Tratto dal saggio Il Sapere degli Antichi Greci, disponibile in formato cartaceo e digitale al seguente indirizzo, anche in download gratuito.
Le teorie etiche possono essere suddivise in due classi, a seconda che considerino la virtù come un fine in sé o come un mezzo da impiegare per raggiungere degli altri fini.
L'etica di Aristotele appartiene al secondo di questi insiemi; egli ritiene che lo scopo non sia essere virtuosi ma impiegare le virtù per raggiungere un certo “bene sommo” che viene considerato come un fine in sé.
Ciò che un uomo fa, sia un'arte, una ricerca, un'azione o una scelta, è sempre compiuto in vista di un fine che appare buono e desiderabile agli occhi di chi decide di attuare le proprie azioni.
La ricchezza, il potere, il piacere e la salute, possono essere considerati anche come dei fini in sé, ma solitamente chi ricerca queste condizioni lo fa in vista di un fine ad essi superiore.
Ad esempio, la ricchezza si può desiderare per la soddisfazione ed i piaceri che si pensa possa dare, ma a loro volta soddisfazione e piacere sono ricercati in vista di qualcos'altro.
I fini sono diversi e molteplici, così come lo sono i mezzi per raggiungerli, ma ci dev'essere un fine supremo che è desiderato per se stesso e non più in vista di un fine ulteriore.
Soltanto un simile fine può essere considerato il bene sommo, dal quale tutti gli altri beni dipendono.
Aristotele non nutre alcun dubbio: questo fine ultimo, che tutti perseguono, è la felicità.
L'uomo non può scegliere se essere felice o infelice, ma può decidere quali mezzi impiegare per raggiungere la felicità. In questo senso egli è libero perché ha in sé il principio dei suoi atti.
Se la prerogativa della scelta del fine supremo non appartiene all'uomo, che per natura cerca la felicità, la virtù e il vizio invece dipendono dall'uomo ed in particolare dalla sua volontà di discostarsi dal raggiungimento del sommo fine che egli ha in sé e lo guida nel giudicare rettamente le azioni che ogni individuo può scegliere di compiere o non compiere.
La virtù dipende dai mezzi che si scelgono per compiere il fine supremo, il merito morale riguarda quegli atti legati alla volontà e consiste nello scegliere rettamente tra le diverse azioni possibili.
Ma che cosa significa per l'uomo essere felice?
Secondo Aristotele si può rispondere a questa domanda determinando qual è il compito proprio dell'uomo.
La felicità può essere ricercata nell'esercizio di quelle facoltà che differenziano l'uomo dagli altri esseri viventi.
La felicità, quindi, non rappresenta uno stato di beatitudine passiva ma necessita di una vita attiva.
Certo, ognuno è felice quando svolge al meglio l'arte per cui è predisposto: il suonatore quando suonerà una bella melodia, il costruttore quando realizzerà un oggetto utile ed esteticamente riuscito, l'atleta quando vincerà una gara e così via.
Ma ciò che più di ogni altra cosa differenzia l'uomo dagli altri esseri viventi è la ragione, il logos.
Il compito proprio dell'uomo in quanto tale non è la vita vegetativa che lo accomuna con le piante, né una vita dedita ai sensi che condivide con gli animali, piuttosto va ricercato nella vita legata alla ragione.
La felicità consiste in un insieme di attività condotte secondo ragione.
Sebbene accompagni e perfezioni ogni attività, neanche il piacere è un fine ultimo; chi prova piacere da ciò che fa sarà certamente spinto a continuare ad esercitare quell'attività.
Ciò lo aiuterà e perfezionarsi e a svolgere i suoi compiti con continuità, e forse gli consentirà di raggiungere perfino l'eccellenza.
Ma il piacere resta un bene, e non il bene, ed anche il piacere è tanto migliore quanto migliore è l'attività da cui esso scaturisce.
Aristotele non nega che il piacere abbia la sua importanza ma la felicità non coincide con il piacere, perché la felicità è un qualcosa di più ampio che lo include in sé.
L'uomo può raggiungere la piena felicità soltanto se sceglie di vivere secondo ragione, e questo tipo di vita viene ad identificarsi con la virtù.
Il bene e la felicità non consistono semplicemente nelle attività connesse all'uso della ragione, ma in un esercizio eccellente di queste attività. E in questo senso la felicità può anche essere intesa come “attività dell'anima secondo virtù”.
L'indagine sulla felicità, quindi, ci conduce allo studio delle virtù.
Platone aveva ragione a suddividere l'anima in due parti: una razionale e l'altra irrazionale.
La parte irrazionale, a sua volta, si suddivide in parte vegetativa, che l'uomo ha in comune con le piante, e parte appetitiva, che l'uomo condivide con gli animali.
