Introduzione
Tratto dal saggio Il Sapere degli Antichi Greci, disponibile in formato cartaceo e digitale al seguente indirizzo, anche in download gratuito.
La scienza di Aristotele dominò pressoché indisturbata fino ai tempi di Galileo. Su tutte, le teorie contenute nei libri intitolati Fisica e De Coelo furono le più influenti.
Eppure non una sola frase di quei testi può essere considerata valida alla luce delle moderne conoscenze scientifiche.
Tutto ciò rende il lavoro dello storico della filosofia davvero ingrato, ma non lo esime dal dover affrontare simili questioni.
Per Platone la scienza non può che essere una scienza di pura ragione; il mondo sensibile, infatti, è illusione ed i sensi mediante i quali gli esseri umani ne fanno esperienza sono inaffidabili ed ingannatori.
La vera realtà è al di là del mondo sensibile, e la conoscenza a proposito di quest'ultimo è solo probabile, mai certa.
Conoscere è ricordare; l'anima degli uomini, caduta sulla terra, dimentica ciò che sa a proposito del vero mondo, ma grazie alla filosofia può recuperare qualche ricordo.
La metafisica da lui sviluppata lo conduce al rifiuto della separazione platonica tra mondo ideale e mondo empirico, e in questo modo la Natura torna ad essere il centro dell'indagine scientifica.
Non c'è nulla nel mondo sensibile, anche fosse la più piccola cosa, che non sia degna di essere studiata e non sia fonte di gioia e soddisfazione per il ricercatore.
La metafisica aristotelica suggerisce che ogni essere possiede nella sostanza che lo costituisce il principio o la causa della sua necessità, e in virtù della sua esistenza è degno di studio e può essere oggetto di scienza.
La conoscenza sensoriale perde quei connotati negativi attribuitigli dal platonismo e diviene il punto d'inizio ineliminabile e necessario dell'attività conoscitiva.
Nella pura ragione non v'è traccia di conoscenze dovute ad una vita precedente; senza l'esperienza sensibile la mente è una tabula rasa.
È il senso che fornisce alla ragione le informazioni da cui muovere per tentare di raggiungere una conoscenza oggettiva e universale.
Il senso, in potenza, può cogliere le percezioni, la ragione, solo in seguito, può intervenire su di esse, cercando di estrapolare un qualcosa di superiore.
In realtà, non si può intendere la scienza di Aristotele senza tenere in considerazione la variabilità del suo pensiero che, con il passare degli anni, attraversò diverse fasi.
Quanto appena esposto è una sintesi del frutto più maturo dell'impianto scientifico Aristotelico, che ben si adatta all'ultima fase della sua vita, quando Aristotele s'interessò di biologia e si dedicò principalmente allo studio e alla classificazione di numerosissime specie animali.
Ma nell'età giovanile la fisica di Aristotele manifestava un chiaro carattere platonico, pur con una certa divergenza di tesi.
L'oggetto di studio all'epoca era la cosmologia; l'intento, di spiegare non solo come il mondo risulti costituito ma anche perché non possa essere diverso da com'è che ci appare.
Tra le cose osservabili due classi, in particolare, attirarono l'attenzione di Aristotele: gli animali ed i corpi celesti. E cos'è che condividono gli oggetti di entrambe queste classi? Il movimento.
Per questo, un'altra delle preoccupazioni di Aristotele fu di fornire una spiegazione del moto. Non a caso uno degli oggetti principali della fisica aristotelica è l'essere in movimento.
Tenendo presenti le indicazioni fornite in questo breve quadro introduttivo, possiamo inoltrarci nel vivo della trattazione, partendo dalla cosmologia aristotelica.
La cosmologia di Aristotele
Secondo Aristotele l'universo è formato da un certo numero di sfere concentriche. La Terra, anch'essa sferica, è posta al centro.
Al di sopra del mondo terrestre si possono trovare in ordine: la Luna, il Sole, i vari pianeti ed infine le stelle fisse. La sfera celeste più esterna è anche nota come primo cielo.
