Tratto dal saggio Il Sapere degli Antichi Greci, disponibile in formato cartaceo e digitale al seguente indirizzo, anche in download gratuito.
Il termine metafisica ha un'origine assai curiosa. Dopo la morte di Aristotele i suoi scritti acromatici, quelli più tecnici, destinati ai membri della sua scuola, andarono perduti.
E così la fama del filosofo crebbe grazie ai dialoghi divulgativi che egli aveva composto per il pubblico dei “non addetti ai lavori”.
Qualche secolo più tardi, però, gli scritti tecnici di Aristotele furono ritrovati in una cantina nella città di Scepsi.
Pare che Teofrasto, che li aveva ricevuti in eredità dallo stesso Aristotele, li avesse a sua volta lasciati ad un certo Neleo che avrebbe provveduto a nasconderli.
Una volta rivenuti, finirono nelle mani di Andronico di Rodi, un editore, che li organizzò in modo sistematico e provvedette alla loro pubblicazione, che avvenne verso la metà del primo secolo precedente la presunta nascita del celebre personaggio mitologico di nome Gesù.
Durante l'opera di riorganizzazione degli appunti e delle opere, Andronico riunì e collocò alcuni scritti dopo quelli che riguardavano la natura, in particolare dopo un testo intitolato Fisica, e battezzò la raccolta con il nome di Metafisica.
Così il termine “metafisica” prese a significare “oltre la fisica”, nel senso letterale di raccolte successive a quella inerenti la fisica.
Il risultato di questa composizione fu un'opera tutt'altro che organica, formata da scritti composti in epoche diverse.
Tutto ciò rende difficile la stesura di una trattazione lineare e progressiva del pensiero di Aristotele in questo ambito.
Per comprendere al meglio la metafisica aristotelica, bisognerà familiarizzare con alcuni termini specifici ricorrenti, tra i quali “sostanza” assumerà un significato centrale.
Sappiamo anche che il pensiero di Aristotele mutò progressivamente nel tempo passando da una prima fase di sostanziale adesione al platonismo ad un culmine più maturo ed indipendente caratterizzato da una critica ed un certo distaccamento dal pensiero del maestro.
Per questi motivi, forse, la cosa migliore da fare, prima di spiegare il significato dei termini legati alla metafisica aristotelica, è di esporre la critica alla dottrina delle idee platonica, che condurrà Aristotele a formulare la sua dottrina degli universali.
Il tutto muove dalle perplessità, tra l'altro già sottolineate dallo stesso Platone nel Parmenide, nei confronti della realtà delle idee intese come entità separate ed indipendenti dalle cose del mondo sensibile aventi un'esistenza propria.
Il filosofo che introduce le idee, sostiene Aristotele, invece di semplificare la spiegazione inerente la realtà, va incontro a difficoltà maggiori rispetto a colui che si limita al solo mondo sensibile.
Infatti, se si ammette la realtà delle idee ci si trova obbligati a dover render conto anche della loro natura e del loro rapporto con gli oggetti sensibili.
Chi introduce le idee causa una moltiplicazione delle cose e si comporta come chi dovendo contare un certo numero di oggetti, si convince che non sia possibile farlo se non accrescendone il numero.
Le idee, infatti, sono in numero maggiore delle cose del mondo sensibile, perché non solo devono esserci idee delle singole cose, ma anche di tutte le possibili combinazioni dei loro modi e caratteri che possono essere raccolti ed espressi mediante un unico concetto.
L'argomento più forte a supporto di questa tesi, è noto come argomento del terzo uomo.
Stando alla teoria platonica tutti gli uomini del mondo sensibile sono tali perché partecipano all'idea di uomo ideale; l'uomo ideale è perfetto e separato rispetto agli uomini che vivono sulla terra.
Eppure vi dev'essere un qualcosa in comune tra di loro, perché altrimenti quest'ultimi non potrebbero partecipare all'idea di uomo ideale, se non condividessero nulla con essa.
Ma ciò che vi è in comune tra loro conduce ad una nuova idea, un «terzo uomo», che rappresenta quanto di comune vi è tra l'uomo ideale e gli uomini sensibili e che, in quanto idea, è a sua volta separata da essi.
Ma se il "terzo uomo" è separato dall'idea dell'uomo ideale allora c'è bisogno di un'altra idea che ne rappresenti gli aspetti in comune, poi un altra ancora e così via, generando un interminabile regresso all'infinito.
