Gli occupati risalgono, le ore lavorate no. La Voce, Gabriele Guzzi e Mariasole Lisciandro, 21 novembre 2017. 
  26. Lavoro, occupati ai massimi da 40 anni e il Pd esulta. Ma il 90% degli assunti nell’ultimo anno è a termine. Il Fatto Quotidiano, 9 gennaio 2018. 
  27. Lavoro, le 28 ore in Germania? Nel resto d’Europa se ne fanno meno che in Italia. Olanda, settimana lavorativa da 4 giorni. Il Fatto Quotidiano, Luisiana Gaita, 9 febbraio 2018. 
  28. Occupati e ore lavorate: lo sfondone di Bersani. La Voce, Gabriele Guzzi e Mariasole Lisciandro, 11 maggio 2018. 
  29. Stessi occupati del 2008 ma le ore lavorate sono diminuite di 1,1 miliardi. Uffico Studi CGIA, 9 settembre 2017. 
  30. Lavoro, in Italia aumenta sempre più il part time (e non è una buona notizia). Linkiesta, Gianni Balduzzi, 8 marzo 2017.

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