Il loro moto dipende da quello delle sfere a cui sono “attaccate”. Il numero di queste sfere è dovuto al tentativo di spiegare il moto circolare degli oggetti celesti intorno alla Terra, esattamente così come appare.
Come stabilito da una teoria platonico-pitagorica, c'è una sorta di “barriera” di separazione tra gli oggetti che popolano le sfere celesti e tutto ciò che si trova al di sotto della sfera della Luna.
Esistono delle grandi differenze tra i moti dei corpi celesti e quelli delle cose del mondo sublunare: i primi sono circolari e manifestano una spiccata regolarità, i secondi, invece, non hanno una traiettoria privilegiata e risultano ben più caotici.
Tutto ciò ha delle profonde implicazioni sulle qualità delle sostanze che popolano l'universo aristotelico. Cerchiamo di comprendere il perché, parlando brevemente della teoria aristotelica del movimento.
Secondo questa teoria, ogni cosa che diviene lo fa passando dalla potenza all'atto, ed ha sempre un fine, vale a dire la forma che quel movimento tende a realizzare.
Si possono individuare quattro tipologie fondamentali di movimento, ciascuna delle quali, ovviamente, implica una transizione tra ciò che può essere in potenza e ciò che sarà in atto nella realtà:
il movimento sostanziale, ossia la generazione e la corruzione; il movimento qualitativo, cioè il mutare delle caratteristiche; il movimento quantitativo, ovvero l'aumento o la diminuzione; ed infine il movimento locale, vale a dire il moto propriamente detto inteso come spostamento.
A ben pensare, però, il movimento locale è più generale degli altri tanto da poterli includere; esso è il movimento fondamentale a cui tutti gli altri possono essere ridotti.
Generazione, corruzione, cambiamento di qualità e quantità, in ultima analisi, dipendono dall'afflusso o dalla separazione di “materia”, vale a dire dal riunirsi e dal separasi di certi elementi o sostanze in certi luoghi.
A loro volta i moti propriamente detti possono essere “violenti”, ovvero causati artificialmente o intenzionalmente, oppure naturali, cioè che esistono di per sé e per necessità.
Fermo restando la sfericità e la concentricità in uno spazio a tre dimensioni dell'universo Aristotelico, ogni moto può essere descritto mediante un allontanamento, o un avvicinamento, rispetto al centro, composto con una rotazione circolare attorno a quest'ultimo.
Secondo Aristotele il movimento locale si presta come un valido indicatore per stabilire la vera natura delle sostanze e, per far ciò, egli ritiene che sia utile osservare il movimento naturale delle cose.
Cominciamo quindi la nostra analisi dal mondo sublunare che pensiamo sia composto dai 4 elementi individuati da Empedocle: terra, acqua, aria e fuoco.
Aristotele
era dello stesso parere, ma a suo avviso i 4 elementi non si
sarebbero dovuti intendere come dei corpi materiali, bensì come dei
modi dell'essere della sostanza, ed avrebbe anche aggiunto qualche
considerazione aprioristica per legittimare la sua posizione dicendo,
ad esempio, che la terra (fredda e secca), deve essere bilanciata dal
suo contrario, cioè il fuoco (che è caldo e secco) e che avrebbero
dovuto esservi altri due elementi mediatori, quali sono l'acqua
(fredda e umida) e l'aria (calda e secca). Il lettore ricorderà che
in questa fase il giovane Aristotele manifestava qualche tratto
platonico...
Ebbene: che cosa accade nel mondo sublunare?
Un sasso, o un pungo di terra se preferite, se immerso nell'acqua, tende ad affondare, dirigendosi verso il basso; una bolla d'aria, che viene soffiata con una cannuccia all'interno di un bicchiere d'acqua, invece, tende a salire velocemente verso l'alto; anche le fiamme del fuoco, infine, tendono a salire in alto, per quanto gli è possibile fare.
Ne deduciamo che il moto proprio degli elementi naturali è una composizione di spostamenti rettilinei che si dirigono verso il centro dell'universo o che si allontanano da esso.