Pur ammettendo che le idee esistano, esse non sarebbero in grado di determinare la natura delle cose sensibili, non sarebbero causa di nessun movimento né di alcun mutamento, e non sarebbero neanche causa delle cose in sé, poiché le cose non potrebbero esistere come creazione derivante dalle idee se non grazie all'intervento di un principio attivo.
Dal punto di vista empirico le idee si rivelano inutili, perché non contribuiscono a farci intendere la realtà del mondo... Come si possono superare queste criticità?
Aristotele compie un rovesciamento delle posizioni platoniche: non è vero che esiste una separazione tra il mondo delle idee e il mondo degli oggetti individuali.
È certamente lecito e possibile distinguere una forma ideale nella sua purezza dagli oggetti materiali particolari che imitano tale forma, come ad esempio la circonferenza del mondo della matematica e l'hula hoop del mondo sensibile, ma bisogna riconoscere l'impossibilità che quelle forme abbiano un'esistenza propria in un mondo separato da quello sensibile.
Le criticità generate dall'ipotesi della separazione tra forme ideali e cose materiali non può che essere risolta ammettendo che tutto ciò che esiste è un qualcosa di individuale e completo, e la sua «sostanza», vale a dire il suo essere reale, è al tempo stesso una composizione sia di materia che di forma.
L'universale con Aristotele non è più separato dal mondo sensibile ma è immanente ad esso. Ciò che esiste nel mondo non può esistere separatamente da ciò che é, perché la sostanza non può esistere separatamente da ciò di cui è sostanza.
La vera realtà non è più costituita da forme ideali, come lo era per Platone, ma dagli oggetti di cui si può avere esperienza nel mondo. In questo modo il mondo della natura viene riabilitato, tornando ad essere il vero oggetto della scienza.
Per Aristotele l'essere, in quanto tale, esiste necessariamente. E questo essere necessario viene identificato con la «sostanza».
La sostanza è l'essere per eccellenza, ciò che è impossibile che non sia; esiste perché è necessario che esista.
In questo modo l'essere in quanto tale diviene l'oggetto di studio della metafisica.
Chiedere «che cos'è l'essere?», per Aristotele significa chiedere: «che cos'è la sostanza?».
La sostanza è sia il principio che la causa, ovvero ciò che al tempo stesso spiega e giustifica l'esistenza di ogni cosa.
In quanto causa è causa prima e in quanto principio è il principio costitutivo, vale a dire l'essere proprio di ogni determinazione della realtà.
La sostanza è il principio per il quale l'essere è necessariamente tale, ovvero è l'essere dell'essere.
Cerchiamo di chiarire, per quanto sia possibile, questo concetto “evanescente” con un esempio.
Come un'abitazione ha una certa natura che non è data dalla somma dei mattoni, delle travi e del cemento con cui è costruita, ma è un “qualcosa in più” della somma delle parti, così qualsiasi altra cosa ha una natura che non è data dalla semplice addizione dei suoi componenti e differisce da ciascuno di essi: quella natura è la sostanza.
Se ci si chiede il perché quella data casa sia stata costruita, è evidente che ci si sta chiedendo quale sia lo scopo della sua costruzione; quando invece ci si chiede il perché del mutare delle cose, ma anche del nascere e del perire, ci si sta chiedendo quella che Aristotele chiama causa efficiente, e che va intesa come l'agente che determina operativamente il mutamento.
Ebbene, scopo e causa efficiente, vale a dire lo scopo di ciò che esiste e il come ciò che esiste muti a causa dell'agente che ne determina la trasformazione, non sono altro che la sostanza stessa di quella particolare realtà di cui ci si sta interrogando chiedendoci il perché esista e il perché muti.
Giungiamo così alla teoria aristotelica degli Universali.
Aristotele dice: «Con il termine “universale” intendo ciò che è di natura tale da fungere da predicato di diverso genere, e con il termine “individuale” ciò che non può essere predicato in questo modo».
Nel linguaggio utilizziamo dei nomi propri che applichiamo a persone e cose in modo da determinarle univocamente. Ad esempio, il Sole, la Luna e il Socrate condannato a morte con la cicuta, sono unici.
D'altra parte usiamo termini come elefante, aquila e uomo che si applicano ad un'intera classe di cose del mondo sensibile che sono differenti fra loro; similmente accade per gli aggettivi quali blu, veloce, rotondo e così via.
Ebbene la questione degli universali non verte sui nomi propri, ma sui termini che possono essere applicati a collezioni di cose.
