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venerdì 3 giugno 2016

La Politica di Aristotele: Stato, famiglia e schiavitù.


Tratto dal saggio Il Sapere degli Antichi Greci, disponibile in formato cartaceo e digitale al seguente indirizzo, anche in download gratuito.


Tre su tutti sono gli elementi sui quali ci si deve concentrare se si vuole comprendere la Politica di Aristotele: lo Stato, la famiglia e la schiavitù.

Cominciamo con lo Stato. Così come sostenuto da Platone, anche per Aristotele l'uomo di per sé non è un essere totalmente autosufficiente. 

Un essere umano isolato dagli altri probabilmente non riuscirebbe neppure a sopravvivere, e pur ammettendo che ci riesca, di certo non riuscirebbe a vivere bene tanto quanto potrebbe fare vivendo in comunità con i propri simili.

Non solo: neanche la virtù è realizzabile al di fuori della vita associata, perché è solo grazie all'educazione e alla disciplina imposta dalle leggi che l'essere umano raggiunge la virtù.

Fa parte della natura dell'uomo vivere in quella forma di organizzazione sociale e politica nota come “polis”, vale a dire le tipiche città-stato diffuse nell'antica Grecia, ed è solo all'interno della polis che l'essere umano riesce ad esprimere pienamente la propria natura.

Da simili considerazioni scaturisce la celebre tesi aristotelica riassumibile nel motto «L'uomo è per natura un animale politico», e si può già intuire che lo Stato ideale di Aristotele non sconfini nell'utopia, ma guardi con concretezza al modello della polis greca.

Secondo Aristotele la società umana pienamente sviluppata assume la forma di uno Stato, e l'intero che ne scaturisce è superiore alle sue parti. 

È solo all'interno di uno Stato che un individuo può realizzare il suo fine, perché lo Stato non ha il sol scopo di assicurare l'esistenza materiale umana ma anche un vissuto spirituale che guarda alla felicità.

Colui che inventò lo Stato, dice Aristotele, è il più grande tra i benefattori, perché senza la legge l'uomo è il peggiore degli animali e l'esistenza della legge segue dall'esistenza dello Stato.

L'istituzione dello Stato non serve soltanto agli scambi commerciali e ad eliminare i delitti, ma anche a favorire le nobili azioni e ad assicurare una buona vita. È questo lo scopo di una società politica. 

Mediante lo Stato gli esseri umani concretizzano la forma più alta di comunità che tende al bene supremo.

Lo Stato, però, non è la forma più semplice di associazione tra gli umani. 

Sebbene gli Stati siano il risultato dell'unione di vari villaggi che cercano di raggiungere l'autosufficienza, quest'ultimi a loro volta sono formati da un insieme di nuclei minimali che hanno origine dall'esigenza di accoppiarsi per riprodursi: stiamo parlando della famiglia.

La famiglia tipica, secondo Aristotele, deve essere composta da un adulto maschio libero, dalla propria moglie, dai figli e dagli schiavi.

Il capofamiglia esercita la propria autorità nei confronti degli altri componenti del nucleo familiare.

L'autorità del padre nei confronti dei figli cessa non appena questi diventano adulti ed entrano a far parte della vita politica, divenendo cittadini a pieno titolo; nei confronti della moglie, invece, l'autorità non trova un termine, poiché le donne mancano di autorevolezza e sono proprie dei mariti.

Ma la maggior parte della discussione riguardante la famiglia si concentra sugli schiavi, che sono considerati come una parte fondamentale del nucleo familiare.

Gli schiavi appartengono ai padroni alla stregua degli altri beni materiali della casa o degli animali, e devono sottostare in modo obbligato alla volontà dei padroni.

Aristotele ritiene che la schiavitù sia giusta, utile e opportuna, a patto che gli schiavi siano per natura inferiori ai loro proprietari.

Egli ritiene che vi siano individui predisposti a fare gli schiavi a causa della loro natura che li rende incapaci di compiere le virtù più elevate.

La distinzione tra schiavo e uomo libero è naturale e distinta tanto quanto quella tra il sesso maschile e quello femminile, o tra la vecchiaia e la giovinezza.

Ma come ci si può procurare degli schiavi? Gli schiavi potevano essere acquistati, ma ciò che rendeva di fatto schiavo un essere umano era la sconfitta in battaglia.

Nell'antichità era prassi comunemente accettata che i vinti in guerra diventassero di proprietà dei vincitori. 

Aristotele è consapevole che, a causa di questa modalità d'asservimento, possa accadere accidentalmente che alcuni individui finiscano per diventare schiavi contro la propria vera natura.