Arriviamo così alla formulazione della celebre Teoria dei luoghi naturali aristotelica, che recita più o meno così: ognuno dei 4 elementi ha un suo luogo naturale, verso il quale tende spontaneamente a ricongiungersi quando viene allontanato da esso a causa di un moto violento.
Le conseguenze di questa graziosa teoria sono molteplici; una di esse è un inevitabile geocentrismo.
Se così stanno le cose, infatti, il mondo sublunare non può che essere formato da ulteriori 4 sfere popolate dalle 4 sostanze suddivise a seconda del loro “peso”.
La sfera più interna viene occupata dalla terra, e va a costituire il centro del mondo. Via via, attorno ad essa, si stratificano nell'ordine: la sfera dell'acqua, dell'aria e del fuoco, l'elemento più leggero.
Tutto ciò però vale soltanto per il mondo sublunare. Il perché è presto detto: il moto naturale delle cose celesti differisce profondamente da quello degli elementi.
Si tratta di un moto periodico e circolare, che avviene soltanto intorno al centro dell'universo. Ciò rende le sostanze poste al di sopra del mondo sublunare profondamente diverse, quasi fossero divine.
Quindi, se si vuole spiegare la loro vera natura, serve un nuovo elemento distinto dagli altri, una "quinta essenza": l'etere.
Gli astri che popolano le sfere celesti non possono essere composti di fuoco, perché se così fosse non si riuscirebbe a render conto della differenza tra il moto naturale di questo elemento, che è rettilineo, e il vero moto delle cose celesti, che è circolare.
L'etere dunque, è il costituende dei corpi celesti, ed è l'unico che per natura tende a muoversi in modo circolare. Cerchiamo di capire perché.
Secondo Aristotele il movimento rettilineo, ottenuto da una combinazione di spostamenti di tipo alto e basso, ha in sé qualcosa d'imperfetto.
Il segmento non si ricongiunge con se stesso, come il cerchio, ma possiede due estremità distinte e lontane l'una dall'altra.
Gli spostamenti verso l'alto e verso il basso sono reciprocamente opposti e possono appartenere alle medesime sostanze che così, a causa del loro moto contrastante, saranno soggette alla generazione, al mutamento e alla corruzione.
Essi non possono che realizzarsi nelle sostanze sublunari, ovvero nei 4 elementi, gli unici che possono combinarsi anche tra di loro.
In altre parole, la nascita, il mutamento e la morte delle cose del mondo sublunare sono provocati dall'antagonismo dei movimenti alto e basso, che possono essere intesi come mescolanza e separazione dei 4 elementi che tendono a ritornare al loro luogo naturale.
Il moto circolare, invece, non ha né inizio né fine, ed è espressione di perfezione, intesa in senso geometrico. Esso è manifesto nei corpi celesti costituiti dalla quinta essenza.
Ed è per questo che secondo Aristotele gli oggetti che popolano le sfere celesti sono ingenerati, immutabili ed incorruttibili.
E così abbiamo chiarito in che modo il moto possa render conto di per sé della vera natura delle sostanze celesti e di quelle del mondo sublunare.
La conclusione più eclatante di questi ragionamenti, è che l'etere debba essere una sostanza dissimile dagli elementi indicati da Empedocle.
Tutte le cose che si trovano all'esterno della sfera lunare sono increate ed indistruttibili, Luna inclusa, mentre ciò che si trova al suo interno è soggetto a generazione e decadimento.
Con questa bipartizione Aristotele non intendeva negare al mondo sublunare una durata infinita nel tempo.
Intendeva soltanto precisare che le singole manifestazioni degli esseri che lo compongono sono assoggettate ai processi di nascita, corruzione e morte; ma nel loro complesso, in quanto specie, anche i vegetali e gli animali sono eterni.
L'universo infatti, così come è stato esposto, secondo Aristotele è perfetto, finito, unico ed eterno nella sua interezza.
La perfezione del mondo è motivata con argomenti aprioristici.