Ciò che è indicato con un nome proprio è una manifestazione della sostanza, mentre ciò che può essere espresso da un aggettivo (bianco, intelligente...) o dal termine che identifica una classe (animali, umani...) è un universale.
Solo della sostanza si può dire propriamente che esiste, mentre il resto esiste in quanto proprietà della sostanza. In altri termini, l'universale non può esistere di per sé, ma solo nelle cose.
Le sostanze sono quelle cose del mondo sensibile che possono essere individuate ed indicate, e che Aristotele qualifica con il termine “tode ti”, ovvero “questa cosa qui”.
I colori invece esistono solo perché c'è una qualche sostanza che si manifesta in maniera colorata, così come la rapidità esiste perché la sostanza si sposta in modo celere. Ma queste determinazioni non sono sostanze alla medesima maniera della vera sostanza.
Aristotele ricorre ad una distinzione per chiarire il concetto: vi sono sostanze prime, che sono appunto quelle sostanze che esistono di per sé, e non in funzione di altre, vale a dire quelle cose che si possono indicare ed individuare singolarmente a cui noi attribuiamo un nome proprio;
e vi sono delle sostanze seconde che rappresentano delle qualità che non possono esistere senza riferirsi alle sostanze prime e che, grazie ad esse, vengono specificate e chiarificate.
Nella frase la «Luna è un satellite», il nome proprio Luna è sostanza prima, mentre il termine satellite è sostanza seconda, che ne specifica la natura.
Il punto focale della questione, quindi, è che l'universale non può esistere di per sé ma solo in quanto specificazione della sostanza.
Una sostanza, invece, possiede molte determinazioni e, al contrario di queste, può continuare ad esistere a prescindere dal fatto che possieda o meno un certa sostanza seconda:
Socrate, ingrassando, può continuare ad esistere pur perdendo la magrezza, senza per questo cessare di essere Socrate; ma non vi è magrezza in un mondo composto da persone grasse.
E ancora, la dolcezza esiste perché esistono le cose dolci, il rosso esiste perché ci sono oggetti colorati di rosso ma la relazione reciproca non sussiste: le cose dolci possono diventare amare, e gli oggetti possono essere dipinti di blu, senza però cessare di esistere.
Così siamo portati a concludere che l'esistenza di ciò che è indicato da un aggettivo dipenda da ciò che è indicato da un nome proprio, ma non viceversa.
Vorrei invitare il lettore a riflettere segnalando che Bertrand Russell, nella sua storia della filosofia, giudica questa tesi come «un comune pregiudizio espresso pedantemente».
Vi è inoltre una questione di non poco conto che conduce all'introduzione di un termine centrale nella metafisica aristotelica: «l'essenza».
Immaginiamo che una sostanza possa perdere alcune proprietà senza per questo cessare di esistere.
Eppure è evidente che per specificare che cosa sia una sostanza prima questa debba per forza vedersi attribuire un certo numero di qualità e attributi espressi mediante sostanze seconde.
Per descrivere che cos'è il Sole non possiamo solamente limitarci ad indicarlo affermando "il Sole é", ma dobbiamo anche dire che è una stella, colorata di giallo, rosso, arancio etc etc...
Certamente alcune determinazioni potrebbero essere inessenziali, ma in base a quale criterio potremmo stabilirlo?
Ciò che è chiaro è che vi dev'essere necessariamente un numero minimo di proprietà che una cosa non può perdere, se vuole evitare di cessare di essere se stessa.
Ebbene quanto appena espresso, consiste nella definizione di “essenza”, vale a dire l'insieme delle determinazioni a cui non si può rinunciare, se non si vuole perdere la propria identità.
Per specificare al meglio gli enti del mondo sensibile, Aristotele stila un elenco di dieci categorie: sostanza, qualità, quantità, luogo, tempo, relazione, agire, subire, avere, giacere.
Esse si trovano alla vetta della generalità e non sono ricavabili l'una dall'altra. Perché debbano esser dieci, e su che base Aristotele le abbia ricavate, è cosa non chiara e certamente opinabile.
Lo scopo probabilmente era d'impiegarle per classificare e descrivere, forse in modo univoco, cose ed eventi, fino ad un livello individuale e puntuale. Vediamo come.
Per prima cosa, però, bisogna precisare che la sostanza recita un ruolo di primaria importanza tra le categorie.