La concezione di schiavitù tradizionale, quindi, può anche essere ingiusta, ma qualora si verifichino le condizioni naturali da egli teorizzate, allora diviene pienamente legittimata. 

Individui incapaci di deliberare sono per natura destinati ad essere schiavi degli altri che invece dimostrano quella capacità.

Il vero schiavo, a differenza degli animali, è dotato di ragione, ma la sua ragione è tale che gli consente soltanto di comprendere ed eseguire i comandi impartiti dal padrone e non di compiere scelte ed azioni in modo autonomo. 

Così come gli animali rendono di più nel lavoro quando sono guidati dai contadini, anche per gli schiavi accade la stessa cosa con gli ordini impartiti dai loro padroni.

In quanto incapaci di dirigere la loro vita, gli schiavi si realizzano grazie alla dipendenza ed alla subordinazione.

Gli schiavi non dovrebbero essere greci ma di una razza inferiore dotata di minore intelligenza.

La bipartizione tra schiavi e uomini liberi tende a rispecchiare il dualismo barbaro e greco. Il greco infatti è il perfetto candidato per il ruolo di “animale politico”, maschio, adulto e libero. 

Ciò che compete agli schiavi barbari è il lavoro duro e abbruttente, come ad esempio quello della terra.

Tutto ciò fa di Aristotele un disgustoso teorico della schiavitù naturale, convinto che fin dalla nascita alcuni siano destinati alla servitù ed altri al comando. 

Vi è poi una curiosa riflessione nei confronti della guerra dalla quale si evince che i vincitori hanno ragione ed i vinto hanno torto.

Chi esce vittorioso da una guerra dimostra una virtù superiore. La guerra è giusta quando viene intrapresa contro popoli destinati per natura ad esser governati ma che sono restii ad ammetterlo; in quel caso anche la loro schiavitù è legittima.

Ciò è sufficiente a giustificare ogni guerra, dal momento che nessun popolo ammetterebbe di essere inferiore e di dover esser governato, e l'unica prova rivelatrice della volontà della natura può essere ricercata analizzando gli esiti della guerra!

A quei tempi la Grecia era un laboratorio di esperimenti politici: vi erano numerose città-stato indipendenti che differivano tra esse per norme, usi e convenzioni sociali.

Aristotele si pose quindi il problema di stabilire quale fosse la forma di Stato migliore tra quelle possibili da realizzare e di dotarlo di una costituzione adatta a tutte le città.

Tra l'utopia ricercata da Platone e il pragmatismo di chi ricerca lo Stato ideale tra quelli già esistenti, Aristotele decise di seguire una via intermedia.

L'utopia esposta nella Repubblica non sembra soddisfarlo e viene criticata da vari punti di vista. 

Al contrario di Platone, Aristotele riconosce piena legittimità alla famiglia intesa in senso tradizionale e si dice contrario al suo superamento adottando l'idea di famiglia allargata alla collettività. 

Platone pensa che dando il nome di “figlio” a tutti coloro che hanno un'età compatibile con questa parentela (stessa cosa per l'appellativo di “padre”), e nascondendo i veri legami di parentela con la complicità dello Stato, improvvisamente i medesimi sentimenti che si hanno tra padri e figli naturali si ravvisino anche nella moltitudine di padri e figli di nome ma non di fatto.

Aristotele sostiene che il progetto platonico di famiglia annacquerebbe l'amore: è meglio essere un cugino vero e consapevole piuttosto che un “figlio” della comunità platonica. Perché se i “figli” saranno comuni a molti “padri” l'effetto sarà che verranno trascurati in comune.

Procede muovendo delle curiose osservazioni: se le donne sono in comune, chi baderà alla casa?

Dato che l'astenersi dall'adulterio è una virtù, sarebbe un peccato creare un sistema sociale nel quale non esista più né questo vizio né la virtù corrispondente!

Lo pseudo-comunismo di Platone turba Aristotele.

Egli pensa che ciò che è comune ad un grande numero di persone finisca per essere tenuto in minor considerazione rispetto allo stesso bene posseduto da un ristretto numero d'individui o, al limite, da uno solo di essi.

È meglio che ciascuno pensi ai propri affari e che la proprietà sia privata, perché se ad esempio la terra diventasse pubblica cesserebbe anche di essere ben curata.

Le persone, però, dovrebbero avere una bontà d'animo tale da far si che l'uso che ne risulti sia largamente comune.

Bontà e generosità sono delle virtù, che senza la proprietà privata non potrebbero manifestarsi.