Aristotele invoca le teorie pitagoriche riguardanti la perfezione del numero 3, ed afferma, in virtù del fatto che il mondo possiede 3 dimensioni, larghezza, profondità e altezza, che esso sia perfetto, perché non manca di nulla.
Nessuna cosa del mondo reale può essere infinita, secondo Aristotele. Di ogni cosa, infatti, si può individuare un centro, un alto ed un basso, perché ogni cosa occupa uno spazio delimitato e finito.
Nell'infinito, invece, si perderebbe ogni tipo di riferimento, non esisterebbero né alto né basso, e non si riuscirebbe ad individuare alcun centro; nessuna realtà fisica può essere realmente infinita, e quindi neanche lo stesso universo.
Non posso evitare di far notare al lettore che questo argomento è chiaramente fallace, perché potrebbero benissimo esistere oggetti finiti in un universo infinito, ed il fatto che data l'infinità di un oggetto si perdano i riferimenti e non si riesca ad individuare un centro non rappresenta di per sé un motivo sufficiente per escluderne l'esistenza fisica.
Ma per Aristotele così non è, la sfera delle stelle fisse segna il limite invalicabile dell'universo, al di là del quale non c'è spazio. Nessuna cosa può occupare un volume maggiore della sfera del primo cielo.
Di più: la finitezza dell'universo è un chiaro contrassegno della sua perfezione.
Se il mondo è perfetto dev'essere anche finito, perché la perfezione include la compiutezza, mentre il concetto di infinito, nell'antica Grecia, era tipicamente associato all'incompiutezza.
È infinito ciò a cui può essere sempre aggiunto qualcosa, e si può aggiungere qualcosa solo se quel qualcosa manca.
In questo senso l'infinito è un'eterna mancanza che non può essere colmata, ovvero è incompiutezza, quindi imperfezione.
L'unicità del mondo può essere “dimostrata” mediante la Teoria dei luoghi naturali.
Supponiamo per assurdo che esistano più mondi distinti. Se ciò che Aristotele sostiene è vero, allora sarebbero anch'essi composti dalle 4 sostanze Empedoclee.
Ma per la Teoria dei luoghi naturali, queste sostanze tenderebbero a ricongiungersi tra loro, andando ad occupare ciascuna la propria sfera. E così si unirebbero andando a formare un unico mondo, che avrebbe il medesimo aspetto del nostro, contraddicendo l'ipotesi dei molti mondi.
Tutto ciò, però, non esclude la possibilità che vi siano molti universi che non comunicano fra loro.
A livello logico in ciascuno di essi esisterebbe un solo mondo, ma potrebbero comunque coesistere molti mondi ciascuno dei quali appartiene al proprio universo.
Ma di simili questioni Aristotele non si occupò affatto, così come non si preoccupò di concepire una cosmogonia.
A suo avviso l'universo non solo è eterno, ma anche increato, quindi non ha alcun senso andare ad indagare che cosa accadde all'inizio dei tempi.
Perfino la specie umana è increata e imperitura per Aristotele, così come lo sono gli animali e le specie vegetali.
Contrariamente all'opinione degli atomisti, egli sostiene anche che il vuoto non esiste.
Immaginando gli atomi come dei minuscoli sassolini, Democrito aveva sostenuto che in assenza di spazi vuoti di separazione posti tra di essi, il moto non sarebbe stato possibile, perché gli atomi sarebbero rimasti immobili esattamente come accade alla terra quando viene pressata in un recipiente.
Quindi, se non si vuole negare la realtà del movimento, si deve ammettere la necessità dell'esistenza del vuoto.
Ma la polemica aristotelica contro i sostenitori di simili tesi è feroce: un corpo nel vuoto non può assolutamente muoversi, né di moto naturale né di moto violento.
Per quanto riguarda il moto naturale, nel vuoto non vi sarebbero riferimenti, né una direzione privilegiata, e così i corpi non saprebbero in quale direzione dirigersi; inoltre, non trovando alcuna resistenza, dovrebbero spostarsi con una velocità infinita, il che è assurdo.