La differenza è che la sostanza esiste di per sé, mentre le altre 9 categorie devono essere predicate di qualcosa, ovvero di una sostanza, appunto, ed è proprio in questo modo che la qualificano.
Esse vengono chiamate anche “accidenti” e si pensa che possano esistere solo in quanto parti della sostanza, e non di per sé.
Usando la terminologia precedentemente introdotta, la categoria della sostanza è sostanza prima mentre tutte le altre sono sostanze seconde.
Procediamo quindi con un esempio.
Potremmo interrogarci a proposito di Socrate. Scopriremo così che, se poste in modo opportuno, le risposte alle nostre domande indicheranno ciò che si può predicare del soggetto e, come per magia, rispecchieranno le 9 categorie della sostanza “Socrate”.
Quanto è alto Socrate? 1 metro e 68 cm (quantità). Dove si trova il giorno in cui bevve la cicuta? Ad Atene (luogo). Cosa gli accadde? Fu accusato di empietà e di aver corrotto i giovani (subire). E così via...
In altri termini per Aristotele le categorie sono dei “generi” che raccolgono le proprietà che si possono predicare dell'essere. Esse sono i predicamenti dell'essere, che si riferiscono ad oggetti concreti.
Così facendo Aristotele sottolinea la multilateralità dell'essere che è determinato grazie ad una molteplicità di attributi, pur non rinunciando del tutto all'eredità parmenidea che ne sanciva l'unità, e che ora viene espressa mediante la sostanza.
Il passo successivo nella metafisica di Aristotele è di render conto del movimento che sperimentiamo quotidianamente nel mondo sensibile. I termini “chiave” della trattazione saranno: materia, forma, potenza e atto.
I primi due termini sono semplici e intuitivi. Se immaginiamo di costruire una sfera di bronzo, allora il bronzo è la materia, mentre la sfericità è la forma.
Ma è grazie alla forma che la materia diviene una qualcosa di definito, ovvero ciò che abbiamo chiamato sostanza.
Chi costruisce la sfera di bronzo, però, non produce né il bronzo né la sfericità che gli conferisce. Egli si limita a modellare della materia già esistente secondo una forma anch'essa già preesistente.
Materia e forma coesistono inscindibilmente nel medesimo oggetto, e le sostanze sono il risultato di un processo che trasforma la materia in forma.
In un certo senso, più una cosa materiale acquista forma e più acquista realtà, mentre la materia di per sé è soltanto potenza, ovvero è possibilità di acquisire una determinata forma subendo un mutamento.
Per questo Aristotele identifica la materia con la potenza, e la forma con l'atto, che invece è l'esistenza stessa dell'oggetto individuato da una sostanza.
La materia genera sostanza assumendo forma, perché essa possiede in potenza le forme che in seguito possiederà in atto.
Così facendo Aristotele riesce a giustificare ogni movimento come passaggio dalla potenza all'atto.
Potremmo pensare al cambiamento come un'evoluzione nel quale la materia bruta, intesa come forma in potenza, si modifica via via assumendo più forma.
La ghianda contiene in sé in potenza la possibilità di diventare una quercia, e quando questa potenzialità è realizzata, ovvero il seme è diventato albero, la potenzialità è in atto, ovvero è pienamente realizzata.
Se immaginassimo di porre ad Aristotele il celebre quesito: «è nato prima l'uovo o la gallina?», non ci stupiremmo sentendoci rispondere «la gallina».
Secondo la sua metafisica, infatti, l'atto viene prima della potenza, sia dal punto di vista logico che del valore.
Egli pensa che per definire una potenzialità non si possa fare a meno di riferirsi a quella cosa in atto rispetto la quale la potenzialità è in potenza, mentre ciò non è più vero per ciò che è già in atto.
Per Aristotele, il seme di una pianta, che è pianta puramente in potenza, non può che derivare da una pianta che è già in atto.
Il che implica che la conoscenza dell'atto deve precedere la conoscenza della potenza.
In realtà non si deve commettere l'errore di intendere le contrapposizioni dualistiche forma-materia, atto-potenza, in modo separato, perché ciò che da un certo punto di vista è forma da un altro è anche materia, e similmente ciò che è atto può essere anche potenza.
Ad esempio, il tronco è forma per un albero, ma è materia per l'artigiano che lavorandolo ne ricaverà delle tavole per costruire un mobile; il seme appena citato è potenza, se pensato in prospettiva, ma è già atto in quanto seme, cioè come sostanza munita di una determinata forma che caratterizza la sua specie e ciò lo distingue da un sassolino che non è un seme.