La parte appetitiva è priva di ragione ma, entri certi limiti, può essere dominata e diretta da quest'ultima, ad esempio, quando i beni che essa ricerca sono suscettibili dell'approvazione della ragione.
Ciò è fondamentale per la virtù, in quando la sola ragione sarebbe puramente contemplativa e senza la spinta della parte appetitiva non potrebbe compiere nessuna attività pratica.
Per quanto detto, esistono due tipologie di virtù fondamentali corrispondenti alle rispettive parti dell'anima: intellettuali e morali.
La prima consiste nell'esercizio stesso della ragione e perciò è detta intellettiva o razionale (dianoetica); la seconda consiste nel dominio sugli impulsi sensibili ottenuto mediante la ragione, ed è detta virtù morale (etica) perché determina i buoni costumi.
Secondo Aristotele la virtù non è innata ma si acquisisce con l'esercizio, l'esperienza e la costanza.
In particolare le virtù intellettuali possono essere tratte dall'insegnamento, quelle morali dall'abitudine.
È attraverso le abitudini che si forma il carattere di un individuo che, una volta definitosi, condizionerà i suoi comportamenti per il resto della vita. Si diventa giusti compiendo azioni giuste; lo stesso può dirsi per le altre virtù.
In questo processo il legislatore recita un ruolo centrale, perché incoraggiando i buoni costumi agevolerà la formazione di buoni cittadini.
A forza di fare buone azioni sotto la spinta dei condizionamenti sociali, si finirà con il provar piacere nel compiere delle buone azioni.
Ma la virtù è prima di tutto una questione di scelte e soltanto quelle azioni che dipendono effettivamente dalla volontà dell'individuo, e quindi non sono state imposte con la forza o sono dovute alla necessità o all'ignoranza, possono essere imputate a chi le compie ed essere giudicate buone o cattive.
In particolare, la virtù morale consiste nella «disposizione a scegliere il giusto mezzo adeguato alla nostra natura, quale è determinato dalla ragione e quale potrebbe determinarlo il saggio».
La virtù è una via di mezzo tra due estremi, ciascuno dei quali è vizioso, perché l'uno pecca per eccesso e l'altro per difetto.
Ma il giusto mezzo non si pone esattamente a metà tra i due estremi: non può essere determinato con un unico metodo valido per ogni individuo e per ogni circostanza, perché esso varia da situazione a situazione da persona a persona.
È saggio colui che è in grado di determinare il giusto mezzo in base alle condizioni che si presentano, ma questa capacità si perfeziona e rinvigorisce con l'esercizio e l'esperienza.
Aristotele intraprende un'analisi delle varie virtù tenendo conto della dottrina del giusto mezzo.
Il coraggio riguarda ciò che si deve o non si deve temere, ed è il giusto mezzo tra la viltà e la temerarietà.
La temperanza, che è il giusto mezzo tra l'intemperanza e l'insensibilità, suggerisce un uso moderato dei piaceri.
La liberalità consiste nell'uso accorto delle ricchezze, ed è il giusto mezzo tra la prodigalità e l'avarizia.
L'amor proprio è il giusto mezzo tra la vanità e l'umiltà; la prontezza di spirito tra la buffoneria e la grossolanità; la modestia tra la ritrosia e la sfacciataggine... e così via.
Tra le varie virtù etiche la giustizia svolge un ruolo centrale, tanto che Aristotele decide di dedicargli un intero libro.
Nel significato più generale del termine, la giustizia non è una virtù particolare ma coincide con l'insieme delle virtù: l'uomo che rispetta tutte le leggi è un uomo buono e interamente virtuoso.
Le leggi, infatti, danno indicazioni a proposito di molteplici sfere del comportamento e quindi caratterizzano le virtù ad esse associate, per cui chi segue la legge possiede le virtù (a patto che la legge sia giusta).
La giustizia però ha anche un significato particolare, rispetto al quale Aristotele definisce una bipartizione: vi è una giustizia distributiva ed una giustizia commutativa.
La giustizia distributiva riguarda l'ambito della distribuzione di beni, potere, ricchezza etc tra i vari membri di una comunità.
Si tratta di attribuire a ciascuno tali beni rispettando un criterio basato sul merito.
Si viene configurando una giustizia distributiva che agisce come una proporzione geometrica, nella quale i beni assegnati a due persone stanno in proporzione tra loro come i rispettivi meriti di quegli individui.
Così facendo ciascuno avrà una giusta ricompensa: chi merita di più avrà di più. Se così non fosse si commetterebbe un'ingiustizia.
Il problema quindi si sposta su cosa sia il merito e su come si possa determinare.
Il secondo tipo di giustizia, quella commutativa, riguarda i contratti e il suo scopo è di pareggiare i vantaggi e gli svantaggi tra i due contraenti. In questo senso la giustizia commutativa è correttiva.