Se il vuoto esistesse davvero, come sostenevano gli atomisti, le cose non potrebbero fare altrimenti che restarsene ferme ed immobili. Ma così non è, quindi il vuoto non esiste.
L'argomentazione prosegue portando come prova contro il vuoto quello che, con termini moderni, chiameremmo “principio d'inerzia”.
Immaginiamo di imprimere un moto violento ad un oggetto, come può quest'ultimo mantenere la velocità che gli è stata impressa da una data spinta per un certo lasso di tempo?
Chiunque ha seguito un corso di fisica, risponderebbe che un oggetto, se non è sottoposto ad altre forze, come ad esempio l'attrito del mezzo in cui si muove o la gravità terreste, procede la sua corsa mantenendo immutati verso, direzione e velocità iniziali.
Supponendo che la forza applicata inizialmente non sia nulla, non appena terminata la spinta, si avrebbe un moto rettilineo uniforme a velocità costante, in accordo al principio d'inerzia.
Ma tutto ciò, che sembra fosse già stato intuito da Democrito, appariva paradossale alla mente di Aristotele che così elaborò una teoria in netta contrapposizione.
Se un corpo venisse lanciato nel vuoto non potrebbe in alcun modo proseguire il suo movimento, perché ogni oggetto a cui viene impresso un moto violento può mantenere parte della sua velocità iniziale soltanto grazie all'aria che lo circonda.
L'aria, infatti, essendo scossa dal moto dell'oggetto, inizia a sospingerlo nella direzione del moto e gli consente di procedere via via con velocità decrescente.
Se l'oggetto può continuare la sua corsa è solo grazie al sostegno del mezzo in cui si muove. Tutto ciò nel vuoto sarebbe chiaramente impossibile.
Ogni moto non si compie solo in un luogo, ma anche nel tempo. Ed il tempo, a sua volta, può essere percepito mediante il movimento.
Dato che il tempo è composto da passato e futuro, di cui l'uno non esiste più, perché è già trascorso, e l'altro non esiste ancora, perché dovrà accadere, si potrebbe sostenere che anch'esso non esista e sia solo un'illusione.
Ma in realtà, secondo Aristotele, il tempo esiste e può essere definito come movimento che ammette una numerazione.
Vi sono degli istanti che devono essere intesi come elementi di separazione tra il prima e il poi; ciò che consente di metterli in relazione è la loro connessione al movimento, che dà origine ad un ordine misurabile del moto.
Affinché ciò funzioni, sembrerebbero necessari: un'unità di misura, che può essere definita impiegando il moto periodico di qualche astro, ed almeno un osservatore intelligente dotato di memoria che, al contempo, osservi il moto ed effettui un conteggio.
Ad esempio, associando l'osservazione dei movimenti che accadono con un conteggio progressivo del numero delle rivoluzioni terresti intorno al sole, l'osservatore è in grado di definire una successione di istanti, determinando così il trascorrere del tempo.
Aristotele si chiede anche se il tempo possa esistere senza anime. Il dubbio è lecito, dato che la sua definizione di tempo richiede un conteggio, e senza anime non ci sarebbe nessuno in grado di contare.
La questione è davvero “spinosa”, dato che anche senza osservatori i moti continuerebbero ad avvenire, e il conteggio compiuto da essi potrebbe potenzialmente, o idealmente, avvenire e quindi, in un certo senso, è come se fosse in atto.
Sicché, senza osservatori, il tempo potrebbe continuare ad esistere lo stesso, sebbene non ci sia nessuno ad avere coscienza della sua esistenza. O forse il tempo non esiste ed è solo un modo con il quale l'osservatore intende il mondo?
Con queste considerazioni a proposito del tempo, la trattazione fisica riguardante la cosmologia aristotelica può considerarsi conclusa.
Prima di scendere dalle sfere celesti per occuparci del mondo sublunare, vorrei porre l'attenzione su di un'ultima questione di una certa rilevanza.
La polemica di Aristotele contro gli atomisti non si limita solo al vuoto; in realtà, tutti i principali punti della fisica aristotelica risultano nettamente contrapposti alla concezione filosofica di Democrito.