La conseguenza di questa concezione è l'introduzione di un dinamismo nel mondo, perché gli oggetti sono sostanze in divenire, potenze indirizzate verso degli specifici atti.
Ma in tutto ciò l'atto predomina, perché non vi è passaggio dalla potenza all'atto se non vi è già atto.
Per chiarire le dinamiche del mutamento, Aristotele individua quattro “cause” fondamentali.
Immaginiamo Michelangelo Buonarroti intento nello scolpire il suo celebre David dal marmo.
La causa materiale non è altro che il marmo con cui la statua è realizzata, vale a dire quel sostrato senza il quale la scultura non potrebbe esistere.
La causa efficiente è ciò che operativamente determina il mutamento, vale a dire il contatto tra lo scalpello battuto con il martello di Michelangelo ed il blocco di marmo della statua.
La causa formale consiste nella forma del David, cioè nelle qualità specifiche che ne costituiscono l'essenza.
La causa finale è l'obiettivo, lo scopo, ciò che esprime l'intenzionalità, ovvero la meta che Michelangelo ha in mente di raggiungere compiendo il suo lavoro.
Classificando e specificando le “cause”, Aristotele s'inserisce in un processo già iniziato dai suoi predecessori, con l'intento di completarlo e portalo alla chiarezza.
I naturalisti ionici, infatti, avevano fornito esempi di cause materiali; i numeri pitagorici possono essere interpretati come cause formali; l'amore e odio di Empedocle è un chiaro esempio di causa efficiente; Anassagora aveva già intuito il concetto di causa finale che si può scorgere anche nella ricerca della virtù socratica.
Con quest'ultima osservazione, l'esposizione dei concetti chiave della concezione metafisica di Aristotele può dirsi compiuta.
Prima di passare ad un nuovo argomento, concludiamo il capitolo con un breve commento, a mio avviso dovuto al lettore che ha avuto il coraggio di avventurarsi fin qui.
Un merito indiscusso di Aristotele è di aver ristabilito la centralità degli oggetti sensibili per quanto riguarda il campo d'interesse della scienza.
Concependo la teoria della sostanza egli ha potuto giustificare un atteggiamento di curiosità instancabile che non intende ignorare nessuna manifestazione dell'essere.
Se le cose del mondo non sono forme imperfette ed illusorie di un mondo ultrasensibile considerato vera realtà, ma sono sostanze che inglobano in sé materia e forma, allora sono degne di essere indagate e questa indagine, in prima analisi, non può che avvenire con i sensi e solo dopo con la ragione.
Grazie al rifiuto della separazione platonica tra mondo ideale e mondo empirico, considerato mera illusione, con Aristotele il mondo della natura torna ad essere l'oggetto dell'indagine scientifica.
Di questo gli empiristi possono senz'altro gioire.
La parola “categoria”, per quanto oscura possa sembrare, in realtà non individua nulla di più di un certo tipo di predicato.
Qualcuno ha suggerito che per stilare il suo elenco, Aristotele si sia semplicemente immaginato un uomo che stava assistendo ad una sua lezione al Liceo, e si sia chiesto quali tipologie di domande si potessero fare in relazione a quell'uomo.
Le categorie, quindi, sono degli strumenti operativi per descrivere le cose del mondo mediante una classificazione, vale a dire che sono le classi fondamentali nelle quali ciò che esiste può essere collocato.
Se l'intento è davvero quello di ottenere una classificazione univoca e completa delle cose sensibili, un punto di criticità delle categorie aristoteliche risiede nell'arbitrarietà e nella non esaustività.
Su che base scegliamo le caratteristiche che individuano una classe? Qual è il confine di separazione tra due di esse? Possiamo ottenere una classificazione univoca? Sono esempi di domande lecite (e problematiche) su cui riflettere.
Una classificazione tassonomica può funzionare nel regno animale, e può essere certamente utile da un punto di vista pratico (anche in altri ambiti), ma non so in generale fino a che punto sia adatta ad individuare in modo efficace le cose e gli eventi del mondo reale.
La definizione del termine "essenza" è tutt'altro che soddisfacente; si tratta dell'insieme di caratteristiche che una cosa, o un animale, non può perdere senza cessare di essere se stessa; oppure, con altri termini, ciò per cui una certa cosa è quello che è, e non un'altra cosa.
Ma in che modo si può definire il confine tra ciò che è necessario, ad esempio, per definire Socrate e ciò che invece non lo è?