La comunione dei beni, inoltre, porterebbe ad adirarsi contro le persone più pigre, e si manifesterebbero litigi come accade tra i compagni di viaggio.

Riconoscendo la piena legittimità alla famiglia nucleare ed alla proprietà privata, Aristotele si discosta in modo inequivocabile dall'utopia platonica.

Egli individua la forma ideale di Stato nella polis greca, e si preoccupa di delineare la miglior costituzione possibile, partendo da un'accurata analisi di quelle già esistenti e dei problemi da esse generati.

Sembra che per ottenere il suo scopo Aristotele raccolse e comparò ben 158 costituzioni statali, delle quali però soltanto quella di Atene venne ritrovata.

Ma che cos'è una polis? 

È una comunità organizzata nella forma di città-stato che si costituisce grazie ad un insieme di cittadini liberi che possono essere definiti tali in base alla loro partecipazione alle funzioni pubbliche di tipo politico e giudiziario.

A differenza del potere esercitato nel nucleo familiare, in particolare nei confronti degli schiavi, in linea di principio nella polis il potere è esercitato su cittadini liberi ed eguali.  

Ma ogni cittadino libero ha il diritto di partecipare attivamente a quei processi dove vengono prese le decisioni di interesse pubblico.

Il cittadino libero può prendere parte alle assemblee pubbliche, può far parte della magistratura e assumere il ruolo di giudice nei tribunali.

La libertà politica non consiste nel vivere come si vuole senza regole o senza dover render conto a nessuno delle proprie azioni, ma nel governare ed essere governati a turno e nel rispetto della legge.

Nelle polis greche non vi sono forme di governo rappresentative, ma una distribuzione di cariche dalla durata limitata e prestabilita, che obbediscono a criteri di turnazione e rotazione.

La distribuzione del potere, però, può variare da città-stato in città-stato a seconda della costituzione adottata, così come la forma di governo. Ed è per questo che Aristotele s'interroga cercando d'individuare quale sia la miglior forma tra essi.

I governi si differenziano a seconda del numero di individui che hanno facoltà di esercitare il potere.

Quando si ha un uomo solo al comando vige una monarchia; se ad avere il potere sono un piccolo gruppo di persone si ha un regime aristocratico; mentre si ha un governo costituzionale (o politeia) quando a governare sono in molti. 

A ciascuna di esse corrisponde una forma degenerata, nella quale "il" o "i" membri facenti parte del governo abusano del loro potere, compiendo favoritismi ed infrangendo le leggi a vantaggio degli stessi membri del governo, o di una data classe, e non per il bene comune del popolo.

Queste tre forme degeneri sono rispettivamente: la tirannide, l'oligarchia e la democrazia.

La tirannide infatti altro non è se non una monarchia che ha per fine il vantaggio del monarca, l'oligarchia cura gli interessi degli abbienti ed infine la democrazia degenera quando cerca di ottenere il vantaggio dei nullatenenti rispetto alle altre classi. 

In nessuno di questi casi si sta inseguendo il bene comune ma quello particolare e, paradossalmente, sempre secondo Aristotele, anche la democrazia finisce per diventare una sorta di tirannide quando l'arbitrio della moltitudine domina incontrastato e i più agiscono ignorando perfino la legge.

In generale si ha un buon governo quando chi esercita il potere aspira al bene comune; si ha un cattivo governo nel caso contrario. 

I governi quindi non si definiscono buoni o cattivi in base alla forma della loro costituzione, ma in base alle qualità etiche e morali dei loro membri.

Ma ciò non è totalmente vero. In accordo alla dottrina del giusto mezzo, Aristotele sostiene che una limitata agiatezza sia molto più probabilmente associata alla virtù che non un'estrema povertà o un'estrema ricchezza.

Se ne deduce che il miglior governo dovrebbe essere formato dalla classe media, cioè da cittadini forniti di modesta fortuna.

In generale egli sostiene che la monarchia sia superiore all'aristocrazia, e a sua volta l'aristocrazia sia migliore del governo costituzionale.

Ma la cosa peggiore di tutte deriva dalla corruzione di ciò che è migliore.

Quindi l'ordine risulta rovesciato, così che la tirannide è senz'altro peggiore dell'oligarchia che a sua volta è inferiore alla democrazia.

E poiché i governi reali sono cattivi e degenerati, Aristotele finisce col compiere una relativa difesa della democrazia, ammettendo che tra i governi esistenti le democrazie sono le migliori.

Si tenga presente che la concezione democratica nell'antica Grecia era decisamente più radicale di quella odierna.