Democrito sostiene l'esistenza del vuoto? Aristotele replica che il vuoto non esiste, e anche se esistesse il moto non sarebbe possibile al suo interno.
Democrito ammette l'esistenza di molti mondi? Aristotele con la sua teoria dei luoghi naturali lo smentisce, dimostrandone l'unicità.
Democrito si dice convinto che i corpi celesti sono costituiti degli stessi elementi di quelli terrestri? Aristotele erige una separazione tra il mondo celeste ed il mondo sublunare, ammettendo l'esistenza di un quinto elemento dissimile dagli altri per render conto dei moti e della vera natura degli oggetti che popolano le volte celesti.
Democrito ritiene che sia possibile spiegare le differenze qualitative delle cose del mondo mediante differenze quantitative? Aristotele replica negando questa possibilità. E così via...
All'origine di questa divergenza di opinioni nell'ambito della fisica vi è una ragione di carattere filosofico:
Democrito, con la sua teoria basata sugli atomi, cercava di spiegare il mondo interamente su basi meccaniche, sostanzialmente moti e urti di particelle fondamentali non ulteriormente suddivisibili.
Aristotele, d'altro canto, riponeva la sua fiducia per la corretta interpretazione dei fenomeni del mondo nella causalità finale.
Nell'universo aristotelico ogni cosa ha un fine, e questo fine viene elevato a principio di spiegazione.
Serviva un uomo di gran genio, quale fu Democrito, per concepire un universo totalmente in chiave meccanicistica;
ben più semplice, invece, sarebbe stato ammettere l'esistenza di una causa finale per ogni occorrenza, così come fece Aristotele. «La Divinità e la natura» egli dice «non fanno nulla di inutile».
La fisica di Aristotele
L'impostazione teleologica, o finalistica, dell'impianto fisico di Aristotele si manifesta anche nel suo spiccato interesse nei confronti della biologia, sebbene le sue ricerche in questo ambito riguardino la fase più matura del suo pensiero e rispecchino tutt'altri interessi rispetto a quelli della giovinezza.
Perché Aristotele sceglie di occuparsi degli esseri viventi piuttosto che della materia inorganica?
Perché a differenza delle cose inorganiche, gli organismi viventi confermavano il suo pregiudizio filosofico di cercare un fine nelle «opere della natura».
Il fine di un seme è di trasformarsi in un albero, ma quale può essere è il fine di un granello di sabbia del mare?
La stessa fisica di Aristotele è la scienza che si occupa di ciò che gli antichi Greci chiamavano “physis”, che può essere tradotto con il termine “natura”.
Ma in realtà, all'epoca, il termine aveva un significato più ampio rispetto a quello odierno, ed in particolare implicava il concetto di “sviluppo”.
La “natura” di una cosa, nel senso aristotelico, viene ad identificarsi con il suo fine, ovvero con la ragione per cui quella cosa esiste.
Animali, piante e gli stessi elementi hanno un principio interno di moto, che deve essere inteso in senso più ampio del semplice spostamento, includendo così il cambiamento di qualità o di grandezza.
Le cose "hanno una natura", nel senso inteso da Aristotele, se possiedono un simile principio interno di movimento.
E ancora, "sono naturali" tutte quelle cose che mediante un continuo movimento, originato da un principio interno, riescono a giungere al loro compimento.
Quando una successione di avvenimenti è giunta ad una conclusione, appare evidente che tutti quei passi avevano il preciso scopo di avvicinarsi ad essa.
Una simile teoria sembra appositamente concepita per il campo della biologia; funziona decisamente bene per spiegare la crescita degli organismi viventi, ma non si potrebbe dire altrettanto a proposito di una sua eventuale applicazione in altri campi.
Alle ricerche biologiche, Aristotele dedicò circa 12 anni della sua vita in concomitanza della direzione del Liceo.
In questo periodo, egli raccolse una grandissima mole di dati osservativi che catalogò in modo sistematico.