Lo stesso Aristotele non fornì un criterio soddisfacente per stabilire quali attributi siano essenziali e quali no.
Non sono solo le singole cose ad avere sostanza ma anche un'intera classe. È chiaro quindi che “essenza” non può essere sinonimo di “universale”.
Si può certamente definire l'essenza dei triangoli rettangoli ma non so fino a che punto si possa farlo in modo soddisfacente con Socrate.
La forma di una cosa fa chiaramente parte della sua essenza ma, per Aristotele, le forme sono sostanziali mentre gli universali no.
Lo scultore così come non crea il marmo non crea neanche la forma della sua statua.
La materia senza forma è solo potenzialità, ma forma e materia esistevano già, l'artista si limita ad unirle e così facendo conferisce realtà alla statua che ha realizzato.
Quindi sono ammesse delle "cose" eterne, o comunque preesistenti, che non hanno materia.
Se così stanno le cose, l'innovazione che Aristotele apporta alla metafisica di Platone è decisamente inferiore a quanto possa inizialmente sembrare.
Se le forme sono sostanze preesistenti e indipendenti dalla materia in cui esse si estrinsecano, allora è chiaro che, così come le idee platoniche, anche le forme aristoteliche sono dotate di un'esistenza propria (intesa in senso metafisico).
Tutto ciò conduce Aristotele a scontrarsi con quegli argomenti che lui stesso aveva mosso contro la dottrina delle idee di Platone.
Il filosofo Bertrand Rusell sostiene che i concetti di essenza e sostanza non sono altro che «trasposizioni metafisiche di comodità linguistiche» e condanna la sostanza aristotelica come «un errore metafisico dovuto al trasferimento alla struttura del reale di frasi composte da soggetto e predicato».
Sinceramente non vedo come dargli torto. Cerchiamo di comprendere il perché.
Chiunque è conscio che non esiste alcuna cosa chiamata "Italia" al di fuori e al di sopra delle parti che costituiscono quel determinato spazio che noi siamo soliti identificare con quel termine. Se ne deduce che "Italia" è soltanto una comodità linguistica.
Quando descriviamo il mondo mediante il linguaggio, siamo soliti associare un certo numero di eventi alla vita di un personaggio, ad esempio Socrate.
Ciò conduce a pensare a Socrate come ad un qualcosa di determinato che perdura nel tempo per un certo numero di anni.
La conclusione, ingannevole, che se ne trae è di ritenere che Socrate sia un qualcosa di più "solido" e "reale" dell'insieme degli eventi che gli capitano.
Nel corso della sua vita Socrate può essere sano o malato, può avere fame oppure no e così via, quindi ci sembra che la sua vera esistenza sia legata a qualcos'altro, ed in particolare sia indipendente dalla malattia o dall'avere appetito.
D'altro canto la malattia e l'aver fame richiedono dei soggetti che si ammalano e che sentono il morso della fame.
Ovviamente possiamo supporre che Socrate non si ammali mai per tutto il corso della sua vita, ma se pensiamo che egli esista dobbiamo necessariamente concludere che qualcosa gli accada.
Se immaginiamo che la sostanza sia un soggetto distinto dalle proprietà che gli attribuiamo, e che esista indipendentemente da esse, che cosa resta della sostanza in se stessa, se immaginiamo di togliere quelle proprietà che la descrivono?
Si comprende allora che Socrate non è affatto più reale di ciò che gli accade, e che il termine sostanza non è altro che un modo per organizzare collezioni di eventi in diversi modi.
“Socrate” non è niente di più che un termine posto a rappresentanza di un insieme di circostanze che mutano nel tempo.
Nel mondo sensibile non vi può essere alcun Socrate senza le circostanze che lo interessano.
Volendo chiarire ulteriormente il concetto con la bellissima figura utilizzata da Russell, si potrebbe sostenere che parole come “Socrate” sono: «un gancio immaginario da cui si suppone che pendano le circostanze stesse» ma queste in realtà «non hanno alcun bisogno di un gancio più di quanto la Terra abbia bisogno di un elefante per appoggiarvici».
Mirco Mariucci
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Fonti
- Il diavolo in cattedra, di Piergiorgio Odifreddi.
- Storia della filosofia antica, di Giuseppe Cambiano.
- Storia della filosofia, di Nicola Abbagnano.
- Storia della Filosofia occidentale, di Bertrand Russell.
- Storia del pensiero scientifico e filosofico, di Ludovico Geymonat
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