Basti sapere che Aristotele definiva come “oligarchico” il modo di procedere basato sull'elezione dei magistrati, mentre considerava “democratico” sorteggiarli a sorte tra la popolazione.

Nelle democrazie più radicali l'assemblea dei cittadini agiva al disopra di qualsiasi legge, ed era pienamente libera di decidere su ogni questione. 

I tribunali erano formati da un gran numero di cittadini liberi anch'essi estratti mediante un sorteggio.

Ma qual è, in definitiva, la miglior costituzione possibile per una città-stato?

Aristotele non delinea in modo stringente un governo ideale, ma indica delle linee guida che, se rispettate, consentirebbero di realizzare la forma migliore di ogni governo.

La prima e principale indicazione, è che la costituzione dello Stato debba essere finalizzata alla prosperità materiale, alla vita virtuosa e alla felicità dei cittadini.

Le conquiste oltre le frontiere non rappresentano lo scopo principale di uno Stato, sebbene in alcuni casi la guerra possa essere uno strumento utile per raggiungere la felicità della collettività.

La vera felicità di uno Stato dev'essere ritrovata nelle attività che assicurano e solo legate alla pace.

Fanno eccezione le guerre combattute per la conquista degli schiavi, giuste e legittime. Queste, però, devono essere combattute contro i barbari, perché nessun greco è schiavo per natura.

Per Aristotele la guerra è un mezzo, ma non un fine. 

Uno Stato non dovrebbe essere troppo grande, perché una moltitudine di persone non può essere ordinata. Ma non può nemmeno essere troppo piccolo, perché deve assicurare una certa autosufficienza.

L'estensione dev'esser tale da poter essere totalmente osservata dalla cima di una vetta.

Se da un lato è importante che lo Stato tenda all'autosufficienza, dall'altro è altrettanto importante che avvengano anche degli scambi commerciali, ovvero importazioni ed esportazioni.

Il numero degli abitanti deve essere abbastanza piccolo da far in modo che tutti conoscano reciprocamente i propri concittadini, in modo da decidere al meglio nelle questioni pubbliche e nei processi. 

I greci sono i più adatti a vivere in libertà e a dominare gli altri popoli. Chi lavora per vivere non deve avere diritto alla cittadinanza.

Le attività lavorative non devono esser svolte dai cittadini, ma devono essere delegate agli schiavi e agli stranieri. 

In tal modo i cittadini possono disporre di tempo libero da impiegare per perfezionarsi moralmente e culturalmente, potendosi dedicare alla vita politica.

I cittadini non devono condurre la vita né degli operai né dei commercianti, perché una simile costrizione di vita è ignobile e allontana dalla virtù.

La ricchezza derivante dal commercio è odiata da Aristotele, perché ritenuta innaturale.

Quando si pensa agli oggetti si possono identificare due tipi di uso: uno proprio e l'altro improprio.

Utilizzare un oggetto è legittimo e naturale, venderlo per ottenere profitto è degradante.

Ma il sistema per arricchire più detestato è l'usura, intesa in senso molto più generale di quello odierno. 

“Usura” per Aristotele significa ogni tipo di prestito ad interesse, vale a dire ciò che genera denaro dal denaro, e non dai beni materiali.

Il denaro, egli dice, aveva lo scopo di favorire gli scambi e non di accrescersi per interesse. 

La maniera “giusta” e “naturale” per arricchirsi è di utilizzare in modo abile le case e le terre. 

Lo Stato deve preoccuparsi dell'educazione dei cittadini, che deve essere uniforme e non solo finalizzata alla guerra, ma a preparare alla vita pacifica e a tutte quelle funzioni utili e necessarie per la virtù.

Tutto ciò sembra suggerire la predilezione per una città composta da una numerosa classe media di piccoli proprietari terrieri, né troppo poveri né troppo ricchi.  

Lo scopo sembrerebbe quello di produrre dei signori colti, che uniscano alla mentalità aristocratica l'amore per l'arte e le scienze, la cui qualità di vita è resa possibile da una classe inferiore di lavoratori schiavizzati.

Per un moderno libero pensatore convinto sostenitore dell'uguaglianza e della libertà di tutti gli esseri umani, ben poco delle riflessioni politiche di Aristotele può essere salvato.

Mirco Mariucci

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Fonti:
  • Storia della filosofia antica, di Giuseppe Cambiano.
  • Storia della filosofia, di Nicola Abbagnano.
  • Storia della Filosofia occidentale, di Bertrand Russell.
  • Storia del pensiero scientifico e filosofico, di Ludovico Geymonat

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