Nelle opere sulla biologia, Aristotele ci parla di ben oltre 500 specie di animali, molte delle quali furono studiate nei dettagli mediante la dissezione, con tanto di rappresentazioni illustrate dei vari organi.
Una simile impresa fu molto probabilmente resa possibile da una collaborazione con i discepoli che frequentavano la sua scuola.
I risultati prodotti dalla fondazione della biologia come scienza empirica furono notevoli, anche se non mancarono errori ed ingenuità, come ad esempio l'aver suggerito che il cuore fosse la sede delle emozioni, ignorando i suggerimenti di Alcmeone che aveva individuato correttamente tale sede nel cervello.
Tra le conquiste invece vi sono la descrizione completa dello sviluppo dell'embrione del pulcino e lo stomaco dei ruminati, con i suoi 4 reparti; il riconoscimento dei cetacei come mammiferi e l'aver compiuto relazioni accurate a proposito della torpedine marina, delle api e della rana pescatrice.
Ma il risultato maggiormente degno di menzione, consiste nell'aver individuato un metodo di classificazione valido per tutti gli animali, che non fu superato fino all'avvento di Linneo nel XVIII secolo, un naturalista svedese considerato il padre della moderna classificazione scientifica degli organismi viventi.
Tale metodo prevedeva la definizione di una “scala naturale” degli esseri viventi, sostanzialmente basata sul numero di organi posseduti e sulle “funzioni” che quell'essere è in grado di svolgere.
Essa si fonda su due assunti principali: 1) gli organi sono correlati, vale a dire che la modificazione di uno di essi in un dato animale si ripercuote su tutto il suo corpo; 2) c'è una continuità della specie, ovvero si passa dalle specie più perfette a quelle inferiori attraverso un processo di modificazione continuo, senza salti né vuoti.
Nel mondo della natura aristotelico non c'è alcuna evoluzione della specie. La riproduzione non determina alcun cambiamento nella sostanza, ma solo nelle caratteristiche accidentali dei nuovi individui.
Tutti gli esseri viventi sono costituiti da due tipi di parti: quelle che sono omogenee e quelle che non lo sono.
Le prime, dette anche omeomere, sono quelle che possono essere suddivise dando origine ad altri parti simili a quelle originarie, come ad esempio la pelle, i muscoli e le ossa.
Le seconde, invece, non omeomere, qualora venissero suddivise perderebbero le loro connotazioni originarie e non potrebbero più svolgere la loro funzione.
Ad esempio, una mano non si suddivide in altre mani, così come il cuore, e se simili parti venissero suddivise in sottoparti non potrebbero più funzionare. Ciò non vale per la pelle.
Aristotele si accorse che il grado di complessità degli esseri viventi cresce con il numero delle parti non omogenee, perché con esse aumenta anche il numero di funzioni specifiche che quell'essere può compiere.
Ovviamente sul gradino più alto della scala egli pone l'essere umano, maschio e adulto, con la sua tipica statura eretta e una spiccata capacità di pensiero. Man mano che gli organi diminuiscono si trovano gli altri animali, dotati di minor organi e capacità.
Conclusioni
Malgrado gli errori, il bilancio dell'attività compiuta nell'ambito della biologia può essere considerato positivo, anche ignorando i contributi di Teofrasto, successore di Aristotele alla guida del Liceo, che riprese e continuò le sue ricerche estendendole al regno dei vegetali.
Un simile giudizio, però, non può essere espresso per il resto della fisica.
La metafisica di Aristotele se da un lato ha il pregio di “salvare i fenomeni” del mondo sensibile, dall'altro ha il difetto di viziare il pensiero con un'impostazione marcatamente teleologica (finalistica).
Quando vediamo un'ape che vola su di un fiore, il senso comune ci suggerisce che il fiore sia rimasto immobile mentre l'insetto si sia spostato.
Inoltre siamo portati a pensare che quel moto abbia un fine e che avvenga, volendo usare il gergo aristotelico, secondo la "natura" dell'ape.
Ma un simile punto di vista non è applicabile alla materia bruta e nessun concetto di "scopo" si rivela utile e indispensabile per la scienza fisica.