Secondo la giustizia commutativa, ciascuno dei contraenti deve vedersi corrispondere quantità equivalenti, che possono essere determinate secondo una semplice proporzione aritmetica.
Vi sono due tipologie di contratti: volontari, come una compravendita, ed involontari, come il furto.
La compravendita è volontaria perché ambo le parti raggiungono un accordo volontario: il bene ed il denaro scambiati si equivalgono.
Il furto invece è un contratto involontario perché una delle due parti non è consenziente: in questo caso deve intervenire la giustizia commutativa che infligge al reo una pena proporzionale al danno arrecato.
Oltre alle virtù etiche Aristotele descrive 5 virtù dianoetiche: l'arte, la scienza, la saggezza, la sapienza e l'intelletto.
L'arte, o téchne, intesa nel senso di “tecnica” e di “saper fare”, è la capacità di produrre oggetti e nel far questo si avvale dell'uso della ragione. Il suo fine però è fuori da sé perché riguarda la produzione.
La scienza è la capacità dimostrativa che ha per oggetto il necessario, ovvero ciò che non può essere diverso da com'è.
Si è virtuosi in ambito scientifico quando si padroneggiano le dimostrazioni che muovono dai principi primi, mentre la capacità di cogliere i primi principi è dovuta all'intelletto.
Con saggezza s'intende la capacità di stabilire correttamente cosa è bene e cosa è male per l'uomo; il saggio è colui che è in grado di stabilire il giusto mezzo per vivere in modo virtuoso dal punto di vista morale.
La sapienza è il grado più alto della scienza, nonché la più alta forma di virtù dianoetica: essa è il risultato della connessione tra scienza e intelletto.
Il sapiente è colui che al tempo stesso è in grado di riconoscere i principi primi e di saperne dimostrare le conseguenze.
Senza intelletto non si potrebbero riconoscere i principi primi, pur sapendo dimostrare; mentre senza scienza non si riuscirebbe a dimostrare nulla, pur sapendo riconoscere la verità dei principi primi.
In nessuno dei casi si giungerebbe alla sapienza; il sapiente infatti è dotato sia di intelletto che di scienza.
La saggezza concerne cose umane e consiste nel formulare un giudizio a proposito della loro convenienza, opportunità e utilità in vista di un qualche fine.
La sapienza invece ha come oggetto il necessario che non può essere modificato. L'unico atteggiamento che l'uomo può avere nei confronti del necessario è la contemplazione.
La saggezza è sempre saggezza umana; la sapienza riguarda le cose più alte ed ha un valore universale.
Talete, Anassagora ed altri grandi pensatori del passato erano detti “sapienti” non “saggi”, perché conoscevano molte cose meravigliose, difficili e divine, ma inutili agli uomini nella vita pratica.
Secondo Aristotele la vita teoretica è superiore rispetto ad ogni altro tipo di vita.
La felicità più alta consiste nella virtù più alta, e la virtù più alta può essere realizzata mediante la contemplazione che culmina nella sapienza.
La contemplazione è preferibile alle guerre, alla politica ed a ogni altro tipo di carriera, perché è fatta di serenità e di pace che sono essenziali per la felicità.
Il sapiente basta a se stesso, perché per estendere la sua sapienza non ha bisogno di nulla che già non abbia in sé. Egli non si affatica per un fine esterno la cui raggiungibilità è problematica.
Il sapiente aristotelico conduce un'esistenza in bilico tra l'umano e il sovra-umano.
Gli oggetti di studio del sapiente sono alla base dell'ordine del mondo, e in quanto tali divini.
Se l'uomo può vivere in modo teoretico è perché ha in sé qualcosa di divino.
La stessa divinità può essere considerata come una proiezione perfetta della vita del sapiente.
Al contrario della divinità, l'uomo non può essere interamente contemplativo, ma per quel tanto che può farlo egli partecipa della vita divina.
«L'uomo non deve, come alcuni dicono, conoscere in quanto uomo le cose umane, in quanto mortale le cose mortali, ma deve rendersi, per quanto è possibile, immortale e far di tutto per vivere secondo quanto c'è in lui di più alto: se pure ciò è poco di quantità, per potenza e valore supera tutte le altre cose».
Di tutti gli esseri umani, il filosofo è colui che più si avvicina alla divinità nella sua attività contemplativa, e per questo è il più felice ed il migliore.
Mirco Mariucci
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Fonti:
- Storia della filosofia antica, di Giuseppe Cambiano.
- Storia della filosofia, di Nicola Abbagnano.
- Storia della Filosofia occidentale, di Bertrand Russell.
- Storia del pensiero scientifico e filosofico, di Ludovico Geymonat
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