Tra le altre cose, la teoria del moto aristotelica è incompatibile con il concetto di relatività nell'ambito degli spostamenti e nessun moto, analizzato in termini rigorosamente scientifici, può essere considerato al di fuori della relatività.
Se un oggetto A si muove relativamente rispetto ad un secondo oggetto B, allora è vero anche che B si muove relativamente rispetto ad A, e non ha alcun senso dire che uno dei due oggetti è in moto mentre l'altro è fermo.
La cosmologia aristotelica, pur essendo totalmente falsa, s'impose con forza.
La convinzione che i corpi celesti siano formati da un elemento dissimile da quelli del mondo sublunare, e che per questo motivo non siano soggetti alla nascita, al mutamento e alla morte, si diffuse nella cultura occidentale e fu abbandonata soltanto nel XV secolo.
Ad un certo punto ci si accorse che le comete erano corruttibili, quindi avrebbero dovuto appartenere alla sfera sublunare. Ma nel XVII secolo si comprese anche che esse seguivano delle orbite ellittiche intorno al Sole, e che raramente si trovavano ad una distanza minore di quella della Luna rispetto alla Terra.
Per poter affermare che la Terra non si trova al centro dell'universo ma compie un giro su se stessa ogni giorno ed uno intorno al sole ogni anno secondo un'orbita ellittica, Copernico, Keplero e Galileo dovettero combattere le teorie aristoteliche non meno dell'ottusità dei fanatici della Bibbia.
La teoria che afferma l'eternità e l'incorruttibilità dei corpi celesti è da tempo stata abbandonata.
Il Sole, e le altre stelle, così come i pianeti del sistema solare, e come essi anche tutti gli altri, per quanto possano avere una lunga vita, non sono immortali e non esistono da sempre.
Per quanto ne sappiamo oggi, nel mondo del visibile non c'è niente che sia esente dal mutamento.
Come abbiamo avuto modo di sottolineare la teoria del moto aristotelica è incompatibile con la Prima legge del moto newtoniana, anche nota come Principio d'inerzia.
Secondo tale principio un corpo mantiene il proprio stato di quiete, o di moto rettilineo uniforme, finché una forza non agisce su di esso.
Il moto attorno al centro dell'universo attribuito ai corpi celesti, che Aristotele giudicava “naturale”, in realtà richiede una forza diretta verso il centro delle loro orbite che si supponeva fossero circolari.
Quando un oggetto si muove di moto circolare, infatti, si ha un continuo mutamento della direzione del moto, ed affinché ciò avvenga è necessario che ci sia una forza ad agire su di esso, altrimenti l'oggetto schizzerebbe via dall'orbita seguendo una traiettoria rettilinea tangente alla circonferenza.
Dato che nella fisica di Aristotele si sosteneva che il moto naturale dei corpi sublunari fosse rettilineo, si finì per credere che un proiettile lanciato in orizzontale rispetto al terreno si sarebbe mosso orizzontalmente in linea retta per un certo tempo, per poi cadere verticalmente.
L'umanità dovette attendere gli esperimenti di Galileo per smentire questa opinione, mediante i quali egli scoprì che in realtà le traiettorie dei proiettili sono delle parabole.
In conclusione, possiamo affermare che adottando una concezione teleologia (finalistica) Aristotele riprese le orme di Platone e certamente riuscì a muovere dei grandi passi in avanti.
Ma il sentiero percorso lo avrebbe condotto lontano dalla verità.
Per dare alla luce la scienza moderna, infatti, i pensatori delle epoche successive dovettero comprendere la necessità di abbandonare totalmente quel sentiero metafisico intrapreso dai due più grandi pensatori dell'antica Grecia: Platone ed Aristotele.
Mirco Mariucci
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Fonti:
- Storia della filosofia antica, di Giuseppe Cambiano.
- Storia della filosofia, di Nicola Abbagnano.
- Storia della Filosofia occidentale, di Bertrand Russell.
- Storia del pensiero scientifico e filosofico, di Ludovico Geymonat
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